occhetta

  • Il racconto giornalistico delle nuove povertà, un dialogo sul nostro sito

    Nella finestra dell’agenzia Sir, sul nostro sito, potete leggere il resoconto attento e completo delle varie fasi della celebrazione del Giubileo degli “esclusi”. Le parole e i gesti del Papa, certamente, invitano ad una riflessione profonda anche noi giornalisti, chiamati a “vedere, comprendere e narrare” (padre Francesco Occhetta, leggi qui www.ucsi.it/parola-e-parole-contenuti/8279-vedere,-comprendere,-narrare.html ) anche questa dimensione così vera e dirompente della nostra società. Ma come lo stiamo facendo? Quale attenzione dedichiamo a chi vive al di là del giro dei “soliti noti” che di solito interpelliamo, intervistiamo, commentiamo? E quale discernimento applichiamo in particolare nel “racconto giornalistico delle nuove povertà”, di quei fenomeni insomma che stanno emergendo adesso in forma nuova, insolita e grave, così come sono descritti anche nell’ultimo rapporto della Caritas?
    Lo faremo chiedendo il contributo di analisi e di idee a tanti interlocutori diversi, soprattutto a coloro che ogni giorno vivono a contatto con l’esperienza dello “scarto” nella società di oggi. Proveremo ad evidenziare anche i rischi, sempre presenti quando affrontiamo questi temi, di un’informazione “distorta”, “urlata”, “retorica”. E’ un’attenzione, la nostra, che è il frutto di questo Giubileo della Misericordia. E che potrà aiutare tutti noi a crescere, anche professionalmente.

  • Il significato della croce per i Romani

    Anzitutto era un atto atrocemente crudele:

    Il procedimento di crocifissione non danneggiava organi vitali, improbabile era anche l’emorragia. La morte, invece, era lenta e avveniva dopo delle ore per collasso o soffocamento per i muscoli esausti. Ai cittadini romani era risparmiata; era invece riservata solo a chi era di condizione inferiore e in particolare, a criminali schiavi pericolosi e rivoltosi. In Giudea era efficace come deterrente contro la resistenza all’occupazione romana.

    Evento pubblico e vergognoso:

    Spogliato, nudo senza dignità, legato a un palo su un punto molto frequentato il condannato era esposto allo scherno crudele dei passanti. Inoltre al crocifisso era negata la sepoltura: i corpi restavano sulla croce come carogna per gli uccelli o in attesa di putrefazione. In questo modo si ricordava alla plebaglia il destino di chi opponeva resistenza all’autorità dello stato. I crocifissi erano posti su colline per dare spettacolo e per intimare di non imitarli. Poi i cadaveri venivano gettati in una fossa comune.

    Una forma normale di punizione:

    La vittima poteva essere legata o inchiodata alla croce, con o senza una trave trasversale in diverse posizioni. Non è chiaro se la crocifissione avesse sempre luogo prima o dopo la morte del soggetto. Sembra che i romani abbiano praticato una forma più costante di crocifissione: era preceduta da una flagellazione; le vittime spesso trasportavano la trave trasversale al luogo della crocifissione, dov’erano inchiodate o legate alla croce con le braccia distese, sollevate e forse erano seduti su un piccolo appoggio di legno. D’altra parte, come racconta Giuseppe Flavio, anche tra i romani il metodo di crocifissione era soggetto al capriccio dei capi militari.
    Pertanto i sentimenti negativi associati alla croce sono riferiti da Paolo in 1Cor 1,18-25 e nella lettera ai Galati 3,13.
    Questo marchio di infamia è dovuto in un contesto giudaico al fatto di collegare la crocifissione, già durante questo periodo, a Dt 21,22-23: «Chiunque è appeso a un albero è sotto la maledizione di Dio».
    Tuttavia la serietà teologica accordata alla croce di Cristo, unita al suo fortissimo significato positivo nei primi circoli cristiani, si trova in forte contrasto con queste attese. E’ molto interessante che Dt 21,23 avesse un ruolo evidente nella prima riflessione cristiana sul significato della croce, come risulta dalle allusioni in At 5,30; 13,29 e Gal 3,13-14. L’ossimoro cosi prodotto – che il «maledetto» è di fatto «l’Unto» – è messo in evidenza da Paolo nella sua espressione kerigmatica «Cristo crocifisso» in 1Cor 1,23; 2,2 (cfr. Gal 3,1; 2,19).

