DESK 4/2016 - Il mondo salvato dai ragazzini? Un cammino a piccoli passi

opportunità di cambiamento: purché si eserciti quello che l’economista Stefano Zamagni definisce «un supplemento di pensiero». Le indicazioni emerse dal XIX Congresso nazionale UCSI di Matera (3-6 marzo 2016) per l’impegno quadriennale della nuova dirigenza eletta oscillano tra queste due coordinate: le lezioni del passato e le nuove visioni per il futuro, in un presente problematico che richiede particolari sforzi di discernimento. E di unità. Due poli, memoria e profezia, particolarmente utili a delineare la dimensione delle responsabilità comunicative nell’attuale transizione epocale del sistema dei media (e dell’identità stessa, e del ruolo, dei giornalisti). Soprattutto su un tema “sensibile”, vasto e complesso ma tuttora abbastanza disatteso come quello dell’infanzia, dell’adolescenza e dei giovani adulti – i cosiddetti nativi digitali - nella galassia mediatica del mondo globalizzato e della “globalizzazione dell’indifferenza”.

Non a caso il tema dei bambini, ragazzi e media è stato ufficialmente identificato – durante i lavori congressuali e, successivamente, nei primi incontri del Consiglio nazionale e della Giunta esecutiva UCSI - tra le priorità ineludibili, in un percorso di (in)formazione con un «supplemento d’anima» necessario a realizzare quella comunicazione sociale autentica che per papa Francesco ha «il potere di creare ponti, di favorire l’incontro e l’inclusione, arricchendo così la società» attraverso ciò che Bergoglio definisce, al termine del suo messaggio per la 50esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, «prossimità». Vicinanza da esercitare, in questo anno giubilare della misericordia (e oltre), particolarmente nei confronti dei più deboli e indifesi, degli esclusi e degli emarginati al punto - per usare un’altra immagine forte del Pontefice - da essere considerati addirittura “scarti”. Umani.

Una sfida, evidentemente, che si gioca al bivio tra civismo e cinismo. Tanto più se la si intenda declinare dalla parte di bambine, bambini e ragazzi che, oggi, sono sempre più oggetto di interessi (economici, ma non solo) anziché soggetti di interesse. Reale. Empatico. E rispettoso dei loro diritti fondamentali. Basti pensare, per fare un solo esempio di cronaca italiana recente, al drammatico “caso” dei piccoli abusati e uccisi del Parco Verde di Caivano, in provincia di Napoli, o al processo Bossetti per il delitto della piccola Yara Gambirasio a Brembate di Sopra, nel bergamasco: due diversi frammenti intra ed extrafamiliari, tra tanti, di specchio (locale) di una (globale) tragedia dell’infanzia - rubata, violata, tradita, lasciata sola, muta, inascoltata, trascurata, abbandonata, calpestata, fino alla morte violenta, fisica ma anche psichica, affettiva e spirituale - che non può non riguardarci tutti. Perché non conosce confini, geografici né sociali. Da occidente a oriente. Da nord a sud del mondo.

Una sfida oltre gli slogans

Ma basti pure ricordare, in questa sede, che correva l’anno 2002 quando la sapiente sensibilità di Giancarlo Zizola già analizzava, in un contributo tuttora attuale pubblicato nel bel numero Media e minori oltre gli slogans (n. 6 dei Quaderni di supplemento a «Desk», 1/2004, curato da Francesco Birocchi e Rosa Maria Serrao), il fenomeno del «nuovo attacco sociale all’infanzia nel pianeta globalizzato». E proprio Attacco ai bambini si intitolava, in singolare sintonia, un approfondito numero monografico di «Pubblic/azione» (anno 1, n. 2, luglio-dicembre 2002, Città Aperta Edizioni 2003), rivista semestrale interdisciplinare «sulla pensabilità», diretta da Pietro Barcellona e Riccardo Romano che, sul versante di un’articolata riflessione laica, metteva a fuoco da diverse prospettive specialistiche il medesimo problema – una sorta di guerra non dichiarata ma strisciante contro l’infanzia, a vari livelli - denunciato con forza anche dal contributo di ispirazione cristiana di Zizola nell’ambito dell’iniziativa «Ragazzi e media: cento incontri», promossa nel 2001 dall’UCSI e avallata, a dieci anni dalla Carta di Treviso, da un significativo messaggio di Giovanni Paolo II all’allora presidente nazionale Emilio Rossi: «Non basta – scrisse in quell’occasione papa Wojtyla – porre divieti a tutela del minore (…) Prestare attenzione ai ragazzi nel campo dei media è pertanto uno dei principali paradigmi di civiltà e di progresso; è un compito esaltante a cui tutti devono contribuire secondo il proprio ruolo e le proprie competenze».

