Gli occhi dei bambini negli occhi del cronista

Ancora il fenomeno dell'immigrazione al centro del #deskdelladomenica di oggi. L'occhio attento di Angela Caponnetto (giornalista di Rainews) ci porta a considerare il fenomeno dei minori che raggiungono il nostro Paese e l'Europa.

Angela Caponnetto (2017)

“Per carità! Non fanno ascolti... Gli immigrati non fanno notizia, la gente non li vuole vedere e non vuole sentire le loro storie”. Così mi dicevano anni fa i miei superiori quando in Tv si provava a raccontare storie di immigrazione nel nostro Paese.

Le stesse persone, qualche tempo dopo, dovettero ricredersi quando nel 2002 arrivò a Catania una carretta del mare con un migliaio di curdi a bordo, catalizzando l’attenzione di decine di troupe televisive e organi di stampa da ogni parte del mondo. Fu allora che documentai da giovane cronista Rai il mio primo “sbarco dei Mille”. Uomini, donne e tanti, tanti bambini che scendevano da una grande vecchia nave, venivano rifocillati sul molo della città sotto l’Etna e infine trasferiti su pullman a Bari in un centro di accoglienza nei pressi dell’aeroporto militare. Per la prima volta sentivo parlare di “emergenza” perché gestire in una sola volta mille persone era cosa mai vista e perché quelle mille persone arrivate in suolo italiano, in Italia dovevano almeno inizialmente essere accolte.

Quando sono i numeri e non le persone a fare notizia

Quel numero, non le persone e le loro storie, faceva notizia. Tanto che in pochi avevano capito che tutti quei curdi scappavano dal conflitto per l’indipendenza dalla Turchia che aveva fatto 40.000 morti. A me colpirono subito l’odore di quell’umanità ammassata per giorni in ogni angolo di quella carretta e gli occhi dei bambini in braccio ad un genitore o ad un parente. Non immaginavo che anni dopo avrei visto negli sguardi dei tanti bambini migranti il tunnel della paura e della solitudine di chi ha avuto violata l’infanzia affrontando il viaggio migratorio da solo.

Dopo lo sbarco dei mille nel 2002, il tema del contrasto all’immigrazione illegale tenne banco per un po’, con la solita bagarre tra forze politiche opposte. Poi si tornò al disinteresse mediatico legato al concetto che l’“immigrato non fa notizia”. Finché i migranti che continuavano ad arrivare illegalmente, a causa delle nuove guerre e delle gravi crisi economiche nei paesi asiatici e africani, sono diventati sempre più numerosi, viaggiando in condizioni sempre più precarie e rischiose. Finché insomma non si arriva ai tragici naufragi del 2013 e del 2015, che tristemente tornano a far diventare “notizia” l’immigrazione.

Quelle persone ammassate come sardine, sporche, disidratate e affaticate, i corpi senza vita di adulti e bambini che galleggiano nelle acque del Mediterraneo o adagiati sulla sabbia, entrano prepotentemente nelle nostre case: inizialmente catturando la pietà e la solidarietà della gente. Poi a intimorire e ad infastidire lettori e spettatori che nel frattempo si trovano ad affrontare in Europa una delle peggiori crisi economiche della storia, a cavallo tra due secoli. Una paura cavalcata dalla politica, che si è servita di un’informazione a volte troppo dura e drastica nel descrivere il fenomeno come “emergenza” o come “invasione”, altre volte distratta o troppo distaccata e limitata alla fredda conta dei vivi arrivati e dei morti annegati. Ecco perché ho sentito l'esigenza di affrontare questo tema andando oltre un elenco di numeri. Bisognava andare a vedere con i propri occhi, seguire il flusso, documentare e raccogliere più testimonianze possibili.

