DESK 4/2016 - Tra forza e libertà Impressioni di una professione

Viviamo un tempo confuso. Condividiamo la stessa passione, gli stessi ideali, la stessa fede. Misuriamo ogni giorno la difficoltà di essere all’altezza del compito che ci siamo scelti: testimoniare la verità senza pretendere di imporla, ricercare la verità senza pensare di possederla mai del tutto, difendere la nostra identità senza brandirla come un corpo contundente, essere nel mondo senza essere del mondo, mantenere la giusta distanza senza però lavarsi le mani, come Pilato, avere un punto di vista senza perdere capacità di ascolto e di condivisione.
Alcuni fra noi lavorano nei giornali, altri in tv, o in radio, o in altri settori della comunicazione. Alcuni in media di ispirazione cattolica. Altri no. Che cosa aggiunge il nostro essere cattolici al nostro lavoro? Io non credo che ci sia una risposta, una sola a questa domanda. Abbiamo compiti diversi, ma proprio in questo sta la sfida: nella capacità di creare identità, identificazione, senso di appartenenza, di condivisione, di comunione. Di essere punto di riferimento per il dibattito culturale del Paese. Di offrire una chiave per risolvere il conflitto potenziale fra libertà e responsabilità. Di restituire un senso al nostro lavoro. Ora sarebbero tanti i discorsi da fare su tutto questo. Per esempio sulle emergenze che raccontiamo ogni giorno. Prendiamo il dramma dei profughi che arrivano nel nostro Paese. Di fronte al dramma dell’immigrazione, che scatena la paura dell’altro. “Identità” è una parola che sfida il mondo della comunicazione sulla trincea di una assunzione di responsabilità.
Se è vero, e a mio avviso lo è, che tocca anche ai mezzi di comunicazione nutrire, a volte persino costruire, o ricostruire, una identità nazionale, più identità culturali, occorrerebbe allora una maggiore  cautela di  fronte al rischio di precipitare all’indietro verso una sorta di tribalizzazione identitaria capace di cancellare, di far sparire ogni forma di dialogo, ogni minimo comun denominatore. Una cautela che a volte purtroppo non ci appartiene, presi come siamo dalla voglia di semplificare: il bianco e il nero, noi e gli altri.
Si tratta di un clamoroso errore di prospettiva: una crisi di identità spacciata per orgoglio di appartenenza.
Dovremmo piuttosto conservare la memoria delle nostre molteplici appartenenze, quella della radice ultima che tutti ci accomuna. Dovremmo contestare tutti ogni forma di fanatismo. Dovremmo ricostruire, rifondare, le basi di un comune sentire, le basi etiche che ci fanno riconoscere parte di un destino condiviso.
Dovremmo riconoscere che questo è anche il nostro interesse, l’interesse di ognuno di noi, ormai inevitabilmente legato a quello di tutti gli altri, anche a quello di chi è o ci sembra più lontano da noi.
Prendo in prestito le parole di Amin Maalouf, uno scrittore francese nato in quel crogiolo di identità diverse che è il Libano per spiegare…
“Non possiamo pensare di imporre ai miliardi di essere umani smarriti la scelta fra l’affermazione ad oltranza della loro identità e la perdita di ogni identità, fra l’integralismo e la disgregazione. Se i nostri contemporanei non verranno incoraggiati ad assumere le loro molteplici appartenenze, se non riusciranno a conciliare il loro bisogno di identità con una apertura schietta e priva di complessi alle culture diverse, se si sentiranno obbligati a scegliere fra la negazione di se stessi e la negazione degli altri, formeremo legioni di pazzi sanguinari, legioni di squilibrati”.
Ecco, io penso piuttosto, semmai, che nella tutela della nostra identità, etnica, culturale, religiosa, dovremmo sentirci un po’ tutti frontalieri. Dovremmo appunto costruire sul dialogo, e non sull’esclusione, la nostra identità che non è mai statica. Le nostre identità in divenire.
Ecco una sfida per il giornalismo cattolico. Una sfida dove si misura il senso di quel che siamo. Anche il racconto dell’economia ci sfida. Come giornalisti. Come cristiani. ”Oggi - ce lo ricorda il papa - l’essere umano è considerato egli stesso come un bene di consumo che si può usare e poi gettare”.
