tiziana cantone

  • L'odio on line. La responsabilità dei Social e quelle dei cittadini

    Facebook è finito ancora una volta al centro del dibattito sui media e sulla loro regolamentazione per due casi diversi. In Germania, racconta Der Spiegel, il fondatore Zuckenberg e i suoi collaboratori sono accusati di aver violato la legge contro l’incitamento all’odio e contro il negazionismo della Shoah, per non aver rimosso dei post filonazisti. In Italia sono sotto accusa per il caso dei video sessuali di Tiziana, la giovane donna che si è suicidata dopo la loro diffusione virale. Il tribunale di Napoli Nord ha stabilito che Facebook avrebbe dovuto intervenire per cancellare i post insultati o denigratori non appena l’interessata li ha segnalati, senza aspettare l’intervento del tribunale stesso.



    Ha così ripreso spazio il dibattito su cosa sono i social network e su quali sono, di conseguenza, le loro responsabilità. Loro (Facebook, ma ancora di più Twitter e poi tutti gli altri) tendono a considerarsi solo degli hosting provider. Come dire: noi vi diamo l’autostrada, non siamo responsabili di come guidate. I contenuti, quindi, sono sotto la responsabilità degli utenti.
    Posto che Internet è nato come lo spazio della libertà totale, in cui finalmente tutti potevano avere voce, e che come tale è ancora vissuto, non si può ignorare che esso è diventato anche il luogo dove si coltiva e si diffonde l’odio. Riguardo alla possibilità di regolamentarlo, osservatori ed esperti si collocano su posizioni diverse, che, semplificando, si potrebbero riassumere attorno a due poli: quello nordamericano e quello europeo.
    Negli Stati Uniti d’America il primo emendamento tutela anche le espressioni d’odio e dagli anni Novanta questa tutela è stata estesa a Internet. Significa che il Governo non può intervenire con strumenti censori, anche se questo non esclude che gli operatori privati possano autoregolamentarsi. E in realtà sia Facebook che Twitter si sono dati delle policy, sia pure piuttosto elastiche.
    L’Europa, invece, tende a giustificare – a volte ad auspicare – l’intervento normativo, volto a limitare il diffondersi delle espressioni di odio. In sostanza, in Europa si tende a vietare ciò che negli Usa è permesso, nel nome di un equilibrio tra la libertà di espressione e la tutela dei soggetti più deboli, o comunque tenendo conto dell’oggettiva difficoltà a difendersi da parte di chi diventa oggetto di bullismo, stalking, odio on line.
    L’approccio Nordamericano è accompagnato dalla considerazione che le tecnologie sono solo un canale neutro e quindi portano ad una deresponsabilizzazione; quello Europeo è accompagnato dall’idea che gli strumenti tecnologici portano cambiamenti negli usi e costumi delle persone e delle società, e quindi non sono del tutto neutri.
    Inutile dire che i grandi social network fanno capo a società statunitensi, che quindi tendono a riferirsi a quell’impostazione culturale e a quella legislazione.
    Entrambe le posizioni, comunque, contengono dei pericoli: la prima rischia di consegnare la Rete nelle mani dei più violenti e dei più forti, la seconda di indurre ad interventi ciecamente censori. Come è successo nel settembre scorso, con la famosissima foto della bambina che, durante la guerra nel Viet Nam, scappa dallo scoppio di una bomba al napalm che le ha bruciato i vestiti, lasciandola nuda. Una foto del 1972, che probabilmente ha contribuito alla fine di quella guerra e comunque si è depositata nell’immaginario collettivo (vedi  http://bit.ly/2c5MWGC). Lo scrittore norvegese Tom Egeland l’ha postata sulla propria pagina Facebook ma il colosso di Palo Alto l’ha censurata, perché contraria ai community standard nei confronti della pedofilia. Salvo poi riammetterla dopo che la rete è insorta.
    Bisogna ammettere che è un po’ inquietante il fatto che sia un gruppo di avvocati ben pagati o, peggio ancora, un algoritmo, a decidere che cosa si può o non si può far circolare in rete.
    Nel caso di Tiziana, Facebook Ireland ha sostenuto davanti al tribunale di non essere obbligata a rimuovere i post offensivi, fino ad uno specifico pronunciamento del tribunale. Perché, ha sostenuto l’azienda, noi abbiamo una responsabilità limitata e non possiamo fare un controllo proattivo di tutto ciò che viene pubblicato, ma se un Tribunale ordina, eseguiamo. Ragionamento che non fa una grinza, se non fosse che Tiziana si è suicidata e che purtroppo ci sono stati altri casi di ragazzi e ragazze anche molto più giovani che sono stati spinti alla disperazioni a causa delle pressioni subite sui social.
    Inoltre la difesa a tutto campo della libertà di espressione e del rispetto dei contenuti dei singoli utenti si scontra con il dato oggettivo che i social analizzano questi stessi contenuti e li rivendono per aumentare gli introiti pubblicitari. Senza chiedere il permesso agli utenti.
    Nel 2014 a Madrid si è tenuta la conferenza internazionale “Together against hate Speech and Hate Crime”, da cui sono emerse tre parole chiave: prevenire, educare e sanzionare. L’ideale sarebbe portare avanti tutte tre le cose contemporaneamente, ma, se sul piano legislativo e del riconoscimento delle responsabilità il dibattito è ancora aperto, sul piano della prevenzione e dell’educazione molto si può fare. L’obiettivo è educare giovani e adulti ad un corretto uso dei social e sviluppare una cultura della netcitizenship, ossia di un modo di abitare i social basato su comportamenti responsabili e sull’impegno a portare contributi utili alla discussione collettiva, evitando comportamenti scorretti o che possono incitare all’odio.