Viene da chiedersi: ma quanto è cambiato, da allora? Quanto è cresciuta, in questi ultimi quindici anni, e quanto ha realmente inciso, in Italia, una diffusa e matura coscienza collettiva per una cultura (o “civiltà”) dell’infanzia degna di questo nome e (invano) vagheggiata, sin dagli anni ’50-’60 del secolo breve, da un intellettuale del calibro di Gianni Rodari? E ancora, quanto sono serviti alla “causa” dei bambini e ragazzi come irrinunciabili «indicatori della qualità della vita», nello specifico della comunicazione sociale, i molteplici codici, carte, convenzioni, vademecum e norme deontologiche (al di là, ovviamente, di tanti buoni propositi che lastricano le vie dell’inferno e di nobili quanto minoritarie oasi di buone pratiche)? Una selva di princìpi pur eccellenti ma non sempre, tuttavia, applicati nel “bosco” dei media e in una quotidianità troppo spesso dominata dalla dittatura di un conformismo sensazionalistico: che sembra infatti in molti casi privilegiare, ancora oggi, le scorciatoie verso “pinacoteche dell’orrore”, “pornografie del dolore” e “terrorismi omeopatici” anziché la fatica di intraprendere la strada di approfondimenti seri, documentati e continuativi. Ossia, nel rispetto concreto di quei bambini «che calano di numero tutti gli anni», in Italia, «e tuttavia c’è sempre meno posto per loro»: come sottolineava con amaro sarcasmo lo studioso, scrittore e pedagogista Antonio Faeti nella sua provocatoria prefazione al volume di vignette di Francesco Tonucci (psicopedagogista del CNR, in arte Frato) dal titolo Bambini si nasce, pubblicato da La Nuova Italia nell’ormai lontano 1987.

Sono domande che - si può agevolmente intuire - prima di poter formulare risposte possibili richiedono una conoscenza precisa di dati e scenari. E impegnano a mettersi in gioco, al di fuori di qualunque autoreferenzialità: cercando sul territorio interlocutori competenti e motivati per (ri)mettere al centro, con intrecci, incontri e sconfinamenti virtuosi, la questione (l’emergenza) infanzia. In una nuova e auspicabile “rete” di alleanze tra media, istituzioni (laiche ed ecclesiastiche), soggetti specializzati e differenti agenzie educative: un po’ come ha fatto di recente l’UCSI Puglia con l’iniziativa del primo Forum Bambini e Mass Media che ha generato La “Lettera di Bari”. Ascoltare e comunicare per costruire bellezza (Gelsorosso edizioni 2016).

Susanna Tamaro, molto attenta a questi temi nelle sue opere per i più piccoli e non a caso vincitrice della prima edizione del premio Strega Ragazzi 2016 con il suo ultimo romanzo (Salta, Bart! parabola per bambini ma anche monito per gli adulti edita Giunti Junior), ci interpella ulteriormente con un suo articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» del 17 febbraio 2014, dove scrive: «Nel mondo esaltato dai media il bene e il male non hanno più alcun senso di esistere. Il mi piace e il non mi piace sono diventati il confine etico del mondo […] pietosa anestesia per impedire di alzare lo sguardo e correre il rischio di farsi domande più grandi. Aver cancellato la linea di demarcazione tra il bene e il male, trasformando quest’imprescindibile scelta in qualcosa di voluttuosamente relativo, ha contribuito fortemente a trascinare le giovani generazioni in questo stato di desolante degrado, privo di orizzonti. L’essere umano, per diventare veramente tale, ha bisogno di sfide. E la prima sfida è sapere cos’è il giusto e cosa l’ingiusto, per potere poi scegliere da che parte schierarsi […] altrimenti si finisce per vagare nell’indistinto […], qualcosa che genera angoscia profonda nelle persone». Già: un’angoscia sterile, fino all’inerzia da pigrizia, alla rassegnazione all’inazione da (apparente) impotenza e alla delega continua, giusto per deresponsabilizzarsi.

