DESK 4/2016 - Il punto sulla Rai. La più grande impresa culturale del Paese

sfida più difficile, perché si tratta di far evolvere la cultura analogica del broadcaster, di chi genera canali di flusso la cui logica è solo il presente, in quella digitale di chi offre contenuti destinati a durare nel tempo, a essere spacchettabili, ricercabili e riconoscibili e ad adattarsi alle più svariate forme di comunicazione, anche interpersonale. Si tratta, soprattutto, di inserire in questo nuovo ambiente il carattere del servizio pubblico, la capacità di fornire al meglio quello che il mercato, da solo, non riesce a dare.

La nuova media company

Novità non da poco di questa rivoluzione è la necessità che la RAI riesca, in un tempo ragionevole, ad assicurare nel nuovo ambiente digitale lo stesso carattere di “servizio universale”, cioè raggiungibile da tutti, che è obbligatorio fornire nel boadcasting tradizionale. Questo tema viene spesso ignorato o almeno sottovalutato. L’associazione Infocivica, in un suo recente documento, ha opportunamente riportato al centro dell’attenzione proprio la necessità che il servizio universale di accesso alla rete venga garantito dalla mano pubblica alla futura concessionaria, con ogni probabilità la RAI stessa, in proprio o in modo indiretto. “Il Servizio Pubblico crossmediale delle comunicazioni – afferma Infocivica – deve garantire l’accesso, fornire assistenza personalizzata per la navigazione tra i contenuti e servizi disponibili e garantire, attraverso la produzione, la disponibilità di contenuti di qualità nell'informazione, nell'area educativa e formativa ed in quella dell’intrattenimento”.

E ancora: “Centrale per il Servizio Pubblico delle Comunicazioni rimane la questione dell’accesso diretto dei propri contenuti agli utenti finali, ovvero della necessità di creare condizioni effettive per fare in modo che siano destinati agli utenti e da essi effettivamente fruiti e non meramente “depositati” in rete. Mentre nell’offerta lineare del brodcaster il problema non si pone, in rete decisivo rimane il rapporto con l’utente finale. Cruciale per l’editore di contenuti pubblici sarà mantenere un canale di dialogo interattivo con i cittadini, fornendo loro una connessione e una funzione di orientamento di fronte al mare magnum dei contenuti disponibili nelle reti.”

Questo significa, nella sostanza, non solo esprimere l’esigenza che i servizi di accesso in banda larga siano garantiti a tutti, ma anche che ci sia un intervento diretto nel servizio pubblico per gestire il “modo” in cui contenuti circoleranno in rete. Nel linguaggio informatico, occorre fornire applicazioni (le app, i programmi) che garantiscono questa circolazione secondo criteri non commerciali ma di valorizzazione della qualità, della veridicità, della utilità sociale. In un rapporto diretto, trasparente, con gli utenti finali.

La nuova governance

Tornando alla “piccola” legge di riforma, vediamo cosa è cambiato, e cosa resta da cambiare. Si è detto che la legge riguarda la governance e non il mandato (salvo sul punto essenziale di avere introdotto il concetto di multimedialità). Tuttavia è stato opportunamente inserito, nelle disposizioni finali della legge, un comma che obbliga il Ministero dello sviluppo economico, in vista dell'affidamento della concessione del servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, ad avviare “una consultazione pubblica sugli obblighi del servizio medesimo, garantendo la più ampia partecipazione”.

Per quanto riguarda la governance, che nelle cattive abitudini giornalistiche nostrane appare sempre più importante della missione e del mandato, la legge riduce da nove a sette i membri dei futuri Consigli di amministrazione (quattro scelti dal Parlamento con un meccanismo a salvaguardia delle minoranze, due dal Governo, uno dai dipendenti RAI) e, da subito, incrementa in modo significativo l’autonomia del direttore generale attribuendogli il ruolo di amministratore delegato.

Quest’ultimo cambiamento è significativo e si presta a numerose considerazioni. Molti lo hanno dipinto come una definitiva riappropriazione della RAI da parte dell’esecutivo, in particolare da parte di Matteo Renzi. Non c’è dubbio che il potere del Governo sulla RAI esca rafforzato, a scapito di quello parlamentare (che in passato aveva prodotto, bisogna ricordarlo, la degenerazione lottizzatoria mai del tutto superata). La normativa attuale potrebbe essere pericolosa qualora futuri equilibri politici manifestassero la volontà di reprimere la libertà di pensiero e di informazione. Però al momento un più forte potere aziendale è indispensabile proprio per affrontare il bisogno di ammodernamento e riforma sostanziale dell’azienda RAI; purché, naturalmente, questa esigenza sia davvero esercitata al meglio.

