Ci sentiamo più vulnerabili, possiamo scoprirci 'comunità' - #ioinformo

Ripenso ad Elize, Alain, Nathalie, Galilée e Liane, giovani laureati incontrati nel maggio 2018 a Butembo, nella pericolosa regione del Nord Kivu, a nord-est della Repubblica Democratica del Congo. Tre mesi dopo, il 1° agosto 2018, una nuova epidemia di ebola ha tormentato le loro esistenze già provate dalla guerra alimentata da almeno 130 bande armate e da faccendieri che stanno saccheggiando le ricche risorse naturali del Kivu.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 6 marzo scorso è stato dimesso da un ospedale l’ultimo paziente contagiato dal virus dell’ebola. Ma gli esperti dicono che da quella data bisognerà aspettare almeno 42 giorni, cioè due cicli completi di incubazione, per dichiarare sconfitta l’ebola che in 19 mesi ha ucciso 2.264 persone. Per Elize, Alain, Nathalie, Galilée e Liane, sarà comunque un miracolo sopravvivere alla notte in un’area dove ogni giorno – ogni giorno! – l’aids, la malaria, la polmonite, le epatiti, la febbre gialla, la mortalità infantile, la fame, la mancanza di accesso alle cure sanitarie e all’acqua appesantiscono il bilancio quotidiano di morti in un Paese grande otto volte l'Italia e popolato da 80 milioni di persone. Nei miei giorni nel Nord Kivu mi sono riscoperto vulnerabile come loro. Ma io sono andato via da quella terra, ho girato le spalle per tornare a casa, in un Paese allora lontano dalle minacce di un virus. Mentre loro sono rimasti, con le loro angosce quotidiane e con il loro coraggio di vivere.

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Ripenso a Mesafint, conosciuto nell’aprile 2007 ad Azezo, nel nord dell’Etiopia. Il giovane a suo tempo frequentava una scuola speciale, la scuola per ciechi “San Raffaele”, portata avanti dalle suore missionarie “Figlie di Sant’Anna”. “Sono diventato cieco perché mi lavavo il viso con l’acqua sporca. Malgrado tutto, va bene. Imparo e sono contento di poter giocare. Adesso mi occupo di me stesso. Sono state le suore ad aiutarmi a cambiare la vita”, mi ha raccontato Mesafint, una delle tante vittime dell’acqua sporca accolte in convitto dalle religiose. “Le cause principali della cecità dei nostri bambini sono la mancanza di igiene e la malnutrizione. Le famiglie sono sempre indaffarate a cercare il quotidiano. Allora i bambini non sono curati bene”, ha denunciato la superiora suor Haregheweini Kiflemariam. Dopo aver imparato a usare il bastoncino per ciechi e dopo essere stato promosso alla quinta classe, Mesafint ha cominciato ad andare a scuola da solo e a gestire meglio sé stesso.

Ripenso alla comunità di Bozoum, nell’ovest della Repubblica Centrafricana, incontrata un paio di volte. La gente riesce a curarsi i denti solo quando padre Aurelio Gazzera, Missionario Carmelitano, trova odontoiatri disposti a fare volontariato nell’ambulatorio della missione.
Ripenso agli Yanomami, uno dei popoli più antichi delle Americhe, incontrato nel luglio 2001 a Catrimani, in Amazzonia, nello Stato Roraima, a nord del Brasile. Erano finalmente sollevati dall’arrivo di due microscopi e di agenti sanitari che sostenessero la loro formazione per essere in grado di analizzare da soli i prelievi di sangue. Il tutto rientrava in un progetto sostenuto con l’otto per mille della Chiesa cattolica italiana. Fratel Carlo Zacquini, Missionario della Consolata, nel 1968 ha cominciato a condividere l’Amazzonia, la vita e le preoccupazioni degli Yanomami. Sotto uno yano – la tipica abitazione circolare degli Yanomami – mi ha confidato la sua emozione nel vedere i primi microscopisti i quali, “accanto alle loro conoscenze, avevano affiancato altri mezzi insostituibili per lenire parecchie malattie”.

Perché rievoco questi episodi? Non di certo per dire che gli inviati sono eroi dimenticati o per ricordare che sono una categoria a rischio, ma per esortare a far memoria – sempre! – delle loro narrazioni, che aiutano ad allargare l’orizzonte di ogni comunità in ogni tempo. I loro racconti ci fanno sapere che in più angoli del mondo – compresi gli Stati Uniti – la salute è un privilegio. Ci fanno realizzare il valore del diritto alla salute e all’accesso alla sanità pubblica garantita in Italia a tutte le persone, non solo italiane.

Non ce la faccio a non dire che oggi sento pienamente la vulnerabilità, quella vulnerabilità vissuta fino a qualche mese fa solo nell’andare e tornare dall’Africa Subsahariana o dall’America Latina. La vulnerabilità in gran parte del mondo è condizione avvertita quotidianamente, non è un fatto straordinario.

Le preoccupazioni di questo inizio 2020 ci stanno facendo sentire più comunità. La creatività, le intelligenze, l’umorismo e la solidarietà si stanno rimettendo in circolo con più vigore nonostante il necessario isolamento preventivo. Stiamo sfogliando nuovi libri da leggere che avevamo messo da parte. Spinto dalla comune riflessione sulla condizione umana di ogni esistenza e sul valore della vita, ho voluto rileggere il finale del romanzo “I ragazzi della via Pál”, scritto dall’ungherese Ferenc Molnár. In quelle ultime righe (stando alla traduzione del volume in mio possesso), János Boka, il capo della banda, riflette sul sacrificio del piccolo Ernő Nemecsek, morto di polmonite: “...per la prima volta, la sua anima di fanciullo intuì quel che è veramente la vita, per la quale noi, suoi schiavi ora tristi ora lieti, lottiamo”.

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anche le foto sono di Maurizio Di Schino

Ultima modifica: Mer 18 Mar 2020

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