È una deriva che viene favorita anche dai mezzi di comunicazione. Cioè anche da noi. Non possiamo tirarci fuori. «Il Denaro» viene raccontato come un «idolo». «Ideologie, che promuovono la autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria» vengono spacciate come verità assolute e incontrovertibili. Forse per raccontare la crisi dovremmo opporci a questa «tirannia invisibile, a volte virtuale» delle leggi del mercato dove, come ci ricorda spesso il papa, «il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale» mentre «quello della maggioranza si indebolisce», la «corruzione tentacolare ha assunto dimensioni mondiali» e «l’evasione fiscale egoista» sembra sempre riguardare altri da noi.
Se quello che sta andando in crisi è un modello che ha posto ai margini la centralità dell’essere umano, se quelli a cui stiamo assistendo a livello internazionale non sono i vagiti di una guerra di religione ma le convulsioni di un sistema malato; il nostro racconto forse dovrebbe partire dalla centralità delle persone, e non dovrebbe essere piegato dalla mera logica economica di ciò che proprio la crisi ha messo in crisi. Dovrebbe porsi domande ulteriori. E non limitarsi allo schema “siamo entrati in crisi”, “siamo usciti dalla crisi”. Game on Game over. «Dà fastidio - scrive papa Francesco nella Evangelii gaudium - che si parli di etica, di solidarietà mondiale, di distribuzione dei beni, di difesa dei posti di lavoro, di dignità dei deboli, di un Dio che esige un impegno per la giustizia». Ma sono queste - credo - le domande da porsi sulla crisi, nella nostra quotidiana ricerca della verità.

Ecco: la verità. Cosa è la verità? La migliore risposta a questa domanda (e ai tanti, troppi, che credono di averla in tasca) la ha data Karol Wojtila, san Giovanni Paolo II, in uno dei suoi messaggi per la giornata mondiale per la pace, quello del 2002: “Bisogna fuggire dalla tentazione di imporre agli altri la propria visione della verità. Perché la verità, anche quando la si raggiunge - e ciò avviene sempre in modo limitato e perfettibile - non può mai essere imposta, ma solo proposta. Bisogna comprendere che imporre agli altri, con la violenza, quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell’uomo, e fare oltraggio a Dio”.
“Il fariseismo - come diceva don Primo Mazzolari - rivive in tanti modi. Uno di questi è scambiare la strada per un punto di arrivo e di possesso”.
Dunque la verità è un cammino. Dovremmo non dimenticarlo mai.
Ogni giornalista, se onesto, sa quanto sia difficile caricarsi sulle spalle il compito di raccontare fatti e opinioni, quanto sia ardua la ricerca della verità, quanto sia saggio non pretendere mai di averla raggiunta, non pretendere mai di imporla a tutti i costi, ammettere sempre la propria fallibilità.
La paura invece, e la sciatteria, si accontentano di stereotipi. Costruiscono risposte di comodo. Colpiscono più per viltà che per coraggio. Informano a metà. Cioè disinformano. Impediscono di farsi un giudizio preciso sulla realtà.
Mentre una comunicazione autentica - come ci ha ricordato il papa - non è preoccupata di “colpire”; non può ridursi all’alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio”. Raccontare la realtà è il nostro compito. Come giornalisti e come cattolici. Accettando la sfida del tempo che cambia. Mettendo in discussione certezze fragili. Modelli di interpretazione superati.
Questo vuol dire scegliere la prossimità come criterio per comprendere, per capire, per agire, per scegliere. E per parlare. Per parlare chiaro.
A che serve dire la verità - ci ammoniva Paolo VI - se parliamo un linguaggio che gli uomini del nostro tempo non capiscono. Parlar chiaro. Sì sì e no no. Non fare un uso antidemocratico delle parole è più di una regola di stile. È un dovere etico. Così come lo è quello di saper ascoltare, di saper vedere la realtà. Non c’è peggior comunicatore di chi crede di sapere già tutto, incasellando storie e persone in schemi astratti. O di chi addomestica la realtà per renderla più simile a come la vorrebbe. Non c’è comunicazione se non c’è capacità di ascolto e di visione. Questa è credo la comunicazione che evita sia di “riempire” che di “chiudere” alla quale ci invita il papa.