Il canone in bolletta

Un altro cambiamento importante voluto dal Governo, e contenuto in altro provvedimento legislativo, è la riforma del canone di abbonamento, abbinato alla bolletta elettrica dal 2016. Anche questa novità viene variamente commentata a seconda delle diverse prospettive politiche. Dal punto di vista del servizio pubblico, il canone in bolletta dovrebbe ridurre considerevolmente l’evasione e garantire qualche risorsa aggiuntiva, anche se circola la tentazione di alimentare con i maggiori introiti altre voci di spesa. Non viene dunque garantita, per il momento, quella certezza di risorse che ci vorrebbe per pianificare nel tempo la transizione riformatrice.

Nel frattempo il Ministero dello Sviluppo economico, guidato per questa attività dal sottosegretario Antonello Giacomelli, avviava la consultazione pubblica prevista dalla legge di riforma. Le modalità prescelte prevedono una fase di consultazione di “corpi intermedi”, cioè di rappresentati di associazioni a vario titolo interessate al ruolo della RAI, alla quale seguirà una seconda consultazione online alla quale potranno prendere parte tutti i cittadini.

I sedici tavoli

La prima fase si è svolta il 12 aprile. Per una giornata, 16 tavoli tematici, ciascuno dei quali comprendenti dieci persone, tra cui un esperto RAI e un coordinatore designato dal ministero, hanno avanzato ragionamenti e proposte destinate a costituire la base della successiva consultazione pubblica.

Non sono stati resi noti né i nomi delle persone coinvolte, né i testi prodotti dai coordinatori. È pubblico solo l’elenco delle associazioni ammesse. Questa riservatezza, probabilmente eccessiva, rende manifesta la difficoltà con cui si è proceduto nel tentativo di dare un senso organico a orientamenti molto diversi tra loro. Alcuni hanno anche lamentato la perdita, nei documenti di sintesi, di molte proposte ritenute importanti.

Dopo la giornata del 12 aprile è mancata ogni occasione comune di rielaborazione e sintesi, come sarebbe stato necessario. Probabilmente anche per esigenze di tempo il Ministero ha assunto questo ruolo al suo interno, e lo stesso avviene nel rapporto con l’ISTAT al quale è stata delegata la stesura finale del questionario per la consultazione pubblica che agli inizi di maggio dovrebbe essere prossima alla partenza.

Il tavolo 13: l’informazione

Chi scrive ha rappresentato l’UCSI nel tavolo dedicato all’informazione. Personalmente posso esprimere soddisfazione sia per la qualità del nostro dibattito interno, sia per la conclusione redatta da Giacomo Mazzone, storica roccaforte italiana all’EBU-UER, l’Eurovisione, a Ginevra. Anche grazie a Mazzone è stato correttamente preservata una raccomandazione, ben presente anche nei documenti di Infocivica, che intende orientare il rilancio e la riforma dei servizi pubblici europei a una loro collaborazione, che è avanzata nelle tecnologie e i servizi ma del tutto insufficiente nei contenuti e nei prodotti. Una visione europea è giudicata essenziale per favorire la circolazione transfrontaliera dei prodotti, attraverso la rete informatica, ed è forse necessaria per la sopravvivenza stessa dell’Europa.

Il documento si apre richiamando alcuni aspetti della trasformazione epocale in media company, e subito dopo afferma che “per questa operazione strategica a difesa della democrazia è necessario che la RAI (…) favorisca la ripresa dei corpi sociali intermedi, dialogando con loro in modo permanente. Questa esigenza riguarda tutta l’azienda”.

“Aumenterà la forbice fra chi può essere informato e chi non se lo può permettere. La presenza sul territorio è sempre più debole. La RAI deve far interagire le piazze digitali con la piazza reale anche nei territori, e dovrà tenere insieme i vagoni che tenderanno a staccarsi dal treno Italia. Per farlo dovrà dialogare molto di più con la scuola e le Università e con i presidi di aggregazione sul territorio (associazionismo, parrocchie, ...)”.

