I quotidiani a pagamento perdono, tra il 2009 e il 2011, il 7% di lettori, attestandosi ad un'utenza del 47,8%. La free press, al contrario, cresce seppur di poco (+1,8%, salendo al 37,5%).Rimane stabile la lettura delle testate giornalistiche on line (+0,5%, con un'utenza del 18,2%), che però non si possono più considerare le versioni esclusive del giornalismo sul web, perché i diversi portali Internet di informazione contano oggi un'utenza pari al 36,6% degli italiani.Per quanto riguarda i dispositivi mobili, invece, tra i giovani spicca il dato relativo agli smartphone (+3,3%, con un'utenza che sale complessivamente al 17,6% e al 39,5% tra i giovani), mentre c'è una flessione del 5,5% tra il 2009 e il 2011 nell'uso del telefono cellulare in generale.Tra le fonti d'informazione, rivela il rapporto, dominano ancora i telegiornali scelti come fonte dall'80,9% degli italiani Poco indipendenti,e troppo legati al potere sono i giornalisti secondo il 67,2% degli italiani che ritengono gli operatori dell'informazione in Italia preparati ma non abbastanza indipendenti, mentre per il 67,8% di loro il giornalismo italiano e'"molto spregiudicato", che non fanno raggiungere alla stampa nemmeno la sufficienza in termini di reputazione. Insomma per quasi la metà degli intervistati (il 49,8%) il "Quarto Potere" in Italia è poco affidabile.
Il modo di comunicare e' in evoluzione e a dimostrarlo c'e' anche il fatto che da un lato si sia attenuato il digital divide, e dall'altro, si sia, invece, ampliato il press divide che testimonia la crescente estraneita' nei confronti della lettura dei mezzi su stampa. La ricerca del Censis si sofferma in particolare su otto principali capitoli che danno la misura di quanto l'era digitale stia influenzando palinsesti e fonti d'informazione che diventano sempre piu' 'fai da te'. Insomma e' l'era dei consumi multimediali personali e autogestiti. L'era in cui gli internauti sono diventati la maggioranza. 
Nel mondo dell'informazione, la centralità della televisione è ancora fuori discussione, visto che l'80,9% degli italiani la utilizza come fonte. Tra i giovani, però, il dato scende al 69,2%, avvicinandosi molto al 65,7% raggiunto dai motori di ricerca su Internet e al 61,5% di Facebook. A livello generale, al secondo posto si collocano i giornali radio (56,4%), poi i quotidiani (47,7%) e i periodici (46,5%).
Dopo il televideo (45%), ci sono i motori di ricerca come Google (41,4%), i siti web di informazione (29,5%), Facebook (26,8%), i quotidiani online (21,8%). Nel caso delle tv all news (16,3% complessivamente) risultano discriminanti l'età (il dato sale al 20,1% tra gli adulti) e il titolo di studio (il 21,7% tra i diplomati e laureati). Gli smartphone sono al 7,3% di utenza e Twitter al 2,5%. Riguardo gli smartphone, i giovani fanno da traino: aumentano del 3,3%, con un'utenza che sale complessivamente al 17,6% e al 39,5% proprio tra i giovani. Mentre l'uso del cellulare in genere fa registrare una flessione (-5,5% tra il 2009 e il 2011), complici gli effetti della crisi.
Se il presidente De Rita ha sostenuto la necessita' di andare oltre l'orlo della pagina per scoprire cosa c'e' effettivamente dietro pere poterne comprendere l'evoluzione reale il direttore Roma ha detto che" dobbiamo prendere la strada che, attraverso la diffusione dei servizi digitali, puo' portare il sistema-Italia verso la crescita economica, sociale e culturale, assicurando un futuro porospero alle giovaniu generazioni".
