#altropresepe - leggere (da giornalisti) i segni dei tempi attraverso il mistero e i silenzi di Maria

Il Vangelo secondo Maria, donna dell’ascolto. Cuore di madre universale. E voce del silenzio: più eloquente di tante parole.

«Il mondo che guarda al futuro senza sguardo materno è miope», ha detto papa Francesco nell’Angelus del primo gennaio celebrando la solennità di Maria Santissima Madre di Dio, istituita da Pio XI nel 1931 con l’Encliclica Lux Veritatis, promulgata nel XV centenario del Concilio di Efeso che proclamò la maternità divina della Madonna.

E non è un caso che Bergoglio, nella festa liturgica del primo giorno del nuovo anno che – dal 1968 – è per la Chiesa cattolica anche la Giornata mondiale della pace, abbia insistito nel suo messaggio, fra il resto, sull’immagine di un Dio che «si è rivelato nel volto di un uomo, Gesù, “nato da donna”»: e dunque sull’icona della Theotokos che «ci mostra il Salvatore del mondo».

Un passaggio chiave – solo in apparenza parentetico - sul quale riflettere. Perché è proprio in nome della Madre, e del mistero di Miriam di Nazareth, che probabilmente dovremmo leggere, da comunicatori sociali, i segni dei tempi che stiamo vivendo oggi. Anche per attuare, con un ineludibile senso di corresponsabilità collettiva rilanciato dal Pontefice - con il tema della “buona politica al servizio della pace” come “bene comune” – il principio speranza legato ad ogni nuovo inizio e collegato a quella vita che per il Papa «è un dono che ci dà la possibilità di ricominciare sempre, anche dal più basso»; purché – aggiunge Bergoglio - si conservi e si rinnovi quello “stupore” senza il quale la vita «diventa grigia, abitudinaria».

In questo, Maria icona dell’ascolto (e dunque del dialogo) diventa figura paradigmatica. Anche per rileggere oltre gli steccati degli stereotipi e delle abitudini rituali il senso del cammino iniziato con l’Avvento, culminato nel Natale cristiano e sublimato dall’imminente Epifania: manifestazione della divinità di Gesù a Betlemme.

In tempi di infopollution, ossia di inquinamento da (eccesso di) informazioni, dove quella che Giorgio Manganelli chiamava la “troppità” della notizia - con il suo attuale, chiassoso e rissoso corredo di fake news e hate speech fomentato dai social media - prende il sopravvento sul rigore della ricerca della verità, sull’approfondimento nel racconto della realtà e sul confronto meditato, generativo di relazioni autentiche, Miriam di Nazareth ci invita infatti ad avere “un altro sguardo”. Ci induce a focalizzare, nella sacra rappresentazione del presepe e non solo, l’attenzione dall’Evento, dal contesto e dal racconto tradizionale della Buona Novella al ruolo silenzioso, appartato ma decisivo di una giovanissima donna perennemente migrante nel compiersi della Storia che ha cambiato il mondo. Ci ricorda, ancora, che il mistero della sua Maternità divina e universale si è realizzato accettando, con mitezza e fermezza, l’auspicabilità dell’ignoto, l’avventura di una responsabilità tanto più grande di lei e la prova del dolore più estremo e indicibile per una madre umana, troppo umana.

Il silenzio di Miriam di Nazareth non è mai passivo o rinunciatario, ma libero e costantemente partecipativo; non è «assenza dal mondo ma patria delle voci» capace di accogliere, senza lo stordimento del rumore e del brusio del mondo, l’infinito; non è vuoto di parole, desideri e pensieri ma denso di virtù sapienziali e mistiche, di fede fiduciosa e abbandono alla vita coltivata nel raccoglimento; e non è dunque segno esteriore di indifferenza o distacco bensì bisogno vigile e vibrante, pratica interiore di meditazione spirituale: necessaria a porsi in ascolto della terra e del cielo, e dunque del proprio destino indissolubile da quello dell’umanità.

La lezione - implicita - di questa donna icona di ascolto ci chiede allora, in tempi problematici (soprattutto per l’ordine simbolico della madre e la relazione materna, definita da Silvia Vegetti Finzi il “non pensato” della nostra epoca), di recuperare quel necessario “sguardo materno” al futuro auspicato da papa Francesco recuperando – anche nel nostro mestiere di giornalisti sempre più affannati nella velocità esponenziale di un mestiere da “storiografi dell’istante” – valori antropologici quali la dimensione contemplativa del silenzio aperto all’orizzonte comunitario, il primato dell’essere sull’avere, il coraggio della parresìa, ovvero il diritto-dovere di dire la verità. Anche se per questo si pagherà un prezzo personale. Fino – in casi estremi - alla perdita della vita: testimoniata da tanti colleghi uccisi o scomparsi nell’esercizio della loro professione.

Come ha intuito con forza evocativa Luce Irigaray, intellettuale femminista e laica, nel suo libro Il mistero di Maria (Edizioni Paoline 2010), il silenzio di Miriam di Nazareth, come quello di Dio, è in fondo Ruah, respiro stesso della vita: capace di farsi ponte tra passato, presente e futuro, e fra tutte le culture del mondo; e capace, anche per questo, di diventare simbolo di riconciliazione tra corpo e spirito, tra corpo e parola, tra umanità e divinità «grazie alla sua verginità spirituale», cioè alla sua «autonomia nella salvaguardia di un respiro e di un soffio viventi, irriducibili a qualunque cosa o persona». Nel disegno di redenzione, Maria donna dell’ascolto ha insomma un compito spirituale attivo. E con lei, tutte le donne intorno a Gesù, che Matilde Serao in un suo appassionato librino dimenticato del 1894, Le Marie, ebbe non a caso a definire «le nostre antenate della nostra fede cristiana» animate dall’inestinguibile «sacra fiamma» che «si alimenta nel coraggio e nel valore tranquillo delle donne».

Virtù non soltanto femminili o spirituali. Virtù - persino - “politiche”: sempre più necessarie. Da rilanciare, oggi, come quell’«Elogio della mitezza» di Norberto Bobbio, definita «la più impolitica delle virtù», ma anche «l’antidoto alle degenerazioni della politica», che il filosofo torinese invitava a non confondere con la remissività inattiva, in quanto virtù in apparenza debole, perché propria di chi non ha potere, ma al tempo stesso potente, perché anticipa un mondo migliore su questa terra.

«Amo le persone miti – scriveva Bobbio nel 1994 in quello che è considerato una sorta di testamento spirituale, dieci anni prima di morire - perché sono quelle che rendono più abitabile questa “aiuola”, tanto da farmi pensare che la città ideale non sia quella fantasticata e descritta sin nei più minuti particolari dagli utopisti, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una pratica universale». Ecco. Forse anche questo è lo «sguardo materno» evocato da papa Francesco pensando a Maria: una civiltà del rispetto che dalla dimensione del sacro a quella della filosofia morale fino alla sfera politica può aiutarci, quotidianamente, a (con)vivere meglio tra diversi. E a leggere, e raccontare, in profondità i chiaroscuri cangianti della realtà globalizzata e liquida con la giusta luce di un supplemento d’anima.

nel riquadro: Madonna con il Bambino del Sassoferrato (XVII secolo), dipinto custodito nella Pinacoteca comunale di Cesena

Ultima modifica: Ven 4 Gen 2019