Sulla credibilità, più domande che risposte

Una volta si diceva “l’ha detto la televisione”, per dire che una notizia era vera. Ora nessuno più dà fiducia ai giornalisti. In mezzo, è cambiata un’epoca. Ma il tema è ineludibile.

Andrea Melodia

Il dizionario Treccani ci ricorda che la credibilità non è solo la possibilità di essere creduti, o l’adesione razionale, nella teologia cattolica, a quanto viene attestato da un’autorità divina o umana degna di fede; ma anche, in seguito alla contaminazione della credibility anglosassone, la capacità di una persona, un uomo politico, una personalità del mondo finanziario, o anche di un ente, una società, un governo, oppure – aggiungiamo noi – di un giornalista o una testata... capacità di ispirare fiducia, di ottenere credito e riconoscimento: avere, acquistare, perdere credibilità.

Non è questione da poco affrontare oggi il tema della credibilità della comunicazione e dell’informazione nella sfera pubblica e in quella professionale.

Vediamo di mettere in fila alcune problematiche coinvolte. Su qualcuna cercheremo di cominciare subito un ragionamento, consapevoli però che questi temi, per raggiungere la complessità necessaria, richiedono approfondimenti e approcci ripetuti e diversificati, per le esperienze e per l’orientamento di chi li affronta. Ed è quanto intende fare “DESK”, con una serie di interventi sul tema della credibilità.

Dall’autorevolezza agli attacchi complottisti
Evitando di rifare la storia dei media, fissiamo un punto di partenza: quello che nella seconda metà del XX secolo, pienamente vissuto dalla generazione anziana di oggi, ha visto lo sviluppo finale dei media di massa, soprattutto cinema, televisione, radio, ma anche giornali. Uscendo da due guerre mondiali ravvicinate, durante le quali il loro ruolo, tv esclusa, si era già consolidato, questi media pesanti e strutturati hanno avuto modo di prosperare per oltre mezzo secolo, accompagnando nel bene e nel male, e nelle diverse modalità geografiche, la crescita dei consumi e dell’economia, e anche la partecipazione popolare alla gestione pubblica.

Quella è stata l’epoca del potere, e anche della responsabilità, di chi ha gestito professionalmente quei media. Credibilità e potere, addirittura, sproporzionati: «lo ha detto la televisione»...
In Italia, quella stagione ha accompagnato la ricostruzione, il miracolo economico, la transizione del ’68, le crisi del terrorismo e dello stragismo, tangentopoli. Dagli anni ’80, la TV commerciale ha progressivamente favorito il carattere edonistico e irrazionale nella comunicazione pubblica. Internet e i social media hanno immesso nella comunicazione attiva quasi tutti coloro che ne erano esclusi, e le ultime regole sono saltate: per averne di nuove, ora occorrono accordi planetari.
Non basta: è recentissima, quasi un battito nel fluire del tempo, la comparsa dell’Intelligenza Artificiale e la sua capacità di scrivere, parlare, disegnare e soprattutto di mettere in ordine. Non molto creativa, per ora, ma veloce, efficiente e sistematica, più degli uomini, nell’elaborare dati e conoscenze. Informazioni comprese. Saranno più i posti di lavoro distrutti, o i nuovi creati?

Che ne è, oggi, della credibilità dei giornalisti? In generale, possiamo dire che neppure quanti hanno conservato, come singoli o come testata di riferimento, i migliori livelli di qualità, sono oggi liberi da attacchi organizzati che mirano a distruggere il loro patrimonio di credibilità. Questo è effetto della radicalizzazione delle opinioni antisistema, ormai diffuse in tutte le democrazie occidentali. Non si tratta di opporsi semplicemente alla parte al governo pro tempore, bensì al mainstream dell’opinione pubblica, al pensiero scientifico, alla visione razionale degli eventi del mondo. Quando si diffonde il complottismo non c’è giornalista che si salvi, e purtroppo molti giornalisti ne sono corresponsabili.