Scenari: l’orizzonte “glocale”

Ma facciamo parlare anche qualche cifra significativa per lo scenario attuale. Senza voler considerare ad esempio casi estremi come gli 87 milioni di bambini al di sotto dei sette anni che – secondo Human Rights Watch – crescono in molte aree del pianeta conoscendo soltanto la guerra, o le 37mila spose-bambine che ogni giorno sono costrette a matrimoni con uomini molto più grandi di loro, o le piccole vittime di mutilazioni genitali femminili (più di 100 milioni nel mondo, con un ritmo di circa 6mila ogni mese) o, ancora, i circa 200 milioni di minorenni (dati ILO) che lavorano, spesso a tempo pieno, privati di un’educazione adeguata e di una buona salute (tra essi, circa 126 milioni, ossia 1 ogni 12 bambini al mondo, esposti a forme di lavoro molto rischiose, e circa 8 milioni di minori vittime di schiavitù, lavoro forzato, sfruttamento sessuale, traffico di stupefacenti e arruolamento come soldati in milizie sanguinarie) non è che i Paesi ad alto reddito possano chiamarsi fuori. Anzi. Lo rivelano, fra il resto, i dati (riferiti al 2013) dell’ultimo Rapporto Unicef sulle disuguaglianze in 41 Paesi dell’Unione Europea e dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), analizzate in termini di reddito, istruzione, salute e soddisfazione nei confronti della vita: dai quali si evince che la posizione media del nostro “Bel Paese”, per tutte le dimensioni relative alla disuguaglianza, è addirittura fanalino di coda dell’Ue: trentaduesima su 35.

Non solo. A rilanciare l’annosa questione della «povertà educativa» (una vera e propria emergenza) nell’Italia ad almeno due velocità è anche l’Organizzazione non governativa Save the Children. Che nel suo ultimo Rapporto (maggio 2016) per il rilancio della campagna «Illuminiamo il futuro», dal titolo Liberiamo i bambini dalla povertà educativa: a che punto siamo? Un’analisi regionale, fornisce elementi importanti per inquadrare, fra il resto, le aree italiane di maggiore criticità nel campo della scarsità di servizi per l’infanzia e dell’insufficienza della qualità dell’offerta formativa - con tutte le conseguenze sociali connesse – che vede detenere il primato negativo a Sicilia e Campania, seguite da Calabria, Puglia e Molise, mentre Lombardia, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia (con il record positivo delle province di Trento e Bolzano) risultano tra le regioni più “virtuose”. A scorrere le pagine dell’analisi, si ha così conferma di un nesso stretto tra povertà materiale ed educativa (i minorenni che vivono in povertà assoluta, concentrati nelle regioni del Sud, sono oggi un milione e 45mila, circa il 10% del totale), che mette a rischio l’opportunità, per queste bambine e bambini, di costruirsi (o magari sognare) un futuro sostenibile. Con conseguenze facilmente immaginabili.

Ed è forse proprio da qui che occorre allora ripartire, per un’infoetica che tenga conto della corresponsabilità di ciascuno come comunità educante, nella quale i giornalisti (i comunicatori sociali tout court) hanno un ruolo, come il magistero pontificio non si stanca mai di ripetere, tutt’altro che irrilevante.

Il diritto al rispetto. Per una cittadinanza attiva

In fondo, è una questione di cittadinanza. Attiva. Che si costruisce a partire dai più piccoli. Ne era convinto un grande creativo come Bruno Munari: «Un paese civile decide di occuparsi del futuro del suo popolo: e i bambini sono il futuro», ma «la qualità della vita dipende da come questi bambini sono stati educati». Nella simbolica “guerra invisibile” in atto contro l’infanzia e l’adolescenza, a tutte le latitudini, servono però volontari disponibili ad arruolarsi in una necessaria quanto pacifica “chiamata alle armi nonviolente” delle parole, delle immagini e dei gesti concreti. Connaturati, peraltro, nella duplice definizione di comunicatori sociali. L’UCSI, radicata nei variegati territori regionali e ispirata dalla Parola che con la forza debole della preghiera può illuminare le vie da seguire, deve giocare fino in fondo il suo ruolo. Nella diversità dei carismi di ciascun membro.

In che modo? Riprendendo innanzitutto, ad esempio, la lezione di Emilio Rossi, quando in Media e minori oltre gli slogans ammoniva: «Ragazzi e media è problema centrale e non eludibile. È problema di oggi e di domani. È problema di tutti. Va, insomma, preso sul serio. E, d’altra parte, non va ridotto ai pur rilevanti aspetti di tutela, difesa della privacy inclusa, ma piuttosto avvertito nella sua globalità come vero impegno di coscienza perché stampa, radio, televisione, new media siano concepiti e praticati, non solo parando le insidie, spesso allarmanti, ma favorendo un atteggiamento critico, facendo circolare anticorpi, utilizzando per quanto è possibile chances di crescita, arricchimento, responsabilizzazione e solidarietà che i media pur offrono, a meno che non li si intenda solo come business o sensazionalismo competitivo».