Dialogo con i corpi intermedi

Questa potrebbe essere una novità sostanziale: in un mondo nel quale contano le singole relazioni, si riconosce e si chiede di incrementare la interazione con i soggetti che operano nel sociale, i quali agiscono per organizzare le relazioni interpersonali secondo gli interessi legittimi e le idealità presenti nella società. Non più una funzione da delegare a ruoli marginali – si pensi all’attuale Segretariato sociale della RAI – bensì cura permanente in ogni sede di attività. La RAI deve mettersi in sintonia con gli organismi che scontano sulla propria pelle l’assenza di una politica di comunicazione orientata alla coesione sociale, e che sarebbero i primi alleati di una RAI riformata.

In prospettiva, dovremo forse arrivare alla conclusione che le stesse attività di aggregazione dei contenuti che vengono svolte dai canali radiotelevisivi lineari tradizionali – e a maggior ragione saranno da essi svolte nel consolidarsi del nuovo ambiente digitale di rete – abbiano in qualche modo il ruolo di corpo sociale intermedio, rispetto alle relazioni personali, e come tali vadano curate e gestite.

Il documento richiama l’esigenza primaria di indipendenza e autonomia “pilastri del servizio pubblico”, e la necessità di risorse certe. Entra poi nel merito dell’informazione, affermando che la qualità delle news sarà sempre la prima missione del servizio pubblico nell’era digitale. Per ottenere questo risultato, viene proposto un metodo che appare molto simile a quello elaborato dall’Osservatorio di Mediaetica dell’UCSI. Ecco il passaggio essenziale.

Linee guida per la mediaetica del servizio pubblico

“La RAI deve elaborare delle proprie guidelines editoriali, che devono essere interiorizzate e devono scaturire da un processo permanente e differenziato di ricerca di etica professionale, molto laica e concreta. Quello che occorre, nella redazione che si occupa di economia, di cronaca, di sport eccetera, è una tensione permanente, ma anche momenti programmati, per discutere e definire i modi corretti di fare il proprio lavoro. Occorre che questo faccia parte della organizzazione del lavoro. E questo deve essere accompagnato da percorsi formativi che dovrebbero obbligatoriamente riguardare in primo luogo le linee gerarchiche dell'informazione. Possibilmente queste guidelines andranno discusse in pubblico con la società. Chi vuol fare informazione sul SP deve accettare di sottoporsi ad un maggior rigore, ad una maggiore accountability che negli altri media, e questo in funzione anche della maggiore autonomia e libertà che il SP garantisce ai suoi giornalisti”.

A proposito di informazione digitale, il documento afferma ancora che “c’è una pluralità di attori che vuole comunicare e produce contenuti che possono arrivare direttamente ai cittadini attraverso la rete. Questa non è una minaccia, ma una grande opportunità, perché la RAI avrà più che mai il ruolo di validare e assicurare l'affidabilità delle informazioni, come parte della sua missione di ‘costruire senso’ per la società”.

Algoritmi contro le bolle

E a proposito della tendenza di Internet di offrire a ciascuno solo le notizie e opinioni che fanno parte delle sue cerchie di riferimento, fino a costruire quelle “bolle”, favorite anche dai meccanismi di funzionamento degli algoritmi attivi in rete (quelli che regolano le aggregazioni interne ai social network, o che restituiscono risposte alle ricerche sulla base dei profili personali precostruiti sulle preferenze dell’utente, algoritmi che spesso creano incomunicabilità e finiscono per alimentare frammentazione sociale e estremismi), il documento afferma che “se i motori di ricerca hanno fatto fortuna con algoritmi che creano intorno a ciascun utente la sua bolla informativa che lo separa dal mondo o dalla realtà, il Servizio Pubblico deve produrre algoritmi che rompano le bolle e aprirsi a competenze e professionalità diverse”. Con allusione quest’ultima, forse troppo velata, alla necessità che il giornalismo si apra alla collaborazione di tecnici capaci di gestire i meccanismi complessi dell’informazione in rete.

