Dall'Africa a Castel Volturno

Un altro contributo, in #deskdelladomenica, tratto dal numeero della nostra rivista dedicato al 'racconto giornalistico delle migrazioni'. L'autore è Valerio Petrarca, Professore ordinario di Antropologia culturale e Antropologia sociale presso il Dipartimento di Studi Umanistici e presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli «Federico II».

Valerio Petrarca (2017)

Lo scontento e la complessità

Un solo sentimento accomuna protagonisti e osservatori delle migrazioni: lo scontento, per come il processo si svolge, per come lo si gestisce e per come lo si interpreta.

Le divisioni e le fazioni cominciano e si moltiplicano non appena si dichiarano le ragioni di questo scontento, ragioni espresse attraverso formule troppo chiare e nette, che sono il segno della difficoltà d’interpretare e vivere un processo che coinvolge tutte le componenti in cui si può scomporre la vita individuale e collettiva. Nelle società “ospitanti” si ha una sola parola, “migrazione”, abbinata a qualche altra sotto-classificazione (“migrazione economica”, “migrazione politica”), per nominare un processo la cui complessità e varietà è impossibile da esagerare.

Non casualmente prevalgono, anche negli studi sui migranti, due generi estremi di discorsi: le storie di vita, dove emerge la persona per nome e per cognome nell’irripetibilità e nell’irriducibilità di ogni singola esistenza individuale, e le statistiche, che forniscono numeri e tendenze necessariamente insensibili alle infinite esperienze vissute, di cui il processo si nutre.

Mi chiedo se ogni discorso possibile, anche quello “scientifico”, non finisca per essere fagocitato, bongré malgré, da una certa mitologia sui migranti, prevalente nelle società “ospitanti”: una mitologia che troverà sempre, nell’uno e dell’altro genere di discorso, le ragioni giustificatrici di una posizione già presa, in un caso attraverso la selezione della storia di vita a essa più conveniente e nell’altro nella comparazione dei dati con altri dati ancora. Forse perché ci facciamo una domanda sbagliata o inutile, dalla cui risposta facciamo discendere le scelte di campo. Di fronte a una realtà di fatto, ci domandiamo se ci piace o no, o al massimo cosa ne dobbiamo pensare, e siamo poco interessati a interrogarci su cosa essa sia. Questa pigrizia del pensiero ci esonera forse da esami di coscienza impegnativi, indispensabili tuttavia per confrontarsi sui valori che ispirano la nostra stessa vita sociale interna.

Una ricerca sul campo

Nella speranza di agire in questa direzione, condivido qui con il lettore alcuni dati e alcune domande dipendenti da un’esperienza di vita e di studio svolta dai primi anni Novanta in alcuni villaggi e città della Costa d’Avorio e poi, dal 2006, tra migranti africani viventi a Castel Volturno, in provincia di Caserta, alcuni dei quali provenienti da zone in cui avevo vissuto.

La ricerca sul terreno ha vantaggi e svantaggi, rispetto ad altre consuetudini di studio. Permette di conoscere di persona i protagonisti di cui si parla, vederli all’opera quotidianamente e magari avere accesso esplicitamente alle interpretazioni che essi danno della loro vita e dunque della loro scelta migratoria. Può favorire però anche una sorta di presunzione intellettuale: proprio perché si sono vissute direttamente alcune esperienze si può pretendere di interpretare quelle esplorate indirettamente alla luce delle prime. Consapevole di questi rischi e della parzialità dei dati a disposizione, presento comunque alcune impressioni derivanti dalla frequentazione di alcune centinaia di persone conosciute lì in Costa d’Avorio e qui a Castel Volturno.

Costa d’Avorio tra immigrazione ed emigrazione

Agli inizi degli anni Novanta, quando in Italia si cominciava a parlare d’immigrazione, in Costa d’Avorio più di un quarto della popolazione residente era straniera: proveniva per lo più dagli Stati vicini (soprattutto dal Burkina Faso, Mali, Guinea, Ghana, Niger, Liberia e Benin). Se i fenomeni che etichettiamo con il prefisso «multi» (multi-etnici, multi-religiosi, multi-lingue) sono un portato della modernità, la Costa d’Avorio è stata ed è uno dei Paesi più moderni del mondo, dove tutti sono esposti da più di un secolo a lingue, culture e religioni diverse, di origine straniera e locale. Anche oggi la Costa d’Avorio rimane un Paese di immigrazione (gli immigrati hanno sempre superato il 10% della popolazione e nessuna di quelle «autoctone» è maggioritaria nel suo luogo di residenza), ma è diventato anche un Paese di emigrazione, fenomeno direttamente e indirettamente connesso con le crisi politiche, sociali e militari (2002-2011).

Le crisi però da sole non bastano a spiegare il fenomeno e in ogni caso è opportuno in questa sede mettere l’accento sul problema, di cui sappiamo poco, della percezione della vita e del mondo che spinge molti giovani a lasciare il loro Paese o a viverci e invecchiarci con l’idea di lasciarlo.