È una prima indicazione preziosa, che fa il paio con quanto scriveva il cardinale Carlo Maria Martini nella sua Lettera pastorale Il lembo del Mantello, in cui la notizia non diventa mai “merce” ma è comunità; e la relazione – parola chiave della comunicazione, ma anche di una formazione nel segno dell’educazione, dell’etica e dell’emozione – si costruisce anche cambiando sguardo, prospettiva, mettendosi in serio ascolto e sperimentando un cammino fuori delle rotte prestabilite o imposte: «È necessario – scriveva il cardinale Martini – favorire il processo di uscita dalla massa, perché le persone, dallo stato di fruitori anonimi dei messaggi e delle immagini massificate, entrino in un rapporto personale come recettori dialoganti, vigilanti e attivi». Torna in mente la memorabile esperienza di condivisione del pediatra, pedagogo e scrittore Janusz Korczak, autore fra il resto del libro Il diritto del bambino al rispetto (1929, ristampato nel 2011 dalle Edizioni dell’Asino) con i bambini del ghetto di Varsavia, quando scrisse: «Dite: “è faticoso frequentare bambini”./ Avete ragione./ Poi aggiungete:/ bisogna mettersi al loro livello,/ abbassarsi, inclinarsi,/ curvarsi, farsi piccoli./ Ora avete torto./ Non è questo che più stanca./ È piuttosto il fatto di essere obbligati ad innalzarsi/ fino all’altezza dei loro sentimenti./ Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi./ Per non ferirli».

In dialogo con donne e uomini del futuro

Ecco. Considerare i bambini come «recettori dialoganti, vigilanti e attivi», e non passivi “minori” (brutto termine giuridico che pare alludere a una minorazione, più che ad uno stato di fatto anagrafico) è probabilmente già un primo e importante passo del cammino di un cambiamento di coscienza. E di mentalità. A gamba tesa, lo intraprese il priore di Barbiana la cui sfida esistenziale è stata non a caso ora ripresa nella sua intatta attualità, a quasi 50 anni dalla sua morte, dallo scrittore-docente Eraldo Affinati con il bel libro L’uomo del futuro. Sulle strade di Don Lorenzo Milani (Mondadori 2016, finalista allo Strega). Un altro passo può essere quello di un attento monitoraggio, per ripartire intanto da buone pratiche già avviate: l’Italia pullula di eccellenze nascoste e di città “amiche delle bambine e dei bambini”, da raccontare e dalle quali imparare per renderle “contagiose” e feconde, ospitandole sul nostro sito. Sarebbe un modo per dare spazio, durata e continuità a «ciò che inferno non è» (come nelle città visibili di Italo Calvino), aprendosi a nuove progettazioni in divenire, consolidando ed espandendo in modo più originale la nostra già esistente rete comunicativa interregionale, e fornendo così servizi informativi utili, sulla base delle singole specificità ed esigenze dei territori.

L’Unicef, per riconoscere lo status di «città amica delle bambine e dei bambini» (l’ultima ad essere stata premiata, quest’anno, è Milano), considera prioritaria l’attuazione di nove passi di un percorso previsto dalla Convenzione dei Diritti dell’Infanzia in un contesto di governo locale. Ricordiamoli, in sintesi: la partecipazione attiva delle bambine e dei bambini nelle questioni che li riguardano; un quadro legislativo che promuova e protegga i loro diritti; un’agenda per la costruzione di luoghi amici fondati sulla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia; un’unità di intervento o un meccanismo di coordinamento per i diritti dell’infanzia; una valutazione e un’analisi dell’impatto di leggi, politiche e prassi in vigore sui più piccoli; un bilancio dedicato con un adeguato impegno di risorse; un rapporto sulla condizione dell’infanzia nel territorio; la diffusione di una conoscenza sui diritti; un’istituzione indipendente per l’infanzia (un Garante o un Commissario).