Il documento riflette poi sulle condizioni che consentano ai giornalisti del servizio pubblico di recuperare la credibilità che oggi appare compromessa. I principali argomenti trattati sono la non confusione con i ruoli politici, l’obbligo di esercitare la rettifica, la trasparenza e pubblicità delle assunzioni e delle nomine, il corretto rapporto con l’informazione istituzionale.

Viene poi esaminata la dimensione internazionale, sia per quanto riguarda la rappresentazione dell’Italia nel mondo, sia per la capacità di raccontare il mondo agli italiani. Per far questo occorrono sviluppo e uso corretto degli uffici di corrispondenza RAI all’estero, e possibilmente un canale all news in lingua inglese (e araba) che potrebbe specializzarsi sui temi della salvaguardia dei beni culturali e del territorio e del dialogo interreligioso.

Discontinuità e velocità di cambiamento

Quanto all’organizzazione aziendale, che va lasciata alla disponibilità dei manager aziendali, si dice infine che “finita l’era della lottizzazione, va lasciato spazio alla diversificazione e all’offerta per target, ben consapevoli che la trasformazione in media company comporta grande discontinuità organizzativa e tempi molto stretti di adeguamento alle nuove esigenze di cultura professionale”.

Lasciamo ora la consultazione ministeriale per rendere conto delle ultime vicende interne all’azienda e per trarre qualche conclusione.

Si è tornato a parlare polemicamente della RAI per Porta a porta e la improvvida intervista di Bruno Vespa a Riina figlio, da cui si è avuta conferma della confusione che regna in azienda sia nella gestione della informazione di rete, che non è soggetta ad alcun controllo certo, sia della difficoltà di definire comunque le responsabilità tra l’esigenza di unità editoriale e la sopravvivenza di testate e reti autonome, a tutto vantaggio di chi è in grado di autogestirsi per forza propria. Altri momenti critici si sono avuti alla presentazione al Consiglio di amministrazione del nuovo piano industriale della RAI. Il DG/AD Antonio Campo Dall’Orto ne ha ottenuto l’approvazione all’unanimità: ma questo piano – almeno per quanto è dato sapere avulso dalla consultazione pubblica avviata dal Governo sul rinnovo della concessione, dalla quale dovrebbe emergere la nuova missione aziendale. Come si può fare un piano senza conoscere la missione? Perché la RAI non si impegna apertamente nel definirla?

In RAI tutto procede come prima?

È emersa una sostanziale discrasia tra i due percorsi. La legge prevede che la RAI deve diventare una media company? Nella presentazione del piano si parla di due applicazioni pilota che porteranno una ai programmi e una alle notizie. Ma questa è una mera logica di distribuzione, mentre una media company dovrebbe innovare la produzione realizzando la crossmedialità a monte, consentendo il collegamento tra media che hanno età diverse, come la televisione, Internet o magari Twitter, soprattutto innovando la cultura e la mentalità di giornalisti e programmisti per adeguarli al digitale e alla rete. Se si parte dalle “applicazioni vetrina”, invece, chi produce potrà continuare a crogiolarsi nelle vecchie abitudini. Sarà un caso che, dopo le prime polemiche, delle applicazioni non si parla più nel comunicato successivo alla approvazione del piano, sostituite da un generico richiamo alla “centralità nella generazione dei contenuti”?

Sforbiciare le edizioni di TG1, TG2 e TG3, valorizzando RAINews, comunque senza licenziamenti o prepensionamenti? Va bene, ma perché mantenere tutte le testate esistenti? Come farà Carlo Verdelli, direttore editoriale per l’informazione, dal suo ufficio in viale Mazzini, pur aiutato da alcuni validi colleghi (ma la sua “prima scelta” non verrà assunto perché in pensione) a decidere giorno dopo giorno, ora dopo ora, quale testata da Saxa Rubra debba rinunciare a mandare il “suo” cronista sugli eventi? Di certo non crederà Verdelli che i direttori – autonomi e responsabili, per legge e per contratto – si autolimiteranno sulla base di linee editoriali inevitabilmente ambigue, o desisteranno dalla tradizionale concorrenza interna. Anche qui, sembra prevedere la logica di cambiare il meno possibile, rinunciando a priori a quella pars destruens che continua a sembrarmi un passaggio obbligato per ridare alla RAI efficienza, cultura e logica interna degna di un servizio pubblico nell’era digitale.