    Il senso teologico:

    Appaiono due termini nei racconti della crocifissione: “Cristo” e “crocifisso”.Il primo: l’unto (semitismo greco); atto che veniva fatto per i re, i grandi, gli eletti di Dio, di cui l’eletto, il profeta era rappresentante.Il secondo era un atto che veniva fatto su un criminale, nemico dello Stato oppure il maledetto da Dio secondo la Thorà. “Il Benedetto maledetto”. Paradosso intellettuale che Paolo mette insieme: Benedetto da Dio, maledetto dall’uomo. Afferma Brodeur: “Per descrivere l’amore molti poeti usarono ossimori perché la logica umana non poteva e non può capire il mistero d’amore. La croce, infatti, è il No di Dio alla nostra logica presunta di fare e controllare e possedere. Dio confonde la nostra logica, nega la nostra falsità, illusione, non realtà. Dio nega il non-umano che è in noi. Contro la logica umana che crea idoli che non sono l’unico Signore. La croce allora diviene il Si al vero nostro essere, al progetto d’amore per noi, Si alla sua realtà creata, logica di essere per noi, si alla nostra vera natura umana. Condanna, insomma, il falso, giusto giudizio dei nostri peccati che sono disobbediente scelta di non-realtà”.

    Non c’è amore senza sacrificio, che non sia un illusione. Ed aggiunge: “Non atto eroico ma atto d’amore. La logica della croce è carità e giustizia. E’ il rigetto della ingiustizia umana, individuale e sociale ed esaltazione della giustizia di Dio che giustifica nella croce. Noi accogliamo la sua giustizia e diventiamo giusti per mezzo della fede nel benedetto maledetto. Paolo deve usare il paradosso per comunicare il mistero, confonderci e salvarci. Il crocifisso quindi è la struttura interpretativa fondamentale per conoscere Dio, è la pienezza della Rivelazione”.

    L'autore. Francesco Occhetta S.I., è consulente ecclesiastico dell'Ucsi. Altre sue riflessioni sono all'interno della rubrica "Parola e Parole" in questo stesso sito.

    nella foto: "La Crocifissione" del Tiepolo

  • Il significato della croce per i Romani

    Anzitutto era un atto atrocemente crudele:

    Il procedimento di crocifissione non danneggiava organi vitali, improbabile era anche l’emorragia. La morte, invece, era lenta e avveniva dopo delle ore per collasso o soffocamento per i muscoli esausti. Ai cittadini romani era risparmiata; era invece riservata solo a chi era di condizione inferiore e in particolare, a criminali schiavi pericolosi e rivoltosi. In Giudea era efficace come deterrente contro la resistenza all’occupazione romana.

    Evento pubblico e vergognoso:

    Spogliato, nudo senza dignità, legato a un palo su un punto molto frequentato il condannato era esposto allo scherno crudele dei passanti. Inoltre al crocifisso era negata la sepoltura: i corpi restavano sulla croce come carogna per gli uccelli o in attesa di putrefazione. In questo modo si ricordava alla plebaglia il destino di chi opponeva resistenza all’autorità dello stato. I crocifissi erano posti su colline per dare spettacolo e per intimare di non imitarli. Poi i cadaveri venivano gettati in una fossa comune.

    Una forma normale di punizione:

    La vittima poteva essere legata o inchiodata alla croce, con o senza una trave trasversale in diverse posizioni. Non è chiaro se la crocifissione avesse sempre luogo prima o dopo la morte del soggetto. Sembra che i romani abbiano praticato una forma più costante di crocifissione: era preceduta da una flagellazione; le vittime spesso trasportavano la trave trasversale al luogo della crocifissione, dov’erano inchiodate o legate alla croce con le braccia distese, sollevate e forse erano seduti su un piccolo appoggio di legno. D’altra parte, come racconta Giuseppe Flavio, anche tra i romani il metodo di crocifissione era soggetto al capriccio dei capi militari.
    Pertanto i sentimenti negativi associati alla croce sono riferiti da Paolo in 1Cor 1,18-25 e nella lettera ai Galati 3,13.
    Questo marchio di infamia è dovuto in un contesto giudaico al fatto di collegare la crocifissione, già durante questo periodo, a Dt 21,22-23: «Chiunque è appeso a un albero è sotto la maledizione di Dio».
    Tuttavia la serietà teologica accordata alla croce di Cristo, unita al suo fortissimo significato positivo nei primi circoli cristiani, si trova in forte contrasto con queste attese. E’ molto interessante che Dt 21,23 avesse un ruolo evidente nella prima riflessione cristiana sul significato della croce, come risulta dalle allusioni in At 5,30; 13,29 e Gal 3,13-14. L’ossimoro cosi prodotto – che il «maledetto» è di fatto «l’Unto» – è messo in evidenza da Paolo nella sua espressione kerigmatica «Cristo crocifisso» in 1Cor 1,23; 2,2 (cfr. Gal 3,1; 2,19).

