La comunicazione responsabile per i disastri naturali

#deskdelladomenica - articolo tratto dall'ultimo numero di Desk

Che cosa è la Carta di Rieti? Quale il suo obiettivo? Per rispondere a queste domande, dobbiamo in prima battuta precisare cosa intendiamo per comunicazione responsabile.

Non casualmente, questa è stata la prima domanda che ci siamo posti nel 2012 a Mirandola, nel corso di quell’incontro informale – e, tuttavia, sostanziale – che ha orientato tutto il lavoro successivo, affermandosi nello stesso metodo espresso dalla Carta di Rieti. La risposta - ieri come ora, e come sempre - è che un processo comunicativo responsabile debba essere in grado di intercettare pienamente quella complessità, che è insita in una qualsiasi situazione di crisi, derivante da un disastro naturale, tutelandone l’identità della comunità e del territorio nel suo insieme.

Una complessità che è in prima battuta quantitativa, in termini di attori che – con varie competenze, con vari linguaggi e con abiti diversi – partecipano al processo di contrasto e, ancora di più, concorrono al processo di ripresa di quella area. Una complessità in termini di tratti – geografici, sociali, comunitari, associativi, ambientali e produttivi – che ogni comunità e territorio esprimono naturalmente e che di fatto lo rendono unico. Una complessità in termini di aspettative/paure che ogni calamità naturale – a prescindere dal fenomeno – innesca nella popolazione colpita. E, dunque, una complessità nel tono e nel volume e nel linguaggio di una strategia di contrasto alla crisi conclamata, che origina da un intenso e salvifico lavoro di pianificazione e che – nella declinazione operativa – deve adottare un approccio multidisciplinare e una logistica multicanale, per rispondere efficacemente alle legittime aspettative di ogni ambito colpito. E non solo di alcuni, come purtroppo accade.

Al centro c’è la prevenzione del rischio
La Carta di Rieti è – vuole essere, sarà – proprio questo. Un contenitore naturale di apporti, competenze e mansioni. che si riconoscano reciprocamente, perfezionando una conoscenza ancora oggi troppo superficiale e consolidando una fiducia interna funzionale e necessaria al processo, che ogni attore è chiamato a governare e ai rischi – ineludibili – in termini di tenuta comunicativa.

In tal senso e in tale direzione, anche il metodo che abbiamo – tutti, in maniera condivisa e convinta – privilegiato per la “costruzione” del documento risponde a tale scopo.
Non una semplice adesione ad un decalogo prescrittivo di azioni, tempistiche e condotte, ma al contrario, una vera e propria call to action funzionale ad un processo di aggregazione e inclusione delle singole esperienze, maturate sino a questo momento, e costruita intorno al concetto di prevenzione del rischio. Perché non c’è dubbio alcuno, che quella premessa con cui abbiamo inquadrato la struttura di un processo comunicativo sostanzialmente responsabile, esiga un intenso e costante lavoro di prevenzione e di monitoraggio pre crisi. E che proprio la validità di questo lavoro concorra ad assicurare al processo generale quella fase di ripresa e rilancio troppo spesso semplicemente dimenticata. O, peggio ancora, disattesa per mancanza di forze e per urgenze ancora irrisolte.

Alcune precisazioni sul punto, data la sua centralità. Non casualmente parliamo di cultura piuttosto che di tecnica. Perché, di fatto, la tecnica c’è. Basta consultare un qualsiasi manuale sul crisis management per osservare – all’interno della classica tripartizione Research/Response/Recovery – il peso che ogni autore associa alla fase di pianificazione, in termini di azioni – il monitoraggio delle aree vulnerabili; la costituzione del crisis team – e, ancora di più, di effetti. Tuttavia, tutto questo - come abbiamo avuto modo di verificare trasversalmente in questi anni – non riesce ad uscire dalla pagina per trasformarsi in condotta, in linguaggio e, più in generale, in stile di gestione dell’organizzazione, soccombendo ad un fatalismo i cui effetti diventano chiari e letali proprio nel momento della crisi conclamata.

Cambiare le narrative
Di fronte a questo gap culturale, la strategia comunicativa e narrativa gioca un ruolo strategico.
Prendiamo come esempio la comunicazione ambientale. Per decenni ci siamo concentrati su di una narrativa – in fase di racconto o come di richiesta di sostegno – di stampo apocalittico, con l’adozione di messaggi che contemplano la privazione – dell’automobile come del calore domestico – come unica soluzione per contrastare gli effetti del cambiamento climatico. L’adesione a questo modello – come plasticamente dimostrato dalle cronache – è stata casuale e poco convinta, proprio a causa di quel fatalismo che, nella maggior parte dei casi, inibisce un cambiamento personale prima ancora che collettivo. L’obiettivo, di conseguenza, deve essere quello di abbandonare una narrativa formale e consolidata per elaborare valori simbolici nuovi e desiderabili, nello stesso modo in cui è stato fatto dal sistema economico fossile che ha scelto di raccontare e di giustificare la propria esistenza attraverso valori intuitivamente codificabili.

Si tratta solo di un esempio, ma anche del segno lampante di un ritardo culturale generale a cui tutti siamo tenuti a rispondere. Non più con formule interlocutorie e di parte bensì con una strategia sempre più coesa, sempre più stratificata e sempre meno sovrapponibile. Parafrasando le parole di Papa Francesco espresse in occasione dei 60 anni dell’UCSI, con strategie sempre più attente ai valori identitari e comunitari dei territori colpiti, rovesciando l’ordine delle notizie e dando voce a chi in quel momento versa in una situazione di fragilità.
Una strategia che riveli, oltre all’efficacia e all’efficienza, soprattutto un volto umano e partecipativo.

· Stefano Martello, giornalista, è coautore della Carta di Rieti. Giulia Pigliucci, comunicatrice, è referente per la Carta di Rieti per il non profit

 

Ultima modifica: Dom 23 Feb 2020