Il presidente dell'Ucsi, Andrea Melodia ha approfondito l'aspetto televisivo della comunicazione sostenenendo che " la televisione sta cambiando molto rapidamente, ma continua a restare il mezzo in assoluto il piu' importante". Melodia, che ha ricordato che i rapporti censis /Ucsi sono nati per una intuizione di Emilio Rossi, uno dei protagonisti del mondo dell'informazione, ha sottolineato che " il servizio pubblico prenda coscienza del potere che aqncora gli ascolti gli riconoscono e, non rinunciando, a pretendere dalla politica chiarezza di mandato e autonomia professionale, cominci , con le sue forze, ad attuare interventi di organizzazione . Deve, inoltre, ricostruire la propria competenza a cominciare dal settore informativo". ( agenzie- red)
RIPORTIAMO DI SEGUITO L'INTERVENTO INTEGRALE DEL PRESIDENTE DELL'UCSI,ANDREA MELODIA

Per coerenza alla missione della associazione che rappresento, e che da 10 anni collabora, grata, con il CENSIS a questi rapporti annuali sulla comunicazione, fortemente voluti da Emilio Rossi, il mio intervento riguarderà soprattutto alcuni aspetti etici.
C'è materia abbondante, nei dati, per cogliere la complessità dei temi.
La convergenza digitale e la rete hanno scompaginato le competenze, le pratiche professionali, gli assetti deontologici delle diverse attività. Oggi occorre ricostruire nuove sintesi.
Si possono fare scoperte interessanti. Faccio un esempio: uno come me, di matrice televisiva generalista, negli ultimi dieci anni si è sentito dire, alternativamente, che la televisione come la conosceva è destinata a sparire, anzi forse è già sparita, oppure no, che durerà ancora qualche anno ma che certo internet finirà per farla da padrone... beh, da questi dati del Censis e anche da altri dati ricavo che la sola verità è che la televisione sta cambiando molto rapidamente, che questo cambiamento le ha consentito di restare in assoluto il mezzo di comunicazione più importante, anche tra i giovani (il consumo di TV è sceso solo dell'1,1 per cento in dieci anni: viene da ridere, è passato dal 98,5 al 97,4 per cento! E sotto i 30 anni è al 99,3 %!) Eppure, se ne parlo con i miei studenti, qualcuno ha cercato di convincerli, o qualche altro si è comportato nell'organizzare i palinsesti, come se la televisione fosse fatta per i vecchi.
Certo, al centro dell'idea di televisione forse non c'è più il canale lineare fatto con un palinsesto di 24 ore, anche se ci sono molte buone ragioni per pensare che questa forma resti una necessità sociale non superata. Ma se guardiamo alla televisione con un occhio più digitale, scopriamo che si può capovolgere il punto di vista di quello che ormai è un luogo comune. Non è internet che assorbirà la televisione, piuttosto è la televisione che sta assorbendo internet, perché ormai circa il 40%, in Italia (in aumento, e già di più negli Stati Uniti) del traffico su Internet è fatto di video.
E a questo punto mi chiedo: tutti i cambiamenti, la velocità, la crossmedialità... ma siamo noi professionisti che dovremmo sapere quali sono le garanzie di affidabilità, di autorevolezza, di rispetto del pluralismo, di servizio allo spettatore che dovrebbero trovare applicazione oggi anche su internet. Invece, e siamo ancora ai dati di questo rapporto, tutti sono convinti che Internet sia un modello di pluralismo e di democrazia, mentre gli indici di attendibilità della televisione hanno certamente tendenza negativa. Conclusione diffusa: ci penserà internet a garantire pluralismo e autonomia all'informazione.
Invece noi sappiamo, o almeno gli esperti ci fanno giungere questo allarme, che le tecnologie si preparano a trattare i cittadini che cercano l'informazione su internet con lo stesso criterio con cui gli algoritmi di ricerca oggi già li orientano verso i prodotti di consumo. Ovvero: se mi accorgo che sei interessato a un certo tipo di prodotto ti oriento e ti mando pubblicità conseguente (e questo già succede) ma domani, se mi accorgo che sei interessato alla politica di destra o di sinistra ti porto solo alle notizie coerenti, se non sei interessato alla politica, meglio ancora, faremo il possibile per tenerla lontana da te.
Dunque Internet potrebbe non garantire né maggiore obbiettività, né autonomia, né pluralismo. Rischia anch'esso di essere sempre meno affidabile, o almeno di richiedere virtù rare ai cittadini. Dunque, ancora, occorre ricostruire, faticosamente, un rapporto equilibrato tra la credibilità e l'autorevolezza dei diversi media, sempre più collegati da contenuti crossmedializzati.
