Un abbraccio per ricominciare

(restart-13)28 marzo 2021. È Domenica delle Palme. Una buona notizia ci apre la strada della Settimana Santa: un referto medico conferma la negatività di mio figlio dodicenne alla “Sars Covid 19”.

30 marzo 2021. La Settimana Santa è all’inizio e un’altra buona notizia ci proietta direttamente alla Pasqua: dopo quasi un mese tra malattia, cure, attese, sconforti e isolamento, un altro referto finalmente attesta che anche mia moglie è negativa. Per noi è la notizia più liberante e quindi più intrisa del significato pasquale. I due referti negativi diventano per noi la liberazione dalla schiavitù del coronavirus, diventano la gioia del “passare oltre”.

Stampo l’ultimo referto, incrociamo gli sguardi e subito realizziamo che, dopo un mese trascorso ognuno nella propria stanza, possiamo toccarci, baciarci e soprattutto abbracciarci. L’astinenza da abbracci si rivela la nostra Quaresima 2021 e l’abbraccio diventa il simbolo della nostra Pasqua di quest’anno, il simbolo del nostro passaggio a vita nuova, della nostra resurrezione. Quest’anno è così, con il tempo domestico della pandemia che finisce quando inizia un tempo liturgico che introduce ai giorni più intensi della Pasqua e tutto assume il sapore di una nuova vita.

Ripenso ai giorni del nostro isolamento in una casa di 75 metri quadrati con un solo bagno: mia moglie in camera da letto, mio figlio nella sua cameretta ed io nel salone a fare da filtro con il mondo esterno (ma sempre barricato in casa) chiedendomi il perché della mia reiterata negatività al coronavirus nonostante due casi positivi in casa e nonostante l’immersione in più zone rosse dell’Italia, dalla Lombardia all’Abruzzo, per Tv2000.

Ripenso all’opportunità di poter condividere la gioia del ricominciare con la comunità della giunta Ucsi proprio la sera del 30 marzo in una nostra riunione informale.

Ripenso alla generosità e al coraggio commovente del pizzicarolo (così si chiama a Roma il negoziante che vende generi alimentari), del fruttivendolo, del cartolaio e del gelataio pronti a spingersi fino ai confini della nostra casa “infettata” pur di consegnarci quanto chiedevamo al telefono. E ogni volta, alcuni di loro, dandomi il numero personale di cellulare: “A Maurì, quello che ve serve...chiama quanno te pare”.

Ripenso all’informazione vissuta da spettatore e a quel linguaggio spesso mortifero e assente di speranza usato per raccontare i dati quotidiani del coronavirus. Ripenso a quei collegamenti in diretta per il Tg2000 dalla Lombardia (a novembre 2020 ancora una delle regioni più sofferenti) volutamente aperti con i numeri dei guariti ancor prima dei numeri dei contagiati e dei decessi. E ogni volta la domanda: la notizia dei guariti può essere una goccia di speranza in questo tempo di carestia di speranza?

Ripenso a Samuela, positiva anche lei e guarita, la quale per il Tg2000 del 19 novembre 2020 ricordava con tenerezza il papà Gianni Bernardinello, il fornaio buono meglio conosciuto come Berni, morto di Covid dieci giorni prima. Si era parlato di lui durante la prima fase della pandemia di coronavirus, quando donava pane ai bisognosi nel loro storico panificio in Via Paolo Sarpi, nella Chinatown di Milano. Per Samuela, ricominciare significa tuttora fare memoria del papà continuando a fare ciò che avevano deciso insieme: “Abbiamo visto durante il primo lockdown che la gente aveva bisogno e quindi, siccome noi siamo un panificio – tra l’altro è un bene primario il pane – e alla sera avanza inevitabilmente qualcosa, abbiamo deciso di metterlo a disposizione di chi ha più bisogno”.

Ripenso a Samuela e all’opportunità di andare in Via Sarpi un paio di volte: una per osservare la situazione in incognita e poi presentarsi, l’altra per intervistare e realizzare immagini con il collega operatore Roberto Damiata, straordinario compagno di viaggio nell’avventura lombarda. Eppure eravamo in una zona rossa. Incoscienza? Coraggio? Non saprei.

Ricordo solo la paura, l’accortezza nelle precauzioni e le preghiere in uscita dalla redazione milanese di Tv2000 invocando Dio perché non fossi io a portare il coronavirus in casa. Non me lo sarei mai perdonato. Ma il coronavirus, per altre vie, comunque è storia anche della mia famiglia e segna inevitabilmente un ricominciare personale e professionale, i cui sviluppi generativo o regressivo forse è ancora presto per valutarli.

La foto, 'Orme', è di Maurizio Di Schino, autore dell'articolo

Ultima modifica: Ven 27 Ago 2021

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