    Il senso teologico:

    Appaiono due termini nei racconti della crocifissione: “Cristo” e “crocifisso”.Il primo: l’unto (semitismo greco); atto che veniva fatto per i re, i grandi, gli eletti di Dio, di cui l’eletto, il profeta era rappresentante.Il secondo era un atto che veniva fatto su un criminale, nemico dello Stato oppure il maledetto da Dio secondo la Thorà. “Il Benedetto maledetto”. Paradosso intellettuale che Paolo mette insieme: Benedetto da Dio, maledetto dall’uomo. Afferma Brodeur: “Per descrivere l’amore molti poeti usarono ossimori perché la logica umana non poteva e non può capire il mistero d’amore. La croce, infatti, è il No di Dio alla nostra logica presunta di fare e controllare e possedere. Dio confonde la nostra logica, nega la nostra falsità, illusione, non realtà. Dio nega il non-umano che è in noi. Contro la logica umana che crea idoli che non sono l’unico Signore. La croce allora diviene il Si al vero nostro essere, al progetto d’amore per noi, Si alla sua realtà creata, logica di essere per noi, si alla nostra vera natura umana. Condanna, insomma, il falso, giusto giudizio dei nostri peccati che sono disobbediente scelta di non-realtà”.

    Non c’è amore senza sacrificio, che non sia un illusione. Ed aggiunge: “Non atto eroico ma atto d’amore. La logica della croce è carità e giustizia. E’ il rigetto della ingiustizia umana, individuale e sociale ed esaltazione della giustizia di Dio che giustifica nella croce. Noi accogliamo la sua giustizia e diventiamo giusti per mezzo della fede nel benedetto maledetto. Paolo deve usare il paradosso per comunicare il mistero, confonderci e salvarci. Il crocifisso quindi è la struttura interpretativa fondamentale per conoscere Dio, è la pienezza della Rivelazione”.

    L'autore. Francesco Occhetta S.I., è consulente ecclesiastico dell'Ucsi. Altre sue riflessioni sono all'interno della rubrica "Parola e Parole" in questo stesso sito.

    nella foto: "La Crocifissione" del Tiepolo

  • Insieme per un grande 'si' alla Vita

    Pubblichiamo oggi, insieme a Comunità di Connessioni, l'editoriale di Natale di padre Francesco Occhetta, consulente ecclesiastico nazionale dell'Ucsi.

    Francesco Occhetta

    Augurarsi “Buon Natale” è sempre più raro, farlo da semi-rinchiusi è ancora più difficile. Ci diciamo spesso “auguri” o “buone feste”, ma sempre meno “Buon Natale.” Eppure il Natale ha la sua radice latina in ciò che è natum, “generato”, è una parola potente e immanente, così come gli aggettivi natale(m) e nataliciu(m) che significano “ciò che riguarda la nascita”.

  • L'eccesso di cronaca "nera" e il giornalismo che costruisce pace e giustizia

    Di recente il vertice Rai ha ritenuto che la cronaca nera che le reti mandano in onda abbia superato ogni limite. Non solamente perché a livello educativo si favoriscono comportamenti emulativi ma soprattutto perché sembra quasi che una faccia della moneta della realtà sia l’unica.


    Nella complessità di leggere il reale il giornalismo deve essere forte e tenersi radicato nel suo fondamento: non serve per distruggere il mondo ma per cambiarlo. Se si parla di violenza e di guerra per fare notizia occorre anche parlare di pace e di giustizia che sono gli unici antidoti per arginare il male.

    Durante il Novecento la Chiesa è ritornata a riaffermare con fermezza il valore della pace. Per i Papi la pace è nutrita da una radice spirituale e può essere costruita da coloro che scoprono la «pace del cuore» e sono capaci di dialogare con culture e religioni diverse. In quale modo si può distinguere un giornalismo che parla di pace? Quello per esempio che si prodiga per investire in formazione, oppure che racconti la costruzione della pace nei territori, o quello che dà spazio alle politiche di riduzione degli armamenti fino a prendere posizione per promuovere la riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro i poteri forti che la bloccano.

