Editoriale 1 2017

Comunicare speranza e fiducia, di Vania De Luca

Il messaggio per la 51esima giornata delle comunicazioni sociali invita a comunicare speranza e fiducia nel nostro tempo, a incoraggiare tutti quelli che, «sia nell’ambito professionale sia nelle relazioni personali, ogni giorno “macinano” tante informazioni per offrire un pane fragrante e buono a coloro che si alimentano dei frutti della loro comunicazione». Tutti sono esortati a «una comunicazione costruttiva che, nel rifiutare i pregiudizi verso l’altro, favorisca una cultura dell’incontro, grazie alla quale si possa imparare a guardare la realtà con consapevole fiducia». Non è facile, in tempi in cui le “brutte notizie” sono più forti, più rumorose, più evidenti, più numerose, hanno come sempre l'apertura dei giornali e dei Tg. La comunicazione costruttiva diventa, così, di stimolo a fare due cose: innanzitutto a cercare buone notizie, buone pratiche, personaggi, storie ed esperienze positive da divulgare e mettere in circolo; in secondo luogo a cercare un senso, una direzione, un insegnamento, una possibile soluzione che possa venire fuori da quel mare di negatività che chi macina informazione ogni giorno si trova inevitabilmente a dover affrontare.
Non è facile - continua il messaggio - «spezzare il circolo vizioso dell’angoscia e arginare la spirale della paura» in mezzo a una realtà e, di conseguenza, a un mare di notizie, fatti di «guerre, terrorismo, scandali e ogni tipo di fallimento nelle vicende umane». È facile cadere nella spettacolarizzazione del dolore o anestetizzare la coscienza così come, all’opposto, scivolare nella disperazione, ma è anche possibile cercare quella strada alternativa che, senza «concedere al male un ruolo da protagonista», si metta alla ricerca di possibili soluzioni, «ispirando un approccio propositivo e responsabile nelle persone a cui si comunica la notizia».
 
Guardare la realtà con gli occhiali giusti
La realtà da osservare e raccontare è in una relazione molto stretta con lo sguardo di chi guarda, con gli “occhiali” con cui si sceglie di guardare. Scrive il papa che «cambiando le lenti, anche la realtà appare diversa». A volte abbiamo uno sguardo selettivo, che vede alcune cose e non ne vede altre, che pure abbiamo davanti. Altre volte, pur essendo nello stesso luogo vediamo cose diverse, perché diverso è il punto di vista, perché la capacità di leggere la realtà attraverso lo sguardo è conseguenza del proprio orizzonte culturale e valoriale, di un modo di pensare, di sentire, perfino di cercare. Credo sia utile, per dei comunicatori, interrogarsi su ciò che si ha davanti ma contemporaneamente anche sugli occhi con cui si guarda e, di conseguenza, si racconta. Com’è il proprio sguardo? Superficiale, parziale, indifferente, condizionato, interessato, oppure al contrario attento, partecipe, libero, solidale, sensibile alle esigenze dei più deboli piuttosto che alle lusinghe dei poteri?
È una sfida enorme sentire che «ogni nuovo dramma che accade nella storia del mondo diventa anche scenario di una possibile buona notizia, dal momento che l’amore riesce sempre a trovare la strada della prossimità e a suscitare cuori capaci di commuoversi, volti capaci di non abbattersi, mani pronte a costruire».
Guardare la realtà con “l'occhiale della buona notizia”, come il papa invita a fare, non significa usare lenti deformanti, e neppure tenere gli occhi aperti o chiusi a seconda delle circostanze, ma spinge piuttosto a cercare quell'oltre, quel di più, quella profondità che possa accendere (o evitare che si spenga) una lucina di speranza sempre e comunque, che aiuti a guardare avanti anche quando sembra che tutto sia perduto.
 