Informazione, nelle testate e nelle reti

Abbiamo appreso che a Campo Dall’Orto non piace l’infotainment, e questa è una buona notizia. Però l’amministratore delegato RAI deve ancora prendere le decisioni più difficili. Molti analisti considerano la politica/spettacolo della televisione come una sorta di attentato alla democrazia, però il servizio pubblico continua a non affrontare la questione, e la principale fonte di informazione e dibattito politico degli italiani dopo i TG, cioè Porta a porta di Bruno Vespa, è sempre un’isola autogestita, protetta da sostegno politico bipartisan, di cui la RAI quasi si lava le mani.

È sufficiente restringere il perimetro del dibattito politico nei contenitori della domenica o del day time, o piuttosto occorre affrontare regole e intenzionalità cominciando dai contenitori serali, nessuno escluso? Non sarà per caso che si pensa ancora come modello a quella televisione che ha massimizzato i suoi ascolti lasciando a tutti licenza di straparlare e favorendo una idea di democrazia che inevitabilmente sfocia nel populismo, invece di puntare sulla qualità, sul ragionamento, sulla competenza?

Niente da dire, infine, su una moderata riduzione del numero dei canali e sulla accelerazione delle innovazioni tecnologiche come l’ultraHD, sulla valorizzazione della alta serialità nella fiction, e sulla revisione delle strategie cinematografiche. Nulla da dire, se non che si tratta di aggiustamenti tecnici che avremmo potuto trovare in qualsiasi piano industriale del passato. Ma è sufficiente tutto questo a immettere la RAI nel mondo digitale, e soprattutto a rilegittimare azienda e canone nella testa degli italiani, come ha chiesto il sottosegretario Giacomelli aprendo la consultazione pubblica?

Resta la inadeguatezza di un piano industriale che ignora l’esistenza di un percorso pubblico diretto a identificare i compiti futuri dell’azienda. Sarebbe stato meglio instradare le energie aziendali, nei mesi passati, a identificare e discutere pubblicamente quei percorsi di discontinuità che sono necessari perché i cittadini possano tornare a fidarsi appieno del servizio pubblico.

Vecchi e nuovi dirigenti

L’ultima vicenda cui abbiamo assistito è la decisione dell’USIGRAI di presentare esposti alla Corte dei Conti e alla Autorità Nazionale Anticorruzione sul tema delle assunzioni di dirigenti esterni da parte della RAI.

La prima reazione ­­alla notizia è di trovarsi di fronte a un episodio di autoreferenzialità corporativa. Però scavando nelle motivazioni, e riflettendo sul quadro attuale del percorso della riforma RAI, emergono cause e implicazioni che portano a vedere gli esposti in una luce diversa.

Tralasciamo le motivazioni giuridiche, che pure paiono solide e rivelano l’esistenza di significative tensioni nei vertici aziendali che si sono succeduti negli ultimi anni sui criteri di gestione dell’azienda pubblica. Vediamo invece gli aspetti di politica culturale rispetto al bisogno di riformare la RAI.

Quando un gruppo manageriale neoarrivato sente il bisogno di introdurre significativi cambiamenti (ed è già avvenuto nel passato), la tentazione è subito quella di assumere un manipolo di dirigenti con forti esperienze “di mercato” ai quali affidare il risveglio di manager interni più o meno dormienti. Cosa succede, in questo caso? I nuovi dirigenti hanno un tempo lungo, che può andare da sei mesi ai due anni, per capire dove sono finiti e mettersi nelle condizioni di operare. Alcuni resistono, altri se ne vanno. Alcuni in situazioni particolari favoriscono l’innovazione della cultura e dei processi aziendali, altri si adeguano a quello che trovano. Nel complesso il loro influsso innovativo resta limitato, sia per la resistenza opposta da molti “interni” sia perché il loro inserimento, spesso, avviene non al posto dei ruoli chiave operativi preesistenti bensì attraverso l’invenzione di nuove strutture “di coordinamento” destinate a rendere sempre più elefantiaca e ingovernabile la struttura aziendale. Al vertice si ritiene di prendere il controllo riducendo il numero dei propri riporti gerarchici diretti, ma in realtà sono questi ultimi a non avere il controllo dei propri sottoposti, che mantengono tutti i loro ruoli operativi.