Sulle navi in mezzo al mare

Partire sulle navi in soccorso nel Mediterraneo Centrale è stato il primo approccio per vedere cosa accadeva in quel tratto di mare. Scoprendo che solo vivendo quell’esperienza si poteva capire quanto si diventa solidali con l’“altro” nel momento del bisogno. Quanto non si può far a meno di tendere la mano a uomini, donne e bambini che ti rendono la loro mano in segno di richiesta di aiuto. E solo vivendo quella esperienza, la si poteva rendere al fruitore dell’informazione senza filtri e dunque più diretta.

Ancora una volta, in quelle circostanze, i miei occhi si sono fermati a guardare dentro quelli dei bambini. Bambini con i quali ho giocato per giorni sul ponte di prua durante la traversata prima dello sbarco. Ma quelli che più catturavano la mia attenzione erano i bambini che arrivavano da soli, quasi tutti africani subsahariani: piccoli uomini con l’età per essere tutelati, coccolati, per giocare e per essere nutriti. Invece già adulti, in qualche modo capaci di badare a loro stessi. Viaggiano spesso in gruppi di tre o quattro, si definiscono “fratelli” anche se non sempre lo sono di sangue: sono in realtà fratelli di viaggio e di vita.

Un gruppo in particolare mi ha colpito. Erano in quattro, ivoriani e guineani, salvati a circa venti miglia dalla Libia dalla nave Aquarius della Ong SoS Mediterranée, che lavora in partnership con Medici Senza Frontiere. Il più grande, di 12 anni, faceva da padre agli altri tre bambini di 8, 6 e, la più piccola, di soli 2 anni.
Avevano viaggiato in mezzo a quella massa di carne, odori e sudore che sono i migranti schiacciati sui barconi. Erano disidratati e debolissimi. La seconda aveva un bel vestito bianco con piccoli fiori azzurri, sporcato dal viaggio sul barcone. Era il vestito della festa che si fa indossare dai grandi per due motivi: se si arriva sani e salvi, ci si presenta eleganti a chi ti accoglie, se si muore durante il viaggio, si è abbigliati adeguatamente per essere seppelliti. Dopo essere stati rifocillati con barrette energetiche, si erano ripresi e avevano giocato sul ponte di poppa della nave come tutti i bimbi di quell’età. Arrivati a Catania, dopo lo sbarco sono stati portati via dagli assistenti sociali del comune in una casa famiglia.

Cercare e trovare

Li ho cercati e li ho trovati, emozionandoci insieme quando li ho incontrati. I loro occhi continuavano ad avere quell’ombra tipica di chi ha sofferto tanto e troppo presto. E i loro occhi hanno cominciato a lacrimare in silenzio quando siamo andati via dopo aver ancora una volta giocato con loro. Questi bambini sono lacerati dal senso dell’abbandono: per questo l’assistente sociale mi ha consigliato di non farmi più vedere, perché ogni separazione, per loro, avrebbe rinnovato il trauma. Per loro, comunque, ci sarebbe stato un futuro. Perché i migranti minori soli così piccoli, dopo una lunga ricerca di eventuali parenti da parte delle organizzazioni umanitarie e della Croce Rossa, vengono affidati o adottati da famiglie italiane.
Diverso per i minorenni dai 13 ai 17 anni, che finiscono nei centri di accoglienza sparsi sul territorio italiano da dove tendono a fuggire alla ricerca di amici e parenti in altri Paesi europei. E di cui spesso si perdono le tracce, finendo tra le migliaia di invisibili preda di sfruttatori della prostituzione minorile o di altro genere di abusi.

Riconoscere le eccellenze

Studiando anche questo fenomeno, ho avuto modo di scoprire lacune ma anche eccellenze nel nostro sistema di accoglienza: se infatti il centro è ben gestito, per questi ragazzi c’è buona possibilità di inserimento. Come nel caso di Fofana, un minorenne della Guinea usato dai trafficanti libici come scafista per pagarsi il viaggio su un barcone con altri 200 disperati a bordo. La famiglia di Fofana era stata decimata dalla miseria: non avendo più nessuno al mondo era andato via in cerca di fortuna ed era finito nelle mani dei trafficanti. Oggi sta finendo gli studi all’Istituto Nautico di Catania e lavora come volontario alla Lega Navale su una barca sequestrata ad altri scafisti, usata per trasportare disabili. E così è il caso di Seny, senegalese arrivato anche lui su un barcone in Libia: diventato mediatore culturale nel centro di accoglienza che lo ha accolto in provincia di Enna, ora sta portando avanti nel suo Paese un progetto di impresa locale, impiegando giovani senegalesi che altrimenti avrebbero come alternativa l’immigrazione illegale. Fofana, Seny e altri come lui sono l’esempio migliore di come si possono recuperare giovani migranti arrivati da soli.