È un quadro che, declinato in funzione del nesso tra bambini e media, può offrire spunti interessanti da cogliere. Perché anche l’UCSI, coinvolgendo interlocutori sensibili, istituzionali e non, può scegliere i suoi passi da percorrere per dare casa ai “media amici delle bambine e dei bambini”, in un orizzonte particolarmente problematico come quello comunicativo, in transizione epocale.Sotto questo aspetto per giornalisti e comunicatori (ma anche per quanti a diverso titolo si occupano di bambini e ragazzi) sarebbe molto utile poter disporre di un'indagine conoscitiva aggiornata, nella forma di un vero e proprio Rapporto sull’infanzia, dossier statistico, sull'esempio di quelli che sono stati in passato i Rapporti sulla comunicazione Ucsi Censis.  Risulterebbe un imprescindibile strumento conoscitivo e di analisi da offrire alla professione.

Conoscere, formarsi, operare

La sfida che abbiamo davanti, a mio avviso, ha infatti tre aspetti, che rinviano ad altrettante dimensioni: conoscitiva, formativa, operativa. La prima dimensione, conoscitiva, richiede la disponibilità ad aprirsi con umiltà e curiosità autentiche alle molteplici competenze pluridisciplinari che l’approccio al mondo dell’infanzia richiede. Il giornalista, il comunicatore sociale, in fondo è un interprete, un mediatore: un ruolo strategico, per costruire ponti tra linguaggi diversi, scegliendo interlocutori adeguati a raggiungere il comune obiettivo e la meta finale (la crescita della civiltà dell’infanzia e dell’adolescenza). La seconda dimensione, strettamente intrecciata alla prima e addirittura prioritaria, è formativa. E attiene a un processo di continuo e doveroso aggiornamento professionale (permanente), garantito ad esempio, in seno all’UCSI, dall’annuale Scuola di alta formazione «Giancarlo Zizola», officina dei ferri del mestiere che, anche in forma non residenziale, può poi gemmare - con una buona cassetta degli attrezzi di base - ulteriori esperienze seminariali successive di approfondimento, confronto e incontro nei diversi territori dell’Associazione. La terza dimensione è infine quella operativa, e investe ovviamente la progettualità dei singoli territori, in stretto collegamento con il coordinamento della dirigenza nazionale che può ipotizzare anche iniziative interregionali tra aree limitrofe, oppure affini per impegno.

Ovviamente, in questo specifico ambito dei bambini e media non mancano strumenti collaudati da poter utilizzare: quali - per limitarmi alla sola carta stampata, apparentemente minacciata di estinzione – il manuale per giornalisti in erba Il mio giornale (Lapis 2008, con tanto di software di impaginazione) di Fabio Galati e Laura Montanari, con illustrazioni di Francesca Rossi; o Visto, si stampi. Viaggio nel mondo dell’informazione. Come nasce un quotidiano di Nicoletta Martinelli e Rossana Sisti (San Paolo 2010, con prefazione di Maria Mussi Bollini e illustrazioni di Stefano Misesti), entrambi sperimentati con successo in realtà che hanno scelto di lavorare non tanto per, quanto con i più piccoli. Futuri cittadini/lettori/fruitori di informazioni.

Qualche ulteriore esempio tematico concreto? A voler individuare, in avvio di questo quadriennio della nuova dirigenza UCSI, quattro temi (tra i tanti!) squisitamente giornalistici (e non solo) su cui poter lavorare sul piano nazionale e regionale, in sintonia con il magistero di papa Francesco, citerei innanzitutto la questione migranti. Ma declinata specificamente nell’ottica dei bambini (“figli della nostalgia”, minorenni non accompagnati, accoglienza, integrazione e interazione, alfabetizzazione, ecc.). Poi, il problema del cosiddetto deep web, che rinvia non solo alla tutela dei bambini e ragazzi in rete nell’era digitale, o alla necessità di un’educazione all’uso creativo dei new media e dei social, quanto anche alla piaga della pedopornografia online, del cyberbullismo che può indurre al suicidio e persino a traffici illeciti ancora più gravi. Ancora: tra il “non pensato” della nostra epoca, che sta invece ricevendo una significativa attenzione da parte dell’editoria specializzata per ragazzi, c’è anche la questione delle diversabilità, intese non come sottrazione ma come differenza che può diventare risorsa, con un supplemento di empatia. Da ultimo, ma non di minore importanza, il nodo (non ancora sciolto) dell’educazione alla lettura in un Paese di non lettori: divenuto non a caso priorità nazionale, come dimostra anche il rilancio della campagna #ioleggoperché promossa dall’Aie (Associazione italiana editori) con il Cepell (Centro nazionale per il libro e la lettura), l’Ali (Associazione italiana librai), Aib (Associazione italiana biblioteche) e il gruppo tematico Cultura di Confindustria, con il patrocinio del Mibact, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.