Il caso dell’informazione nell’emergenza
Le modalità e la qualità della copertura informativa sul terremoto che ha colpito le popolazioni del centro Italia a partire dal 24 agosto 2016, e sulla tragedia dell'hotel Rigopiano, sul Gran Sasso, sommerso e distrutto da migliaia di tonnellate di neve a metà gennaio 2017, offrono più di uno spunto di riflessione.
La macchina dei soccorsi e quella dell’informazione si muovono ormai parallelamente, in maniera integrata, con una maggiore reattività e tempestività rispetto a quanto avveniva in passato. Soccorritori e giornalisti, pur nella specificità e nella differenza dei ruoli e delle funzioni, arrivano spesso insieme nei luoghi dei disastri. Entrambi hanno un occhio allenato a cogliere gli elementi essenziali. I primi per intervenire, i secondi per raccontare. I soccorritori hanno un punto di vista privilegiato. Spesso arrivano per primi in zone consentite solo a loro, e assumono anche il compito di documentare in prima persona e in maniera professionale cosa vedono i loro occhi, con immagini, audio e video, che costituiscono materiale prezioso anche per il racconto dei giornalisti. Le riprese dall’alto dei paesi terremotati e quelle della zona del Rigopiano, mentre i primi soccorritori si facevano strada con gli sci, le abbiamo avute dai Vigili del fuoco, così come gli interni dell’hotel sommerso dalla slavina.
Il racconto in diretta (o comunque in tempi molto rapidi) di quello che avviene mentre avviene, incide sia sullo svolgimento dei fatti sia sulla formazione di un’opinione pubblica che sempre di più si lascia coinvolgere.
 
La forza per affrontare le catastrofi
L'addestramento e la preparazione dei soccorritori, persone eccezionali, avvengono nei tempi di calma per poter dare risultati quando gli eventi, imprevisti, lo richiedono. Le catastrofi sono spesso improvvise, la forza per affrontarle non si improvvisa. Insieme a professionalità, tecnica, addestramento, si è vista anche molta umanità e una grande capacità di lavorare in squadra. Non si lavora in quelle condizioni ininterrottamente per tanto tempo se non si è sorretti da una carica umana e da una forte motivazione. Così è anche il lavoro dei giornalisti “sul campo”. Anche il loro è un lavoro di squadra, e anche la loro professionalità non si improvvisa e non è solo questione di “tecnica”.
Quando i soccorritori sono arrivati al Rigopiano, si sono trovati davanti a un quadro disastroso, in assenza, peraltro, di segni di vita provenienti dall'interno dell'hotel. Ma il modo con cui hanno lavorato, retto dalla speranza di trovare superstiti, è stato una grande lezione, che ha consentito, nell’arco di un paio di giorni, la salvezza di undici persone, anche se purtroppo per altre 29 non c’è stato nulla da fare (l’autopsia avrebbe poi chiarito che erano tutte morte sul colpo o nel giro di qualche ora). Si cerca la vita anche quando le apparenze sono tutte “contro”.
 
Immagini e parole
La documentazione visiva di quanto avviene è parte essenziale del racconto, e il pubblico la cerca sia per un effetto realtà-verità sia per la forza che hanno le immagini, superiore a quella delle parole, anche se alle parole, alla comprensione di ciò che avviene, non bisogna mai rinunciare. L'immagine spesso parla alle emozioni, la parola alla ragione. Il racconto con le immagini in diretta non è privo di rischi. C’è sempre un occhio umano che guida l’occhio artificiale di una telecamera o di una regia, e che deve sapere prontamente quando “staccare” dall’immagine che è meglio non trasmettere.
Tutti hanno voluto vedere e rivedere video e foto del salvataggio della mamma e del bambino, i primi superstiti tirati fuori dall'hotel Rigopiano, così come avevano fatto il giro del mondo le immagini della piccola Giulia, 11 anni, estratta sana e salva dalle macerie di Amatrice molte ore dopo il crollo che l'aveva sepolta. Con loro, con i “salvati”, la gioia e i sorrisi, le pacche sulle spalle, la partecipazione di chi guarda, attraverso i video e la tv, una speranza che si accende. Le immagini, i volti, gli occhi dei protagonisti di queste storie estreme, che sono le storie dei nostri tempi, in cui tutti si possono immedesimare, dicono tante cose che a volte le parole non riescono a dire. E fanno concludere che sono utili le immagini che aiutano a sperare.
Le prime parole di quella mamma messa in salvo sono un esempio di comunicazione “essenziale”: provata, stremata, si è voltata verso la buca da cui era venuta fuori e ha detto solo parole necessarie e utili: “andate da mia figlia, è nella stanza accanto”. Le parole giuste, non una di più, non una di meno. Analogamente, poche parole semplici e densissime sono bastate a suo marito per definire il proprio stato d’animo quando tutta la famiglia si è salvata: «sono un uomo risorto». Lui, che con i suoi cari lì sotto pensava di aver «perso tutto».
 