Agli inizi degli anni Novanta, quando un giovane ivoriano lasciava casa sua (e non era frequente) per svolgere lavori umili in un altro Paese, i vecchi si stupivano, non riuscivano a comprendere. Nei villaggi si diceva: «Se ho voglia di città me ne vado ad Abidjan, non a Parigi». Oggi nessuno si stupisce di fronte al desiderio di emigrare. Gli antichi riti di iniziazione dei giovani e delle giovani tendono a essere rimpiazzati dal viaggio di emigrazione. Cosa è successo in così pochi anni?

L’esodo in Campania

Parlare con i giovani ivoriani residenti a Castel Volturno è stato molto più difficile che parlare con quelli rimasti in patria. Nei primi momenti raccontavano, di malavoglia, tutti la stessa storia, adeguando la loro memoria alle attese considerate tipiche delle persone “ospitanti”. Con il tempo però, man mano che si stabilivano rapporti di amicizia, emergevano nei racconti dei migranti memorie ricche e molteplici. Le scelte migratorie si raccordavano alla varietà che contraddistingue ogni esistenza individuale: chi era partito per una delusione d’amore, chi per aiutare la grande famiglia a progredire economicamente, chi per liberarsi dai dissidi interni al lignaggio e vissuti nella paura stregonesca, chi per sfuggire al controllo dei “vecchi” che pretendevano di determinare scelte affettive e lavorative, chi nell’intenzione di tornare a casa avendo acquisito una posizione sociale che per nascita non avrebbe mai potuto conseguirenel luogo di esodo (ovviamente queste ragioni, elencate a titolo di esempio, vanno considerate nella possibilità di addizionarsi e intrecciarsi tra loro).

Molti di questi giovani, pur essendo pesantemente sfruttati nella società castellana “ospitante”, non ne dicevano male. Si lamentavano solo quando qualche “datore di lavoro” non rispettava i patti e magari non li retribuiva secondo gli accordi (un poco più o un poco meno di venti euro per una giornata di lavoro di dodici ore). Se questi giovani sopportavano a Castel Volturno umiliazioni che mai avevano subìto in patria, ci doveva essere una ragione; che però, in molti casi, non riuscivo a comprendere chiaramente. Allo stesso modo, non riuscivo a comprendere chiaramente perché alcuni castellani, spesso proprio quelli che più traevano ricchezza dai migranti (per esempio affittando loro «case» a duecento euro al mese per ogni persona, impiegandoli in lavori di campagna o di edilizia a pochi euro al giorno, facendosi intestatari, dietro pagamento, di autovetture guidate da migranti privi di permesso di soggiorno) si lamentassero molto della presenza dei migranti africani (che a Castel Volturno raggiungono più del 60% della popolazione migrante).

Le ragioni del mercato

Non è facile trovare raziocinio nelle scelte di vita, nella nostra come in quella degli altri, ma se proprio si deve trovare una ragione, questa deve essere cercata nel “mercato”, che si fa puro regolatore dei rapporti umani, al di qua della coscienza più o meno vaga che i protagonisti possono averne. Se i “datori di lavoro” assoldano i migranti africani, che dicono di voler espellere dal loro territorio, devono evidentemente trarre un vantaggio. E se i migranti africani restano a Castel Volturno, subendo umiliazioni cui non erano abituati, devono evidentemente trarre anch’essi dei vantaggi, se non altro quelli derivanti dal cambio tra l’euro e la moneta del loro Paese di esodo. Mi chiedo però perché questa regola non valeva per i padri e i nonni dei giovani ivoriani di Castel Volturno, padri e nonni che spesso hanno avuto in patria una vita più difficile dei loro figli e dei loro nipoti che l’hanno lasciata.

Non so dare una risposta convincente. Non ignoro le ragioni della politica e dell’economia e tuttavia queste non bastano da sole a spiegare le cose, almeno quelle di cui sono stato testimone, anche perché in diverse aree della Costa d’Avorio si vive meglio che a Castel Volturno, tanto è vero che nel Paese africano convivono sia una forte immigrazione sia una forte emigrazione. Quei padri e quei nonni erano sostenuti da un’architettura simbolica fortemente strutturata, che li aiutava a dare significato all’esistenza, secondo un’immagine di un tempo che oltrepassava l’esistenza individuale. Si accorgevano che la loro vita era stata meno difficile di quella dei loro padri ed erano certi che sarebbe andata meglio per i loro figli e per i loro nipoti.

Questi, invece, al pari dei nostri figli e dei nostri nipoti, tendono a misurare il tempo al ritmo delle brevi esistenze individuali, dove il destino si consuma in pochi decenni di gioventù. Anche i poveri non vivono di solo pane e un modo di riconoscere nel migrante un nostro fratello significa anche guardarlo come in un gioco di specchi, dove si possono riflettere le nostre stesse speranze e le nostre stesse tare, ma in una condizione dove beni materiali e significato della vita sono diversamente miscelati, e dove è possibile che si addizionino sia crisi di beni materiali sia crisi di significato del mondo e della vita.

foto: AgenSIR

Ultima modifica: Mar 25 Mag 2021