Destrutturare, non rottamare

Questo meccanismo è particolarmente evidente nell’attività giornalistica. Già ho detto delle difficoltà di Carlo Verdelli, un ottimo professionista, nel dare ordini ad almeno otto direttori di Testata, nonché a tutti i direttori di rete che ospitano talk show informativi (alcuni dei quali, a loro volta, hanno difficoltà a dialogare con i conduttori/star). Gli auguro ogni successo, ma resto scettico sui risultati. Volendo andare a fondo, possiamo temere che alcune funzioni informative “di servizio” e “di emergenza”, oggi essenziali per i cittadini, come la sanità, il traffico, il meteo, rischino di restare marginali rispetto a questa piramide organizzativa e destinate a languire in una gestione frammentata e casuale.

Non credo che la questione si risolva rinunciando alle assunzioni degli esterni. I problemi principali sono due, di pari importanza: la struttura aziendale, e la selezione e formazione del personale.

Ristrutturare per generi e target

Tutte le responsabilità editoriali in RAI, con la eccezione della fiction e del cinema, sono ancora organizzate per canali di diffusione e non per aree tematiche. Questa soluzione è stata ottimale a lungo, in un mondo analogico nel quale erano padroni le strutture industriali della comunicazione e i grandi flussi organizzati. Oggi ci troviamo in un mondo digitale e liquido nel quale prendono il sopravvento la rete stellare e i nodi di relazione personalizzati, che trasportano anche grandi masse di contenuti audiovisuali. La massa d’urto della produzione di contenuti resta in mano alle industrie come la RAI, ma i nuovi player come Google, Whatsapp, Facebook e Twitter governano gli algoritmi che presiedono alla loro circolazione; mentre la modalità di consumo legata ai flussi lineari (la massa degli spettatori di RaiUno e degli altri grandi canali radiotelevisivi) è ancora molto significativa in termini sociali, culturali e politici.

È evidente la difficoltà di stabilire un modello organizzativo e produttivo per una situazione così complessa e in costante trasformazione. La RAI non può certo perdere di vista i canali generalisti, sia perché le “danno da vivere”, sia perché restano importantissimi dal punto di vista sociale. Ma se non trasforma profondamente se stessa non sarà mai una media company, un produttore di contenuti attivo a 360 gradi nel mondo della comunicazione, capace di mettere il mondo digitale e il web al centro della sua cultura e delle sue capacità produttive, e di restare così in stretto rapporto con i giovani che sempre più accedono ai contenuti, compresi quelli televisivi, attraverso modalità del tutto diverse da quelle tradizionali, al punto di non accorgersi nemmeno della loro origine. Soprattutto, non sarà in grado di produrre gli algoritmi alternativi che aiutino a distribuire i contenuti secondo criteri di valore e di salvaguardia della convivenza civile.

Governare il cambiamento

Mi sembra che dunque sia inevitabile ripensare profondamente la struttura della RAI, portando al centro generi e contenuti, che devono nascere in misura crescente nel web e per il web, con responsabilità editoriali il più possibile unitarie, efficienti e propulsive; e d’altra parte senza trascurare, anzi ripensandola profondamente, la funzione di selezione, editing e aggregazione dei contenuti dei grandi canali generalisti lineari, a cominciare da RaiUno, RaiNews e il portale informativo Rai.it (cioè dei canali per i quali non si dovrebbe prevedere una segmentazione per target di pubblico); a valle di questi, organizzando canali (non solo radiotelevisivi) per target differenziati; governando sapientemente (seguendo le innovazioni tecnologiche) la trasformazione dei canali tematici in banche dati on demand; e interpretando nel tempo, con capacità di adattamento, tutte le zone d’ombra e le incertezze che inevitabilmente si presenteranno nello spostarsi dall’uno all’altro modello produttivo. Pur con l’avvertenza che va bene essere prudenti, ma bisogna essere consapevoli che le trasformazioni principali sono già avvenute, la RAI è in ritardo nell’adeguarsi, e il mondo non procede al passo sonnolento dell’Italia.

