cronaca nera

  • 17 - T come 'Terrore' e 'Tragedia'. E questa è stata un'altra estate difficile da raccontare.

    “T” come terrore, terrorismo, terremoto o anche più semplicemente tragedia. Nelle ultime settimane i giornalisti si sono trovati ancora una volta a raccontare fatti violenti che hanno colpito la vita di centinaia di persone. E mi pare che lo abbiano fatto - per la maggior parte - con professionalità, misura, deontologia ed etica.

  • L'eccesso di cronaca "nera" e il giornalismo che costruisce pace e giustizia

    Di recente il vertice Rai ha ritenuto che la cronaca nera che le reti mandano in onda abbia superato ogni limite. Non solamente perché a livello educativo si favoriscono comportamenti emulativi ma soprattutto perché sembra quasi che una faccia della moneta della realtà sia l’unica.


    Nella complessità di leggere il reale il giornalismo deve essere forte e tenersi radicato nel suo fondamento: non serve per distruggere il mondo ma per cambiarlo. Se si parla di violenza e di guerra per fare notizia occorre anche parlare di pace e di giustizia che sono gli unici antidoti per arginare il male.

    Durante il Novecento la Chiesa è ritornata a riaffermare con fermezza il valore della pace. Per i Papi la pace è nutrita da una radice spirituale e può essere costruita da coloro che scoprono la «pace del cuore» e sono capaci di dialogare con culture e religioni diverse. In quale modo si può distinguere un giornalismo che parla di pace? Quello per esempio che si prodiga per investire in formazione, oppure che racconti la costruzione della pace nei territori, o quello che dà spazio alle politiche di riduzione degli armamenti fino a prendere posizione per promuovere la riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro i poteri forti che la bloccano.

    Per la Chiesa punto di arrivo per una nuova partenza rimane la costituzione pastorale Gaudium et Spes del Vaticano II (1965), che dopo aver esaminato la natura della pace, dono di Dio da accogliere e da custodire, contiene l’unica condanna radicale di tutto il Concilio: «Ogni azione bellica […], è un crimine contro Dio e l’umanità che bisogna condannare con fermezza e senza vacillazione» (n. 80).

    Ma c’è di più: quale giornalismo sta promuovendo sistematicamente la giustizia?

    Lo sappiamo. La situazione intesa in senso stretto nelle carceri italiane rimane complessa: nei 195 istituti penitenziari italiani, sono presenti circa 54.000 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480. Il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69%; questo significa che dei circa 1.000 detenuti che escono dalle carceri ogni giorno, circa 690 ritorneranno a delinquere.

    Eppure il giornalismo al servizio della giustizia aiuta, per esempio, la popolazione carceraria a comprendersi? Si tratta di persone poco rappresentative della società se pensiamo che il 5% dei detenuti sono analfabeti, il 45% è straniero, il 38% è senza fissa dimora, solamente l’1% dei detenuti sono laureati; il tasso di suicidi nelle carceri è 18 volte superiore a quelli fuori.

    E quando scriviamo di giustizia lo facciamo considerando le carceri una discarica sociale oppure un luogo per rieducare in cui è necessario coinvolgere anche la società dei ben pensanti?

    E ancora: il giornalismo è preparato a immettere nell’Ordinamento nuove forme di giustizia che rendano più umano e possibile la rieducazione?

    Il giornalismo può avere il potere di riconciliare, perché questo è possibile. Tuttavia per «rifondare» la giustizia occorre una conversione culturale che contrapponga alla visione retributiva quella riparativa, che si fonda su una domanda: cosa può essere fatto per riparare il danno? La riparazione non è solamente riconoscimento, include un percorso di riconciliazione che è impostato su quattro passaggi fondamentali: la consapevolezza da parte del reo della propria responsabilità; la comprensione da parte del reo dell’esperienza di vittimizzazione subita dalla vittima e del danno compiuto nei confronti della comunità intera; l’elaborazione, da parte della vittima, della propria esperienza di vittimizzazione; infine, la presa di coscienza da parte della comunità dei livelli di rischio.

    E tutto questo va narrato.

    Il modello della giustizia riparativa, chiamata anche restorative justice, è molto diffuso soprattutto negli Stati Uniti e in Canada ma il giornalismo italiano ne parla troppo poco.