    Per la Chiesa punto di arrivo per una nuova partenza rimane la costituzione pastorale Gaudium et Spes del Vaticano II (1965), che dopo aver esaminato la natura della pace, dono di Dio da accogliere e da custodire, contiene l’unica condanna radicale di tutto il Concilio: «Ogni azione bellica […], è un crimine contro Dio e l’umanità che bisogna condannare con fermezza e senza vacillazione» (n. 80).

    Ma c’è di più: quale giornalismo sta promuovendo sistematicamente la giustizia?

    Lo sappiamo. La situazione intesa in senso stretto nelle carceri italiane rimane complessa: nei 195 istituti penitenziari italiani, sono presenti circa 54.000 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480. Il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69%; questo significa che dei circa 1.000 detenuti che escono dalle carceri ogni giorno, circa 690 ritorneranno a delinquere.

    Eppure il giornalismo al servizio della giustizia aiuta, per esempio, la popolazione carceraria a comprendersi? Si tratta di persone poco rappresentative della società se pensiamo che il 5% dei detenuti sono analfabeti, il 45% è straniero, il 38% è senza fissa dimora, solamente l’1% dei detenuti sono laureati; il tasso di suicidi nelle carceri è 18 volte superiore a quelli fuori.

    E quando scriviamo di giustizia lo facciamo considerando le carceri una discarica sociale oppure un luogo per rieducare in cui è necessario coinvolgere anche la società dei ben pensanti?

    E ancora: il giornalismo è preparato a immettere nell’Ordinamento nuove forme di giustizia che rendano più umano e possibile la rieducazione?

    Il giornalismo può avere il potere di riconciliare, perché questo è possibile. Tuttavia per «rifondare» la giustizia occorre una conversione culturale che contrapponga alla visione retributiva quella riparativa, che si fonda su una domanda: cosa può essere fatto per riparare il danno? La riparazione non è solamente riconoscimento, include un percorso di riconciliazione che è impostato su quattro passaggi fondamentali: la consapevolezza da parte del reo della propria responsabilità; la comprensione da parte del reo dell’esperienza di vittimizzazione subita dalla vittima e del danno compiuto nei confronti della comunità intera; l’elaborazione, da parte della vittima, della propria esperienza di vittimizzazione; infine, la presa di coscienza da parte della comunità dei livelli di rischio.

    E tutto questo va narrato.

    Il modello della giustizia riparativa, chiamata anche restorative justice, è molto diffuso soprattutto negli Stati Uniti e in Canada ma il giornalismo italiano ne parla troppo poco.

    Proprio grazie a una parte del giornalismo nei Paesi anglosassoni, è avvenuto un vero cambiamento promosso dalle comunità, dalle persone, dal basso. Si è partiti con un’idea di restorative community e si è fatto un importante investimento sulla promozione del paradigma riparativo nella formazione dei bambini che, oltre a essere i cittadini del domani, rappresentano la possibilità di cambiare prospettiva nella risoluzione dei conflitti interpersonali.

    Se il modello della giustizia riparativa sta dando buoni risultati e timidamente sta entrando anche nel nostro Ordinamento per quale motivo il giornalismo italiano non si ricompatta per dire che la pena non può rimanere (solo) detentiva? L’idea di corrispettività della bilancia della giustizia in cui al negativo bisogna rispondere con il negativo ha dimostrato il suo fallimento.

    Certo non è semplice, ma per il giornalismo è a portata di mano se vuole essere al servizio della democrazia e della pace. Lo ribadisce anche l’autorevole esperienza di don Ciotti: «Non parliamo, beninteso, di un cammino facile, perché la giustizia riparativa è, prima di un sistema giuridico, un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia “retributiva”, incentrata sul rapporto tra il reato e la pena, e della giustizia “riabilitativa”, più attenta al “recupero” del detenuto […]. Percorsi delicati, quasi mai lineari, […] perché il ricostruire le relazioni umane e il tessuto sociale non può andare a discapito dell’equità, della certezza e della funzione riabilitativa della pena».

  • L'impegno dei cattolici per il lavoro. Padre Occhetta a Fano, nelle Marche.

    Dopo l’intensa Settimana Sociale di Cagliari Padre Francesco Occhetta arriva nelle Marche, dove a Fano sabato 18 novembre presso il Centro Pastorale Diocesano ha stimolato i presenti ad una riflessione, a partire dal suo testo “Il lavoro promesso. Libero, creativo, partecipativo e solidale”.