La responsabilità del servizio pubblico

Veniamo alla seconda e non meno importante questione, quella della selezione e formazione del personale. Ovvero della cultura aziendale, della cultura del servizio pubblico, quella che si esprime esaltando l’idea di responsabilità. Va maturando la sensazione che gli attuali vertici aziendali non abbiano piena consapevolezza di un problema che non si risolve con dichiarazioni di buon volontà e richiede atti concreti. La cultura RAI non ha bisogno solo di attenzioni giovanilistiche e di una infornata digitale, deve anche rimettere nel DNA dei suoi prodotti – di tutti i suoi prodotti – il senso della utilità al pubblico e al Paese. È il solo modo per giustificare l’entità e la stabilità delle risorse pubbliche che le vengono destinate.

Serve una rilevante correzione di rotta di una cultura aziendale da anni più orientata al marketing che alla offerta di contenuti selezionati perché socialmente utili. Una correzione di rotta che non si improvvisa e che deve essere profondamente voluta e ricercata, sia nel mandato politico – molto distratto su questo tema – sia nella gestione di vertice.

La cultura aziendale non si inventa, la si costruisce in anni di scelte orientate. È quello che hanno fatto le dirigenze aziendali del dopoguerra, per decenni, anche attraverso visioni culturalmente e ideologicamente diverse, ma sempre orientate alla logica del servizio. È quello che progressivamente si è perduto a partire dagli anni ’80, sotto l’influenza di un liberismo sempre più individualista e meno attento alla riflessione etica.

Proprio l’etica professionale deve essere ricostruita oggi, in una dimensione laica, aperta alla pluralità delle idee e esperienze, in una logica di supporto alle debolezze e alle periferie che il mercato ignora. Questo deve avvenire partendo dal basso, cioè dalle selezioni pubbliche dei neoassunti e dalla loro formazione permanente. Senza trascurare i quadri gerarchici aziendali, che non hanno bisogno di rottamazione o di pulizia etnica, ma ai quali va chiesto un processo di ricostruzione sostanziale delle motivazioni del loro lavoro in RAI.

I nuovi giornalisti del servizio pubblico

Per lo specifico della professione giornalistica, quanto si è fatto negli ultimi anni ha segnato un miglioramento, ma restano zone d’ombra per responsabilità non solo della RAI. Sono state fatte selezioni pubbliche, però l’ultima – il maxi-concorso che ha sfornato un elenco di 100 giornalisti destinati non alla assunzione, ma a contratti di precariato – non è andata nel modo voluto. Quasi tutti i selezionati – lo ha detto il direttore del personale RAI Valerio Fiorespino in un recente convegno – sono già occupati, forse perché la dura selezione ha premiato davvero i più bravi. Molti di loro non accetteranno contratti di sostituzione estivi o per maternità. Ma ha senso un percorso del genere? Non sarebbe molto meglio che la RAI selezionasse neolaureati e li facesse transitare per la Scuola di Perugia prima di assumerli? Perché l’Ordine dei giornalisti ostacola la piena funzionalità della Scuola di Perugia come scuola aziendale, e si preferiscono concorsi i cui principali requisiti sono il possesso della tessera di professionista e una cultura enciclopedica?

Salvaguardare la cultura del servizio pubblico

Nella produzione di programmi le cose vanno peggio: l’ultima selezione pubblica per programmisti pare risalga al 1979, e si assumono soprattutto persone di mezza età spesso inacidite da troppi anni di precariato. Intanto Fiorespino è stato sollevato dall’incarico e la RAI attende una nuova assunzione esterna.

Criteri corretti di selezione e formazione del personale sono vitali per la nuova RAI. In questa prospettiva andrebbe vigilata anche la immissione di manager esterni. Non sappiamo quanto gli ultimi arrivati siano consapevoli e correttamente orientati rispetto a quanto serve all’azienda. Se hanno maturato consapevolezza devono iniettare grande voglia di cambiamento nelle strutture, nelle modalità operative, nella scelta e nella gestione dei contenuti. Devono trovare alleanze nell’azienda, combattere con decisione la spinta conservatrice, fare scelte difficili dettate dalla qualità e non dagli schemi e dalle norme preesistenti. In questo potranno essere aiutati dalle energie positive ancora presenti in azienda.

Saranno capaci di identificarle e di fare le scelte giuste? O ascolteranno le voci dei più forti, quelle meglio coese al mercato, agli interessi economici per i quali l’Italia è solo una piazza di consumatori? I prossimi mesi, e i contenuti del mandato pubblico legato al rinnovo della concessione in scadenza, saranno decisivi.