Storie, vite, racconti e non solo numeri - #allafinestra

Ore 18. In un’Italia sospesa, quotidianamente si aspetta quest’orario cruciale un po’ con angoscia, un po’ con speranza per seguire in diretta la conferenza stampa della Protezione Civile che annuncia l’aggiornamento dei dati legati all’emergenza Coronavirus.
E, ogni giorno, i nuovi dati vengono rilanciati da tv, giornali, siti online, social che ci bombardano di numeri, di percentuali, di grafiche con diagrammi, schemi, mappe. Nuovi contagiati, decessi, numeri dei guariti rispetto alla giornata precedente, curve che salgono e scendono, tempi, stime e previsioni.

Certo, i numeri sono importanti e siamo tutti “attaccati” a quei numeri perché ci danno il polso della situazione, ci preparano a vivere il tempo che ci aspetta, ci danno l’idea di quanto bisognerà ancora aspettare per un abbraccio a una madre, una carezza a un padre, un bacio a un figlio, una pacca sulla spalla a un amico, un “ti voglio bene” sussurrato all’orecchio di un nonno.

Quei numeri, così come ci vengono forniti, nudi e crudi, sono certamente funzionali a una corretta informazione e al rispetto dei conseguenti comportamenti virtuosi che il governo ci chiede di mettere in atto per uscire dall’emergenza sanitaria.
Ma quei numeri sono soprattutto storie, testimonianze, vite. Di madri, appunto, padri, figli, mariti, mogli, fratelli, sorelle, bambini, nonni, parenti, amici che aspettano, assistono o non possono essere assistiti, piangono, pregano, soffrono e poi gioiscono, trepidano e poi tirano sospiri di sollievo, che disegnano arcobaleni, cantano in balcone; che combattono a casa o in corsia, in ambulanza, in farmacia o al supermercato, con i volti stremati alla fine di turni massacranti, segnati dall’uso prolungato delle mascherine e con le mani bruciate dai guanti.

Storie drammatiche che raccontano di famiglie sconvolte, separate, allontanate dagli affetti, che vivono lutti a distanza, perdite difficili da elaborare senza corpi a cui dare un ultimo saluto, morti senza dignità. Ma anche tante storie di speranza che raccontano di una grande umanità riscoperta, di una comunità ritrovata, di un tempo svuotato di superfluo e riempito di essenziale.

In quei numeri c’è Marianna, infermiera pugliese fuorisede, alla sua prima settimana di contratto in un ospedale di Torino che condivide con me la sua esperienza in un messaggio vocale su whatsapp interrotto di tanto in tanto dai singhiozzi del pianto nel raccontarmi di un ragazzo ventitreenne arrivato con i polmoni collassati. E mi confida che mai avrebbe potuto immaginare di toccare con mano tanta disperazione all’inizio del suo primo contratto stabile. Ma poi fa una pausa e mi dice con coraggio e convinzione che è questo quello che vuole fare ora e per sempre nella vita, che si sente fortunata a poterlo fare proprio durante questa emergenza e conclude con un “forza e coraggio, ce la faremo!”.

C’è Emma, 5 anni, che col il suo papà fa un disegno da regalare alla sua mamma al ritorno dalle sue 15 ore di turno in ospedale. C’è Giovanni che sta guarendo e si scatta qualche selfie nella sua camera d’ospedale per rassicurare i suoi cari che presto potrà tornare da loro. C’è la commovente storia di don Giuseppe che lascia la sua comunità parrocchiale in provincia di Bergamo perché decide di rinunciare al respiratore che proprio i suoi parrocchiani avevano acquistato per lui, per donarlo a un paziente più giovane. C’è Angelo, rianimatore nell’ospedale di Bergamo e papà di 4 figli, contagiato e tornato alla vita dopo ore di buio e di paura, che ora spera soltanto di riprendere il suo lavoro quanto prima. C’è il dottor Carlos Ricardo Pèrez arrivato a Crema insieme ad altri 34 medici cubani che hanno lasciato le proprie famiglie per venire in soccorso dei colleghi e del popolo italiano.
Sono numeri dentro i quali c’è la vita. Numeri che sono prima di tutto esseri umani.

Ultima modifica: Gio 26 Mar 2020