 
Educare ai diversi strumenti comunicativi
Oggi ci sono strumenti di comunicazione alla portata di tutti. Averne consapevolezza può essere vitale. Per il primo superstite dell'hotel, l'uomo che ha lanciato l'allarme, è stato decisivo il telefonino dotato di WhatsApp. È più che comprensibile che non gli sia venuto in mente di scattare e inviare una foto, mentre aveva moglie e figli sotto una valanga, ma se quell'uomo avesse scattato e inviato una foto di quanto vedeva, probabilmente la macchina dei soccorsi si sarebbe mossa prima. L'amico che ne ha raccolto l'sos, se avesse ricevuto anche una foto da trasmettere a sua volta, non avrebbe dovuto sgolarsi con increduli operatori al telefono, che sulle prime sembravano minimizzare quanto ascoltavano. È dura ma è così. Chi con le immagini lavora, come i fotografi e i giornalisti televisivi, ne conosce il potenziale comunicativo, sa che ci sono cose che si possono anche non dire, perché bastano le immagini. Questa semplice regola, oggi che produrre e trasmettere immagini è a portata di tutti, dovrebbe entrare a far parte della consapevolezza comune. Educare a un uso sobrio e consapevole degli strumenti comunicativi dovrebbe far parte dei programmi di scuola, se anche i cosiddetti “nativi digitali” mancano di una corretta “alfabetizzazione mediatica”, utile sia per fruire in maniera critica dei media online, sia per usare meglio la tecnologia nella vita di ogni giorno.
 
Dentro le notizie
Non è secondaria una riflessione sulla presenza dei giornalisti dentro le notizie, sulla qualità dell'informazione che riescono a esprimere e veicolare. Questa è importante sempre, ma ha delle peculiarità quando si tratta di notizie “catastrofiche”, in cui si fa più evidente la relazione tra professionalità e qualità umana, alla ricerca di un equilibrio possibile tra il distacco e il coinvolgimento, un po' come è per i medici del pronto soccorso, lì in prima linea: coinvolti ma distaccati, una dote dell'umano che si impara sul campo, ed è molto soggettiva.
La presenza dei giornalisti è importante per aiutare a capire cosa accade e perché accade, per ricostruire e denunciare eventuali responsabilità o inadempienze, ma anche per incoraggiare ed evidenziare quello che funziona, e che può essere di esempio.
 
Raccontare il dolore
Il racconto dei giornalisti serve spesso anche per aiutare la collettività a metabolizzare quanto accade, a darvi un senso e una direzione, soprattutto nelle vicende dolorose, in cui ci sono dei sommersi e dei salvati, famiglie divise o che hanno perso tutto, dei “perché” senza risposta, emozioni e sentimenti oltre ai pensieri, traumi difficili da superare.
«Se io racconto il mio dolore, il mio dolore diventa più piccolo», ha detto una giovane ospite della comunità Rondine di Arezzo, dove convivono per un certo periodo di tempo ragazzi provenienti da paesi in conflitto. Nelle loro terre sarebbero potenziali nemici, mentre qui, in un luogo neutrale, riescono a superare contrasti e reciproche diffidenze, dando vita a percorsi di dialogo, di pacificazione e di riconciliazione.
Ci piacerebbe che questo fosse vero anche quando è qualcun altro a raccontare il dolore. Sarebbe bello sentire: «se qualcuno racconta il mio dolore, il mio dolore diventa più piccolo». Non è facile trovare le corde giuste per guardare, ascoltare, capire il dolore degli altri per poi dargli voce, con rispetto e senza banalizzazioni. Non è facile, e nessuno lo insegna, ma anche questo fa parte del bagaglio professionale di un buon giornalista. Scriveva Emilio Rossi ne L’undicesima musa che: «Scopo della comunicazione d’attualità (…) è aiutare a vivere in società, a sentirsi uomo tra gli uomini, cittadino fra i cittadini, consapevoli di essere titolari di diritti e di doveri. È attirare l’attenzione critica su problemi emergenti o comunque meritevoli di interesse. È istituire un controllo sociale (…) denunciare bisogni, soprusi, illegalità, segnalare valori e bellezze o sfregi, diritti e doveri, promuovere programmi, partecipazione, coesione, reciproco rispetto e solidarietà verso i deboli, i “feriti della vita”. Con questi scopi il principio di narratività deve farsi consonante, quanto meno compatibile».
 
Se era una sfida ieri, lo è, a maggior ragione, anche oggi.
Ultima modifica: Gio 8 Giu 2017