  • La cronaca del primo AperiDesk. Noi giornalisti come 'gli arcieri'.

    Il primo #AperiDesk, giovedì 15 febbraio, è stato accolto da una Trieste gelida, ma soleggiata: niente di meglio per accompagnare, con aria pulita e frizzante, un primo momento di incontro e conoscenza tra giornalisti - ma anche tra semplici cittadini interessati al tema - avendo come filo conduttore l'ultimo numero di Desk, la rivista Ucsi, interamente dedicata alle migrazioni.

  • La giustizia capovolta. Esperienze e prospettive per un approccio riparativo alla pena

    I percorsi di mediazione e di riparazione tra vittime e attori del reato sono ancora poco usati in Italia e la legge li permette per i reati entro i 4 anni di reclusione. Percorsi che servono per le vittime, che possono esprimere e condividere il proprio dolore, e per il reo, che si responsabilizza e prende consapevolezza delle sofferenze provocate. Se ne è parlato all’Università La Sapienza di Roma con i familiari di vittime di mafia, docenti universitari, il presidente di Libera Don Luigi Ciotti, l’autore de “La giustizia Capovolta”, Francesco Occhetta e Lucia Castellano, direttore generale del Dipartimento giustizia minorile e di comunità.

    Nei 195 istituti penitenziari italiani, al 31 gennaio 2016, erano presenti 52.475 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480. I detenuti in eccedenza rispetto ai posti previsti erano 3.048 (+7,5%). Il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69%. Dei circa 1.000 detenuti che escono dalle carceri ogni giorno, circa 690 ritorneranno a delinquere. Lo Stato spende solamente 95 centesimi al giorno per l’educazione dei detenuti, rispetto ai 200 euro pro-capite previsti. Per il mondo della giustizia rimane una domanda antica: in quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? Ristabilire la giustizia non significa intimidire e intimorire attraverso pene esemplari per ottenere una sicurezza maggiore. Lavorare al recupero non è un elitarismo ma è porre al centro dell’ordinamento la prevenzione generale.

    C’è bisogno insomma di capovolgere il senso antropologico della giustizia e ricollocare al centro dell’ordinamento il dolore delle vittime e la dignità dei detenuti che rimangono persone anche quando sono prive di libertà. Particolarmente toccante è stata la testimonianza di Daniela Marcone che oggi è responsabile del settore Memorie dell'Associazione Libera.

  • La giustizia riparativa. Quali prospettive? Confronto al Meeting di Rimini.

    Il pubblico numeroso che giovedì 24 agosto ha partecipato al Meeting di Rimini all’incontro dedicato al tema della giustizia riparativa, è stato un segno evidente che testimonia quanto l’esperienza del diritto faccia parte del tessuto del nostro vivere quotidiano e non sia solo una prerogativa dei giuristi. «“Vogliamo giustizia” è un’espressione molto ricorrente, ma cosa significa fare giustizia per una persona che ha subito una grave perdita umana e affettiva?»:

  • La risurrezione di Cristo. Un evento meta-storico

    Cos’è accaduto 2000 anni fa? La Resurrezione è un evento meta-storico, si dà nella storia ma va oltre la storia, lascia tracce nella storia, ma le prove (oggettive) sono tutte indirette: il sepolcro vuoto, la testimonianza delle donne, una comunità che si riunisce, la missione degli apostoli, la chiesa che dopo 2000 anni continua a celebrare...

  • Le nuove vie del lavoro: presentato il libro di Francesco Occhetta

    A Roma, nella sede di "Civiltà Cattolica" è stato presentato il libro di Francesco Occhetta "Il lavoro promesso. Libero, creativo, partecipativo e solidale" (ed. Àncora, 2017). Ecco una sintesi dei contenuti del libro, che sono stati commentati durante una tavola rotonda a cui si riferisce la nostra foto. 

    Lavoro. Un parola promessa. A volte tradita. Spesso mal vissuta. Cos’è il lavoro oggi? Quale significato ha per la vita degli uomini? Che cosa può accadere a una società democratica quando diventa imbarazzante augurare ai giovani «buon lavoro»? Per quali motivi chi lavora è spesso insoddisfatto? Sono queste le domande su cui ci si interroga nello spazio pubblico perché angosciano buona parte della società europea.

