La giustizia capovolta. Esperienze e prospettive per un approccio riparativo alla pena

I percorsi di mediazione e di riparazione tra vittime e attori del reato sono ancora poco usati in Italia e la legge li permette per i reati entro i 4 anni di reclusione. Percorsi che servono per le vittime, che possono esprimere e condividere il proprio dolore, e per il reo, che si responsabilizza e prende consapevolezza delle sofferenze provocate. Se ne è parlato all’Università La Sapienza di Roma con i familiari di vittime di mafia, docenti universitari, il presidente di Libera Don Luigi Ciotti, l’autore de “La giustizia Capovolta”, Francesco Occhetta e Lucia Castellano, direttore generale del Dipartimento giustizia minorile e di comunità.

Nei 195 istituti penitenziari italiani, al 31 gennaio 2016, erano presenti 52.475 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480. I detenuti in eccedenza rispetto ai posti previsti erano 3.048 (+7,5%). Il tasso di recidiva all’inizio del 2015 era pari al 69%. Dei circa 1.000 detenuti che escono dalle carceri ogni giorno, circa 690 ritorneranno a delinquere. Lo Stato spende solamente 95 centesimi al giorno per l’educazione dei detenuti, rispetto ai 200 euro pro-capite previsti. Per il mondo della giustizia rimane una domanda antica: in quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? Ristabilire la giustizia non significa intimidire e intimorire attraverso pene esemplari per ottenere una sicurezza maggiore. Lavorare al recupero non è un elitarismo ma è porre al centro dell’ordinamento la prevenzione generale.

C’è bisogno insomma di capovolgere il senso antropologico della giustizia e ricollocare al centro dell’ordinamento il dolore delle vittime e la dignità dei detenuti che rimangono persone anche quando sono prive di libertà. Particolarmente toccante è stata la testimonianza di Daniela Marcone che oggi è responsabile del settore Memorie dell'Associazione Libera.

Durante la tavola rotonda è emerso che il processo culturale è già in atto ma deve coinvolgere il “sistema paese” attraverso le stanze della politica.
La giustizia riparativa infatti è un prodotto culturale. Esiste un prima e un dopo che coinvolge i familiari delle vittime di mafia. Ma il prima non viene mai preso in considerazione. Nella giustizia riparativa c’è posto per il racconto del dolore, quello spazio che in tribunale non è contemplato, essendo il luogo dove vengono raccontati i fatti oggettivi per la ricostruzione giudiziaria.
La giustizia riparativa è una grande opportunità, anche per tutte quelle storie dove non si conosce il colpevole. Serve ai familiari. E’ in gioco una visione laica del perdono e della riconciliazione. Una società che si confronta e si interroga con serietà su cosa fare per le persone che non hanno avuto giustizia è una società sana.

Secondo il Rapporto Sherman-Strang 2015 “i programmi di giustizia riparativa possiedono un buon rapporto costi-benefici nella riduzione del tasso di recidiva; riescono a ridurre sia la frequenza, sia la gravità degli episodi di recidiva quando vengono utilizzati per i reati violenti”.
In conclusione don Ciotti ha parlato di “giudizio, vendetta, pena e perdono”, le quattro parole che il volume di padre Occhetta consegna al lettore. Parole che faticano ad accompagnarsi perché contraddittorie e conflittuali. «I sentimenti – ha continuato don Ciotti - quando non trovano ascolto e rielaborazione diventano ri-sentimento. Un sentimento ammalato è un dolore insopportabile».
Il perdono si ottiene nella sfera personale e intima dell’individuo ma è una proposta culturale che deve originarsi dalla politica.

Ultima modifica: Gio 16 Feb 2017

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