“Si ‘riempie’ - ci ammonisce papa Francesco - quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si ‘chiude’ quando, invece di percorrere la via lunga della comprensione, si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale, è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. Aprire e non chiudere: ecco il compito del comunicatore”.
Davvero la televisione e la radio- come scriveva il cardinale Martini - esaltano il carattere ambivalente che è in ognuno di noi nel momento della scelta, delle scelte, tra il bene e il male. Sta a ognuno di noi, come singoli, e come gruppi, scegliere. Ogni volta. Saper vedere.
Vedere cose che altri non vedono, raccontare cose che altri non raccontano, capire i segni dei tempi, mettere in rete quello che altri scartano, vincere l’indifferenza interpellando, interrogando.
In un mondo che scambia l’ignavia per obiettività, dobbiamo essere ed essere visti - anche da chi non crede - come cercatori di verità. Non per imporla, certo, ma per proporla. Possiamo, e dunque dobbiamo, essere un punto di riferimento del sistema. E non in senso consolatorio o di arroccamento in una nicchia. Ma come sale, lievito, che piuttosto che rassicurare, anestetizzare, addormentare, o al contrario istigare, provocare, coltivare un radicalismo sordo, sia segno di contraddizione, agente di trasformazione
Tutto ciò mi porta a parlare del ruolo delle tv, e di una tv, quella che oggi mi trovo a dirigere: la tv della Chiesa italiana. E mi porta a farlo partendo da una parola della quale abbiamo perso le radici.
Ci siamo talmente abituati a pronunciare le parole che le abbiamo consumate, svilite. Ma su questa che sto per pronunciare davvero vale la pena di fermarsi un po’, perchè parla del nostro vivere insieme e di cosa dovremmo raccontare, insegnare, seguire. In inglese è to share. In italiano - anche se non la traduciamo mai - è condividere, dividere in piccole parti un tutto, ripartire gioia e dolore nella stessa misura. Riguarda le cose che viviamo e che raccontiamo. I valori che dobbiamo proporre e non imporre. Il dialogo che dobbiamo cercare. La consapevolezza di essere parte comunque di un destino comune.
Anche lo share televisivo è o dovrebbe essere una comunione, una condivisione. Sempre imperfetta, sempre in divenire, sempre in ricerca. Il mondo della televisione lo ha ridotto invece ad un numero che misura una massa; ad un indice che serve per pesare il valore degli investimenti pubblicitari. Mentre invece se c’è una grandezza da misurare è quella della pienezza, della bellezza, di questa condivisione. Ed è una grandezza che sta nella sua unicità.
Questo è quel che nel nostro piccolo stiamo cercando di fare a Tv2000: riaffermare l’importanza non dello share in quanto tale, ma della sua qualità; dimostrare che un’altra tv non solo è possibile ma esiste già. Costruire una condivisione (uno share), una prossimità unica non con una massa anonima ma con le persone, tutte intere e una per una. Tessere una rete viva, non una connessione passiva, per capovolgere anche attraverso le immagini il modo stesso di vedere le cose, il punto di vista. La prospettiva, l’alto e il basso, il sopra e il sotto.
Se c’è un senso nel definire con il termine cristiano il nostro lavoro, questo si fonda sulla capacità di vedere. Si basa sul riconoscimento, che è il contrario dell’autocompiacimento: è dinamico, cambia sia chi guarda che chi è guardato; si fonda su un cammino, che è l’opposto della ripetizione, o della pretesa di essere arrivati. Si fonda sulla comunicazione, che è l’opposto della mera connessione. Questa è la nostra sfida. Cercare non l’anonimato della massa, ma gli occhi di ogni persona. Reagire al dualismo feroce del web (mi piace, non mi piace- amico-nemico, ti scrivo- ti cancello), che riduce la vita ad un gioco (game on game over), grazie alla comprensione di uno sguardo, all’inclusione di uno sguardo, alla creazione di una insiemità, di una rete di sguardi.
