La condivisione: quando fa bene al giornalismo e alla libertà di stampa?

Lunedì dell’Angelo «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?». E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro" (Marco, 24)

Alessandro Zorco

Esempio 1: nell’ottobre dello scorso anno il quotidiano sassarese La Nuova Sardegna depositava un esposto in Procura diffidando chiunque a rendere disponibile sulle piattaforme digitali la copia piratata del giornale. Alla denuncia, riferita alla ormai sempre più frequente diffusione su attivissimi gruppi whatsApp dei pdf dei maggiori quotidiani nazionali e locali, sono seguite nei mesi successivi una ulteriore denuncia alla Polizia Postale, sms verso i più attivi “spacciatori di pdf” con l’invito a smettere. Nonché la segnalazione del problema alla Fieg, la Federazione italiana degli editori.

Esempio 2: qualche anno fa, nel 2015, l’organizzazione ‘Reporter senza frontiere’, insieme a una organizzazione cinese che lotta per i diritti umani e la libertà di stampa ed ai colossi del web Google e Amazon, è riuscita ad aggirare la censura presente in molti Paesi del mondo creando delle copie dei siti oscurati nelle nazioni d’origine.

Alla luce di questi due esempi, diametralmente opposti, è possibile dire che la condivisione fa sempre bene al giornalismo e alla libertà di stampa? Oppure bisogna distinguere tra una condivisione virtuosa dei contenuti, che favorisce davvero la democrazia e la libera circolazione delle idee, e una condivisione selvaggia, quasi compulsiva, che non ha alcun riguardo per quei contenuti e per chi spesso ha lavorato sodo per approfondirli, verificarli e scriverli?

Chiunque abbia un sito internet nota spesso una discrepanza: nella maggior parte dei casi il numero delle condivisioni di un articolo supera di gran lunga il numero delle letture dello stesso. Tradotto: spesso si condividono gli articoli trovati in Rete senza neppure averli letti, solo sulla base di un titolo ad effetto.

Conosciamo bene gli effetti venefici di questa pratica: il diffondersi sempre più capillare delle cosiddette fake news, cioè delle menzogne, notizie false diffuse ad arte appositamente per inquinare il libero convincimento dell’opinione pubblica ovvero per scatenare vere e proprie ondate di odio online verso intere categorie di persone.

Nell’epoca in cui chiunque può liberamente esprimersi pubblicamente, usando un semplice smartphone o un tablet, solo una condivisione virtuosa e attenta dei contenuti può scongiurare questo pericolo. Ma questa buona pratica non passa soltanto attraverso la necessaria correttezza della categoria dei giornalisti, che hanno per legge l’obbligo di attenersi a precise regole deontologiche e di raccontare la verità sostanziale dei fatti.

La condivisione virtuosa passa anche e soprattutto attraverso l’avvedutezza degli utenti dell’informazione, che hanno non solo il diritto, ma anche il dovere di pretendere quella correttezza e quella verità. Ormai, con l’avvento dei social network e dei blog, diffondere pubblicamente opinioni e notizie è una cosa che possono fare tutti, non solo chi lo fa per professione. Tutti dunque abbiamo la responsabilità di ciò che scriviamo e condividiamo. Ed è una responsabilità sempre più pesante.

Ultima modifica: Sab 11 Ago 2018