La necessità di accompagnare le trasformazioni
Da dove ripartire, per riportare la credibilità dell’informazione a livelli sufficienti a garantire i suoi ruoli, di cane da guardia della democrazia e del potere? Per ricreare un minimo di base comune di credenze in qualche modo garantite, e di coesione sociale adatta a superare le sfide del futuro?
E come ignorare che la rivoluzione digitale influenza le guerre, condiziona la pace, detta nuove regole all’economia, alla finanza, alla produzione, e allo stesso funzionamento della democrazia?
Alcuni macro-obbiettivi richiedono una missione politica di alto livello: regole universali sull’uso della rete, sulla sua accessibilità e trasparenza, sul controllo etico degli algoritmi che gestiscono le grandi piattaforme.
Molto può essere fatto a livello europeo, se l’Unione riuscirà a preservare il suo potere nel campo informatico, che richiede competenze, impianti e materiali. Solo così potrà imporre buone regole.
A un livello più diffuso, la strada è quella di rimettere ordine e di accompagnare le trasformazioni tecnologiche il più velocemente possibile. Occorre individuare le funzioni privilegiate, che richiedono competenze e creatività, e puntare su quelle, abbandonando la zavorra. Certe battaglie di retroguardia, per la difesa dell’esistente, non sono più concepibili; ma non si possono abbandonare i più deboli a un mercato senza pietà.
Difficile scommettere sulla sopravvivenza della carta come consumo di massa, ma senza certezze. Mi sembra invece quasi certo che radio e televisione, così come le conosciamo, non hanno futuro come strumento di diffusione separato da internet. Ma questo non significa che si possa perdere il ruolo essenziale che hanno svolto per la trasmissione in diretta, quella che produce e diffonde i grandi eventi, le notizie sul mondo e che crea emozioni collettive. Bisogna ripensare questa modalità nell’ambiente digitale.

La rivoluzione digitale ha accelerato situazioni critiche già esistenti, portandole vicino al punto di rottura. Penso alla distinzione tra chi è tenuto a rispettare la verità fattuale e chi è legittimato a reinventarla, purché si dichiari, o a chi è autorizzato a iscriversi a un Ordine professionale e chi ne è escluso. Hanno ancora senso queste muraglie?
Penso alle varie forme di comunicazione che si mescolano all’informazione classica, senza che neppure più se ne abbia coscienza, e che si dovrebbero chiamare propaganda, pubblicità, intrattenimento, o addirittura fiction.
Penso alle regole di tutti questi mondi e di queste professioni, anche quando operano nella legittima autonomia dall’informazione, ma vengono tutte insieme convogliate in una melassa che tende a renderle indistinguibili.
Poi c’è da ragionare sul fronte antropologico, sugli effetti psicologici, sulle conseguenze nell’età evolutiva, sui nuovi modi personali di accostarsi alla comunicazione nel tempo in cui internet si tiene costantemente tra le mani, forse per più tempo di quanto non lo si lasci in tasca.

Riportare regole e ordine nel mondo della comunicazione
La trasformazione è troppo veloce per non chiamarla crisi. La prima necessità, mi pare, è che diventi chiaro a tutti che quanto è avvenuto e sta avvenendo nel mondo della comunicazione non ne costituisce un carattere, ma è quasi sempre la sostanza stessa di tutte le criticità contemporanee.
Obbiettivi sproporzionati, rispetto al “semplice” bisogno di ridare credibilità all’informazione? Non credo. Come ridare fiducia se non si possono offrire criteri logici, e un minimo di regole, e di ordine, nel mondo della comunicazione?
Di fronte alle crisi si reagisce in emergenza, e se la risposta è corretta a volte si può raggiungere il riequilibrio prima del previsto. Ma c’è molto lavoro da fare.

La foto su questo articolo è di GPA PHOTO Archive

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Ultima modifica: Lun 3 Apr 2023