Passare da una tv dello scontro, che per fare massa brandisce le identità come corpi contundenti, ad una tv dell’incontro, del dialogo. Da una tv che parla senza ascoltare ad una tv che ascolta per essere ascoltata. Da una tv che si esalta nel brivido della violenza, anche solo verbale, costruita in arene sempre meno virtuali ad una tv fondata sulla carezza di uno sguardo misericordioso, capace di farsi carico dell’altro. Da una tv che divide fra noi e loro a una tv del noi.
La sfida di una comunicazione televisiva fondata sulla persona sta in questa capacità di vedere al di là dell’apparenza, del semplice mostrare; sta in un modo diverso di guardare alle cose, e ancora di più alle persone: capirle.
Una tv che costruisce la capacità di guardare il mondo con occhi cristiani non può aver paura di essere piantata nella realtà. Non si rinchiude nel chiuso dei propri studi. Non costruisce un mondo a propria immagine. Non vende sogni a buon mercato. E’ capace di cogliere la grandezza anche nelle piccole cose.
Sceglie la prossimità come criterio per comprendere, per capire, per sorprendersi e per sorprendere, per agire, per scegliere. Per piangere e per ridere. Per emozionarsi. Per ragionare. Solo così lo share non misura una cosa morta. Cambiare lo sguardo vuol dire passare da una tv che o è smemorata, o usa brandelli di memoria per costruire muri, ad una tv che conserva sempre la memoria per aiutarsi e aiutarci a non ricommettere gli stessi errori.
Da una tv che esibisce cinicamente il dolore degli altri ad una tv che lo condivide con rispetto, discrezione, partecipazione, per riscattarlo, trasfigurarlo.
Da una tv ad una sola dimensione, che separa il corpo dall’anima, ad una tv che vede l’anima nel corpo ed è capace di porsi le domande ultime. Da una tv di plastica, costruita a tavolino, ad una tv di carne e ossa, capace di rompere il velo dell’ipocrisia che ci avvolge, e di portare nelle case realtà che vorremmo forse non conoscere. Non è una questione di regole, di norme. La tv in fondo in fondo è un lavoro artigianale. Serve la semplicità di un artigiano che come diceva Sant’Agostino vede nel tronco non solo quel che è, ma quel che sarà. Vede in ogni cosa uno sviluppo, un processo. “Si vede bene solo col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”, fa dire Saint Exupery al piccolo principe. Come ricordava il cardinal Martini nella sua lettera “Il lembo del mantello”. Certo non è facile raccontare per immagini cose invisibili agli occhi. Ma - come scrive il papa - “non è la tecnologia che determina se la comunicazione sia autentica o meno…”. Non è nemmeno la liturgia perfetta dei tanti sedicenti guru della televisione. E’ lo sguardo puro. Meglio diffidare dai teorici della Tv come un mondo a parte, autoreferenziale, con i suoi riti, le sue leggi.
Questo modo di fare che apparentemente trasforma la televisione in una religione, la relega invece ad essere emarginata dalla vita vera, la costringe a vivere in un mondo parallelo solo apparentemente incantato, in realtà marcio e dunque fragile, non duraturo. Piuttosto, se c’è un linguaggio da recuperare, questo è quello libero dei bambini.
Ermanno Olmi, un poeta delle immagini, e un cristiano, lo sostenne parlando di San Francesco, citando Tolstoy a proposito degli scrittori. E Picasso a proposito della pittura. Vale anche per la televisione che voglia la realtà senza arrendersi agli stereotipi; o ai circoli viziosi delle condanne e delle vendette, che - come scrive il papa - continuano ad intrappolarci.
E’ il nostro essere cristiani che ci rende liberi di raccontare la verità del mondo. E che in conclusione ci muove ad andare avanti.
Il resto sta a noi.
Come dice un antico proverbio andaluso “la strada, viandante, non è mai tracciata, siamo noi la traccia”.
Siamo noi a tracciarla. Ma, come scriveva Paul Claudel, attenzione a non pretendere troppo da noi stessi: quando l’uomo cerca di immaginare per gli altri e di imporre agli altri il paradiso in terra, il risultato immediato è un molto meno rispettabile inferno.

Ultima modifica: Mar 4 Apr 2017