Conclusione prima: anche se accettiamo con fiducia e speranza un mondo nel quale acquistano voce milioni e milioni di nuovi comunicatori, siamo lontanissimi dalla condizione di poter rinunciare ai comunicatori professionali, alle loro competenze e alle loro responsabilità. Però abbiamo bisogno di professionisti davvero competenti e responsabili. L'opinione sulla credibilità dei giornalisti che emerge dall'indagine dovrebbe portare la categoria a una riflessione profonda.
Conclusione seconda. Una parte del sistema informativo italiano è ancora succube di una concezione forse postsessantottina: sembra che noi giornalisti ci sentiamo liberi solo se gridiamo ai quattro venti le nostre opinioni politiche. Così giornalismo e politica si danneggiano a vicenda, perché la gente si convince sempre più che la politica è scontro preconcetto e che i giornalisti sono i suoi naturali megafoni. Invece sarebbe necessaria una rispettosa distanza tra le due funzioni, a cominciare dal servizio pubblico radiotelevisivo, che deve continuare ad essere una garanzia di pluralismo e di democrazia.
Oggi assistiamo a momenti non generalizzati ma diffusi di balcanizzazione della informazione RAI, spesso gestita nelle forme più virulente al di fuori delle Testate giornalistiche. E comunque siamo di fronte a scelte che sempre meno rispettano l'autonomia dell'azienda, la sua cultura professionale, perché nascono e si sviluppano in corpi estranei, in assenza di trasparenza, senza neppure rispettare le istituzioni politiche.
Non si tratta di difendere il "partito RAI". Voglio difendere il valore costituzionale del servizio pubblico, in qualche modo la sua sacralità al servizio dei cittadini, e quindi il valore di una missione e di una cultura del servizio pubblico finalizzata a questa missione.
Allora, se questi sono gli obbiettivi, si tratta di progettare un percorso, che evidentemente comporta una virata rispetto alle pratiche degli ultimi anni. Anzi, per essere più chiari, degli ultimi decenni: perché nessuno pensi che la RAI di oggi sia figlia di uno specifico orientamento politico governativo. E' invece figlia di qualcosa che è cominciato verso la fine degli anni '80, cioè prima di Tangentopoli, e che è continuato in tutti questi anni come effetto della incapacità dell'azienda, pressata dalla concorrenza, a costruire un percorso interno di salvaguardia delle professioni creative, nelle reti e nelle testate, conservando una cultura capace di esercitare la missione di servizio pubblico nel nuovo ambiente competitivo. In questa incapacità di fondo si sono alternate, con simili responsabilità sostanziali, gestioni di sinistra e gestioni di destra. Credo che in questa pratica autolesionista l'azienda abbia avuto scusanti ma anche responsabilità.
Deve cambiare l'atteggiamento della politica: si deve capire perché è ancora necessario un servizio pubblico nel mondo della comunicazione. La sinistra e la destra devono convincersi che il servizio pubblico non realizza né la propria legittimazione né la propria illegittimità nella critica a Berlusconi, ma che suo compito è ricostruire la coesione sociale, il rispetto per la politica, il gusto per la cultura; perché che il servizio pubblico correttamente gestito serve alla qualità della comunicazione, della politica e della società intera. Tutti, compresi i concorrenti nell'imprenditoria privata, hanno da guadagnare nel vederlo funzionare bene.
Forse è giunto il momento, e i dati sui consumi televisivi che emergono dal rapporto mi sembra rafforzino questa opinione, che il servizio pubblico prenda coscienza del potere che ancora gli ascolti gli riconoscano, e non rinunciando a pretendere dalla politica chiarezza di mandato e autonomia professionale cominci, con le sole sue forze, ad attuare interventi di organizzazione e di selezione interna coerenti con la necessità di ricostruire la propria unità e competenza, a cominciare dal settore informativo.
In questo credo di essere coerente con quanto mi ha insegnato Emilio Rossi, che nel 1975, quando si preparava la legge di riforma della RAI, già parlava dei rischi della lottizzazione nelle sue forme più degenerate.

 

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