Settimane Sociali: la prima volta a Pistoia (1907) e l'opera profetica del giornalista don Dario, che pensava soprattutto al 'lavoro'.

Verso Cagliari (-6): la prima volta a Pistoia e il tema del lavoro.

Le chiome d’olivo recinte e d’alloro, peana giulivo intoniam del lavoro. Lottiam per la fede, lottiam per il pane: il popol dimane redento sarà”. E’ il 1906. Un prete nella pianura attorno a Pistoia è famoso almeno per due cose: non solo per la passione con cui fa il prete (un secolo dopo si sarebbe detto “di strada”) in mezzo a socialisti agguerriti e massoni sempre potenti ma anche per la capacità di propagandare - fra il popolo più semplice - quel pensiero sociale cattolico che l’anno successivo, nell’ottobre 1907, porterà Pistoia a ospitare la prima delle tante Settimane Sociali.

Si chiama don Dario Flori. Fa anche il giornalista. Finirà a Roma, in Vaticano, come direttore dell’Opera nazionale della Buona Stampa. Si inventerà un settimanale per ragazzi (“Il Corrierino”) destinato al successo. Negli anni pistoiesi è conosciuto, anche per via di un carattere un po’ focoso, come “Sbarra”.

Una delle sue manie, insieme alla ricerca della giustizia sociale, è il lavoro. Agli inizi del nuovo secolo, aveva organizzato uno sciopero: quello delle trecciaiole (le donne, sfruttate, che intrecciavano la paglia per poi vedervi realizzati, con tanti profitti altrui, i famosi cappelli). Si batte per ridurre le ore della giornata lavorativa, per difendere il riposo festivo, per restituire a chi lavora una dignità troppo spesso perduta.

Al lavoro, a un lavoro giusto e bene retribuito, “Sbarra” continua a dedicarsi per tutta la sua vita. Con lui un altro prete capace di unire cielo e terra (don Orazio Ceccarelli) che sempre nella pianura di Pistoia e poi in tanta parte della Toscana si fa promotore di cooperative fra lavoratori nonché di Casse Rurali e Artigiane in strenua, e coraggiosa, lotta contro le tante forme di usura e i tanti usurai.

Don Flori pubblica, nella piana di Pistoia, riviste per educare e informare il popolo: semplici i nomi (La Chitarra, la Zanzara) e facile la lettura: spesso in rima baciata (“Viva, viva la nostra Chitarrina, perché mette le birbe in berlina: le birbe, le birbette, i birbaccioni. E quelli che si chiaman caporioni. Ma i ricconi gli gridan tutti “sangue”, perché difende il popolo che langue. Perché sostiene, forte e con decoro, i doveri e i diritti del lavoro. Perché difende sola gli operai, dalle branche di tutti i quattrinai ...”). Non tutti, nel popolino, capiscono le raffinate analisi di un Toniolo: ma tutti leggono e capiscono le poesie e la prosa di Sbarra.

Sul suo lavoro, una ottantina di anni dopo (1983) e con prefazione di Giulio Andreotti, scriverà una studiosa locale (Alessandra Covizzoli. “Dallo sciopero delle trecciaiole al canto del Biancofiore”. Poi ripubblicato una trentina di anni dopo: quando i temi del lavoro avranno assunto, di nuovo, una sempiterna centralità tanto che saranno al centro di una nuova Settimana Sociale. Stavolta a Cagliari).

A un certo punto, anno di grazia 1906, il democratico cristiano don Dario, prete e consigliere comunale a Quarrata, compone quello che decenni dopo, nel secondo dei grandi dopoguerra, sarebbe stato ripreso, come inno, con lievi modifiche, da un partito che si sarebbe chiamato Democrazia Cristiana.

A distanza di 110 anni musica e parole tanto roboanti e “antiche” fanno, se non contestualizzate, sorridere. Eppure, andando al sodo del messaggio, forse un po’ di attualità vi si ritrova, alla luce della dottrina sociale, anche per affrontare i temi del lavoro, e dei lavoratori, in un oggi che la rivoluzione digitale ha cambiato tutto con una rapidità impensabile ai tempi di Sbarra.

La nostra falange di pace è foriera: chi soffre, chi piange, chi crede, chi spera. Venite e cantiamo la nostra canzone: noi siamo legione. Corriamo e vinciam”.
E poi: “Da’ campi, bagnati del nostro sudore, veniamo, crociati di Cristo nel core. Veniamo e cantiamo la nostra canzone, estrema tenzone ci attende, corriam!
E ancora: “Dall’arse officine, dall’ardua miniera, venite su alfine alla nostra bandiera. Venite e cantiamo la nostra canzone, estrema tenzone ci attende, corriam!”.
Qualcuno, fra i meno giovani, ricorda il ritornello (“O bianco fiore, simbol d’amore, con te la gloria della vittoria! O bianco fiore, simbol d’amore, con te la pace che sospira il cor”).

Musica e parole sentono gli anni. Ma il succo c’è. Tuttora. Sta in una dottrina sociale che nella società post liquida può ancora avere la freschezza necessaria a dire qualcosa di sempre nuovo. Anche su lavoro e giustizia. Anche su dignità e ... redenzione.

Ultima modifica: Gio 19 Ott 2017

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