  • Le nuove vie del lavoro: presentato il libro di Francesco Occhetta

    A Roma, nella sede di "Civiltà Cattolica" è stato presentato il libro di Francesco Occhetta "Il lavoro promesso. Libero, creativo, partecipativo e solidale" (ed. Àncora, 2017). Ecco una sintesi dei contenuti del libro, che sono stati commentati durante una tavola rotonda a cui si riferisce la nostra foto. 

    Lavoro. Un parola promessa. A volte tradita. Spesso mal vissuta. Cos’è il lavoro oggi? Quale significato ha per la vita degli uomini? Che cosa può accadere a una società democratica quando diventa imbarazzante augurare ai giovani «buon lavoro»? Per quali motivi chi lavora è spesso insoddisfatto? Sono queste le domande su cui ci si interroga nello spazio pubblico perché angosciano buona parte della società europea.

  • Le nuove vie del lavoro. Sabato a Roma la presentazione del nuovo libro di Francesco Occhetta e una tavola rotonda sul tema.

    Sabato 30 settembre alle 18 – in occasione dell’uscita del volume di p. Francesco Occhetta, Il lavoro promesso. Libero, creativo, partecipativo e solidale, Àncora, 2017 – si terrà nella sede de “La Civiltà Cattolica”, a Roma, una tavola rotonda sul tema: “LE NUOVE VIE DEL LAVORO. Riforme, competenze e formazione in un futuro da progettare”.

  • Natale, il racconto di un Vivente

    Va premesso. Il Natale non è un simbolo, una favola, una identità che separa da altre o un meta racconto. È tutto molto più semplice. Per il credente il Natale è la storia di un Vivente, che è nato da una vergine, ha vissuto come uomo, è morto in croce da innocente e giusto, poi è stato risuscitato dall’amore di Dio padre. Avere fede significa proprio questo, fidarsi e affidarsi a questa Vita che nasce e rinasce e continua a Vivere. È questa la storia di Gesù di Nazareth. Il buon giornalismo la deve raccontare così, senza edulcorarla o enfatizzarla.

  • Natale, il racconto di un Vivente

    Va premesso. Il Natale non è un simbolo, una favola, una identità che separa da altre o un meta racconto. È tutto molto più semplice. Per il credente il Natale è la storia di un Vivente, che è nato da una vergine, ha vissuto come uomo, è morto in croce da innocente e giusto, poi è stato risuscitato dall’amore di Dio padre. Avere fede significa proprio questo, fidarsi e affidarsi a questa Vita che nasce e rinasce e continua a Vivere. È questa la storia di Gesù di Nazareth. Il buon giornalismo la deve raccontare così, senza edulcorarla o enfatizzarla.

  • Oggi a Cagliari la presentazione del libro di Francesco Occhetta 'Il lavoro promesso'

    La presentazione del libro IL LAVORO PROMESSOdi padre Francesco Occhetta sarà il prossimo evento diocesani a Cagliari in avvicinamento alla «48ma Settimana Sociale dei Cattolici Italiani».

  • Raccontare le migrazioni: percorso di formazione per giornalisti in Friuli Venezia Giulia. E l'Ucsi lancia AperiDesk (15 febbraio)

    Parte adesso (15 novembre), presso il Circolo della Stampa a Trieste un percorso di formazione sulle migrazioni: otto incontri con cadenza mensile da novembre a maggio per imparare a conoscere il fenomeno in modo organico ed approfondito ed acquisire gli strumenti per poterne scrivere. L’iniziativa è proposta dall’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia in collaborazione con Articolo21, Unione Cattolica Stampa Italiana e Assostampa Fvg e gli incontri si terranno a Trieste, Udine e Pordenone.

  • Ricostruiamo la politica. Quale riforma del servizio pubblico radiotelevisivo. Il libro di Occhetta presentato all'Agcom il 27 marzo

    Sarà presentato a Roma, presso l'Agcom, il libro di Francesco Occhetta'Ricostruiamo la politica'. L'apuntamento è per mercoledì 27 marzo alle 11 (qui per accreditarsi entro domenica 24).

  • Sabato 14 l'incontro Ucsi in carcere su 'giustizia e informazione'. Ad Augusta, in Sicilia

    Giustizia e informazione e la Giustizia capovolta”. E’ il tema del corso per la formazione professionale continua dei giornalisti che si svolgerà sabato 14 aprile, dalle 10,30 alle 13.30, nella sala conferenze della Casa di Reclusione di Augusta.