Tracce per un nuovo patto educativo

Sono solo tracce, tra le infinite possibili, per selezionare percorsi che (ri)costruiscano la frammentazione in atto tra agenzie educative delineando un nuovo “patto” virtuoso tra ragazzi, famiglie, scuola, chiesa, biblioteche, istituzioni e associazioni che abbiano a cuore il futuro democratico del nostro Paese. A partire dai più piccoli che lo abitano. Non esistono, evidentemente, ricette pronte, ma molte domande sì: quali immagini d’infanzia veicoliamo attraverso i media? Quale informazione per i ragazzi, troppo spesso indotti a desiderare ciò che non conoscono e a conoscere ciò che non desiderano? E quali le loro esigenze reali, in un contesto di dealfabetizzazione (e analfabetismo affettivo/emotivo)? E ancora: come si nutre il loro immaginario, per farli diventare autenticamente ciò che sono? Il mondo dell’editoria specializzata, paradossalmente trainante (+7,9% del mercato, nel 2015) con la sua complessa filiera, è un osservatorio anche progettuale ricco e significativo, in quest’ottica. Per esemplificare, rinvio al mio intervento per la Fondazione Premio Napoli In viaggio verso le periferie incantate (suwww.premionapoli.it , «La parola ai giurati») o al contributo Vagare e divagare oltre il giardino segreto, pubblicato sull’Annuale internazionale bilingue (italiano/inglese) «La freccia e il cerchio», diretto da Edoardo Sant’Elia (Tre. Festa/Famiglia, La Scuola di Pitagora editrice), che rendono l’idea delle molteplici sfumature, implicazioni (e ricadute sociali) di questi scenari.

Il mondo salvato dai ragazzini? Il punto interrogativo è d’obbligo, a voler usare il celebre titolo del 1968 di Elsa Morante, autrice protesa - nell’anno della “rivoluzionaria” Lettera a una professoressa di don Milani - verso l’unico pubblico che sembrasse ormai capace di ascoltare la parola dei poeti: i bambini e gli adolescenti: perché «sono rimasti, forse, i soli a credere che il mondo è proprio come appare», quel mondo dei «felici pochi e degli infelici molti». Un mondo oggi in radicale trasformazione, con una velocità esponenziale che può intimorire e che investe anche il mestiere del giornalista nella postmodernità liquida, a rischio «naufragio con spettatore». E tuttavia, proprio nel (coraggio del) cambiamento può esservi la via d’uscita. L’l’approdo per la sopravvivenza. Il segreto di sempre nuove fioriture. Come nella Fiaba d’amore di Hermann Hesse. O nel verso di Hölderlin «Dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva». O nella stessa identità nomadica dei bambini, per Marco Baliani mutanti, replicanti. Lo spiega bene l’Elogio della metamorfosi proposto da Edgar Morin in un articolo su «Le Monde» (tradotto da «La Stampa» del 14 gennaio 2010): «Oggi la causa per cui battersi – afferma laicamente Morin - è assolutamente chiara: salvare l’umanità. La speranza vera sa di non essere certezza. È la speranza non del migliore dei mondi, ma in un mondo migliore. L’origine sta davanti a noi, diceva Heidegger. La metamorfosi sarebbe effettivamente una nuova origine».

Per concludere, viene in mente un canto brasiliano: se si sogna da soli, è solo un sogno; ma se si sogna insieme, è la realtà che comincia. Ed è allora nuovamente Papa Francesco a offrirci chiavi preziose per affrontare con serena consapevolezza la nostra realtà di comunicatori sociali e un cammino che voglia schierarsi dalla parte delle bambine, dei bambini e dei ragazzi: «Anche e-mail, sms, reti sociali, chat possono essere forme di comunicazione pienamente umane. Non è la tecnologia che determina se la comunicazione è autentica o meno, ma il cuore dell’uomo e la sua capacità di usare bene i mezzi a sua disposizione. […] Anche in rete si costruisce una vera cittadinanza. La comunicazione, i suoi luoghi e i suoi strumenti hanno comportato un ampliamento di orizzonti per tante persone. Questo è un dono di Dio, ed è anche una grande responsabilità» (Messaggio per la 50esima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali 2016).

Ultima modifica: Mar 4 Apr 2017