    Proprio grazie a una parte del giornalismo nei Paesi anglosassoni, è avvenuto un vero cambiamento promosso dalle comunità, dalle persone, dal basso. Si è partiti con un’idea di restorative community e si è fatto un importante investimento sulla promozione del paradigma riparativo nella formazione dei bambini che, oltre a essere i cittadini del domani, rappresentano la possibilità di cambiare prospettiva nella risoluzione dei conflitti interpersonali.

    Se il modello della giustizia riparativa sta dando buoni risultati e timidamente sta entrando anche nel nostro Ordinamento per quale motivo il giornalismo italiano non si ricompatta per dire che la pena non può rimanere (solo) detentiva? L’idea di corrispettività della bilancia della giustizia in cui al negativo bisogna rispondere con il negativo ha dimostrato il suo fallimento.

    Certo non è semplice, ma per il giornalismo è a portata di mano se vuole essere al servizio della democrazia e della pace. Lo ribadisce anche l’autorevole esperienza di don Ciotti: «Non parliamo, beninteso, di un cammino facile, perché la giustizia riparativa è, prima di un sistema giuridico, un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia “retributiva”, incentrata sul rapporto tra il reato e la pena, e della giustizia “riabilitativa”, più attenta al “recupero” del detenuto […]. Percorsi delicati, quasi mai lineari, […] perché il ricostruire le relazioni umane e il tessuto sociale non può andare a discapito dell’equità, della certezza e della funzione riabilitativa della pena».

  • La cronaca torna al centro dei nostri telegiornali

    La cronaca torna al centro dei nostri telegiornali, dopo il “dominio” del Covid.

  • Resistiamo al volgare, parliamo al cervello!

    Non solo troppa cronaca nera, ma anche troppo turpiloquio in questa tv (anche di “servizio pubblico”. Ma esiste una tv che non sia così qualificabile?) troppo spesso imbarazzante almeno per chi conservi il gusto. vagamente retrò, di farsi imbarazzare.
    Nel “giochino” delle responsabilità (la tv è così perché così vogliono gli spettatori, gli spettatori sono così perché così li influenza la tv) ciascuno può dire la sua. Tanto tutto è ormai inutile e la china mostra sempre ripidità maggiori verso un rintronamento di massa che a qualcuno, certo, fa molto comodo...

  • T come 'Terrore' e 'Tragedia'. E questa è stata un'altra estate difficile da raccontare.

    “T” come terrore, terrorismo, terremoto o anche più semplicemente tragedia. Nelle ultime settimane i giornalisti si sono trovati ancora una volta a raccontare fatti violenti che hanno colpito la vita di centinaia di persone. E mi pare che lo abbiano fatto - per la maggior parte - con professionalità, misura, deontologia ed etica.

  • Televisione: quell'intervista "strana" a chi per hobby fa il "pubblico"

    «Non è una vita facile, quella è una giungla». E uno senza scomodare Calais o l’Africa pensa che sì, in effetti, farsi spazio in certi ambienti è complicato. Soprattutto al giorno d’oggi dove il lavoro è poco e le persone che lo hanno perso o cercano la prima occupazione sono tante. Siete tutti fuori strada. La frase è di tal D.S., 37 anni, informatore farmaceutico di professione, “pubblico” nelle trasmissioni tv come passatempo...

  • Troppa cronaca nera in tv, occupiamoci (bene) anche d'altro

    La nostra televisione è ansiogena. Lo sono i Tg, ma lo sono soprattutto i rotocalchi e i salotti televisivi, quelle trasmissioni che occupano i pomeriggi e le serate cercando di rubarsi l’un l’altra una manciata di spettatori in più.
    Nei giorni scorsi, dopo l’episodio accaduto in provincia di Ferrara, dove un adolescente ha pagato un amico perché gli uccidesse i genitori, Fiorello ha lanciato un appello invitando a ridimensionare l’invasione della cronaca nera proprio in questo tipo di programmi, che si aggrappano a una notizia, la commentano, la strizzano, aggiungono interviste, testimonianze, divagazioni di esperti, litigate in studio, spesso senza aggiungere nulla di più, in termini di informazione...