Andare a monte, "a casa loro"

Nonostante avessi visto, sentito e raccontato decine di storie diverse, raccontando le migrazioni dal soccorso in mare all’accoglienza a terra, nel mio racconto restava non analizzata una parte fondamentale. Come ci erano finiti tutti quei minori e bambini soli in Libia e perché? Dai loro racconti era chiaro che fame, miseria, persecuzioni e guerre intestine erano alla base di quelle fughe. C’era chi aveva perso tutta la famiglia, chi aveva perso i genitori strada facendo nel deserto o in Libia prima di partire e chi cercava di raggiungere pezzi di quella famiglia che già erano riusciti a valicare i confini europei.
Per arrivare a comprendere perché si può arrivare a lasciar partire un figlio così piccolo nella speranza di sottrarlo a morte certa, la narrazione di questo fenomeno doveva tornare a monte. Per questo ho deciso di intraprendere un altro viaggio: questa volta “a casa loro”.
Grazie all’Associazione Don Bosco 2000, che in Sicilia ha diversi centri di accoglienza per minori non accompagnati e che sta portando avanti dei progetti di sviluppo in Africa, sono riuscita a raggiungere l’entroterra del sud del Senegal, dal quale partono molti giovani che sognano l’Europa.

Incontri

Lì abbiamo incontrato famiglie poverissime che si svegliano una mattina scoprendo che il figlio è partito all’improvviso, senza dire nulla: irretito insieme ad altri dai trafficanti che gli infarciscono la testa di sogni. Altre famiglie che vendono tutto pur di mandare in Europa i propri figli. E abbiamo visto e parlato con decine di bambini soli che vivono per strada, in mezzo a immondizia e pozze di acqua lercia. Sono per lo più bimbi orfani o affidati da famiglie povere ai maestri coranici che gli impongono di passare le giornate chiedendo l’elemosina: loro però sognano di fare il calciatore in Europa.
Abbiamo anche incontrato mamme disperate che ci hanno messo in braccio i loro figli più piccoli supplicandoci di portarli via con noi in quell’Eldorado che pensano sia l’Europa. E che quando abbiamo detto loro che l’Europa non è come la immaginano, ci hanno risposto di guardarci intorno, perché solo aprendo bene gli occhi avremmo visto che qualsiasi altro posto non poteva mai essere peggiore.
Quello verso una Terra Promessa è dunque per loro un viaggio che vale la pena di fare, con tutti i rischi: deserto, Libia e il Mediterraneo compresi.
E la frase spesso da noi usata a sproposito di “aiutarli a casa loro” a quel punto aveva un senso. Perché è diventato chiaro che solo portando pace e sviluppo in Africa si potranno arginare i flussi, evitando il trauma della separazione ed evitando le migliaia di vittime delle migrazioni di questi ultimi anni.

Tornare indietro non è possibile

Il racconto onesto del cronista che si occupa di questi temi è fondamentale in questo mondo che sta cambiando velocemente. Ma solo se il reporter ci metterà i piedi, le mani, la testa e il cuore la narrazione uscirà dalla retorica e dal distacco, che non possono creare empatia in chi legge o ascolta. Ovviamente questo, per chi fa il nostro mestiere, ha un prezzo: perché chi ha deciso di raccontarlo riflettendosi in quegli occhi, una volta intrapreso il percorso non potrà più tornare indietro.

foto: AgenSIR

Ultima modifica: Sab 27 Ott 2018