Raccontare dalle periferie.

In #deskdelladomenica oggi anticipiamo un contributo molto interesante di Paola Springhetti. E' pubblicato sul nuovo numero della nostra rivista Desk, affronta il tema del 'racconto giornalistico della città' con una visione diversa, quella 'dalle' e 'delle' periferie.

Sono 15 milioni, secondo la Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie, le persone che popolano le periferie del nostro Paese. Ma è bene puntualizzare che il calcolo non è facile, perché il concetto di periferia non è univoco né statico: si può riferire alla dimensione geografica (i territori più lontani dal centro), a fattori sociali ed economici (i luoghi e le persone che vivono in condizione di emarginazione), perfino a diverse dimensioni della vita (le “periferie esistenziali” care a Papa Francesco).

Guardando al tema anche solo dal punto di vista geografico, c’è da dire che le periferie urbane non sono compatte: possono includere aree residenziali con belle case unifamiliari, verde e servizi, oltre alle aree occupate dai palazzoni dormitorio, nel cemento che soffoca, con gli autobus che non passano mai. Viceversa possono esserci aree di disagio in zone “centrali”.

A Roma ne è un esempio il quartiere Esquilino, o almeno la parte che si estende tra la Basilica di Santa Maria Maggiore e la Stazione Termini, che appartiene al centro storico, ma per il concentrarsi di povertà e degrado degli edifici ha tutti i problemi di una periferia. Le città sono diventate sempre più policentriche, e assumono strutture territoriali complesse, che vedono l’alternarsi di quartieri con caratteristiche molto diverse tra loro.

In questo senso, Roma è un caso esemplare: «Non è più, ormai da molto tempo, una citta focalizzata sul suo centro storico, circondato da una periferia più o meno consolidata. È una città-territorio che si estende per un’area molto vasta e molto articolata al suo interno, dove le persone vivono senza riferirsi (soltanto) al suo centro consolidato, più o meno ampio», scrive Carlo Cellamare nel suo libro “Fuori Raccordo” (Donzelli 2016). Ma in fondo, mutatis mutandis, gli esempi di dispersione urbana in Italia sono tanti, basti pensare alla zona del Veneto tra Treviso, Venezia, Vicenza e Padova, dove il territorio è andato urbanizzandosi, a partire dagli anni Ottanta, in modo intenso e costante, con il conseguente trasferimento di attività produttive, e quindi di persone, dai comuni-capoluogo a zone che prima erano campagna e che ora sono urbane.

Periferie, luoghi di vitalità

E dov’è la vita e la vitalità? A domanda complessa dovremmo rispondere con una risposta complessa, ma potremmo iniziare dall’annotazione di Cellamare, il quale fa notare che, dentro il Grande Raccordo Anulare di Roma, la popolazione non aumenta, mentre fuori sì.

E basta partire da qui per capire che ascoltare e raccontare le periferie non è facile. Da una parte sono indubbiamente il luogo delle infrastrutture mancanti o fatiscenti; dei palazzoni anonimi in cui gli ascensori non funzionano; delle occupazioni abusive che diventano ghetti mortificanti; dei mucchi di rifiuti abbandonati in discariche improvvisate; del controllo delle mafie grandi e piccole; dello spaccio e delle violenze di ogni tipo. Dall’altra parte, come ha scritto Renzo Piano, «le periferie non sono così fotogeniche come i centri storici: belli, ricchi di storia, arte e fascino. Però oggi, se devo dirla tutta, i centri storici talvolta sono diventati centri commerciali a cielo aperto, infilate di boutique di lusso una dietro l’altra. I centri storici sono sazi e appagati, mentre sono le periferie dove c’è ancora fame di cose e emozioni, dove si coltiva il desiderio. (...) Le periferie sono la città che è una grande invenzione, forse la più grande fatta dall’uomo. Ovvero il luogo dove si impara e pratica la convivenza, la tolleranza, la civiltà, lo scambio e la crescita» (Renzo Piano, “Perché difendo le periferie”, in “Il Sole 24 Ore” on line 26.05.2016).

Insomma le periferie – anche quelle povere e desolate – molto più dei centri storici e dei quartieri residenziali sono luoghi in cui cittadini singoli e organizzati lottano per reinventare una vita dignitosa; sono laboratori di convivenza e di dialogo interculturale; sono spazi in cui la rabbia, ma anche la speranza, cercano modi di esprimersi e quindi sono spazi in cui si elaborano espressioni culturali. In periferia nascono le storie che poi diventano musica, cinema (da “Ladri di biciclette” a “Jeeg Robot” o “Come un gatto in tangenziale”), libri (da Pasolini a Walter Siti). Sono anche luoghi in cui, nell’assenza delle Amministrazioni e delle politiche pubbliche, cresce la capacità di autoorganizzazione dei cittadini, delle associazioni, delle parrocchie. Un fermento dal basso, spesso invisibile, ma vitale.

L’informazione e le narrative prevalenti

E l’informazione come si colloca in tutto questo? Principalmente su due narrative.

La prima la conosciamo bene: è quella che si costruisce attraverso la cronaca nera, che guarda alle periferie solo quando si verifica qualche episodio di violenza o di rottura dell’ordine pubblico.
Recentemente, in occasione di un corso di formazione per giornalisti intitolato “Narrare le periferie”, organizzato dall’UCSI e dall’Università Pontificia Salesiana, Renato Butera con Giorgio Marota, della Facoltà di Scienze della Comunicazione, hanno svolto una piccola ricerca, analizzando 30 servizi categorizzati come “servizi sulle periferie”, andati in onda da novembre 2017 al 1 marzo 2018 nei tg (Rai 1, Rai 2, Rai 3, Rete 4, Canale 5, Italia 1 e La7) e nei programmi di approfondimento (Agorà, Carta Bianca, Dalla Vostra Parte, Matrix, Quinta Colonna, Tagadà).

Sono state rilevate 1063 parole significative: la classifica dei termini più usati vede al primo posto “quartiere” (43 volte), seguito da “bambino” (34), al terzo “paura” (30), e poi “periferia” (25), “Napoli” (20), “droga” (20), “spacciare” (20), “ragazzini” (19) e “immigrati” (18). È evidente che ciò che si comunica sono prevalentemente percezioni negative di paura e insicurezza, legate alla droga e alla criminalità, al degrado, alla piccola criminalità che coinvolge i giovanissimi, all’immigrazione. Tanto più che gli altri termini utilizzati sono “sicurezza” (16), “piazza” (15), “spacciatore” (15), “rapina” (15), “degrado” (14), “scuola” (13) e “baby gang” (13). Insomma, la narrazione che prevale nell’informazione mainstream – che si fa al centro, non nelle periferie – è anche in questo caso quella allarmistica, che alimenta i conflitti, la rabbia, la sfiducia.

L’altro filone che l’informazione (e la comunicazione in generale) seguono, è quello che potremmo dire “oppositivo”: si cercano le identità alternative, quelle che nascono dalla contestazione o negazione della cultura che prevale “nel centro” o “nei centri” urbani, sociali, economici. Si mette la strada contro il salotto, gli schietti e genuini contro gli intellettuali; la trasgressione contro la “civiltà” del centro; la street art e i graffitari, l’hip hop e il rap contro la cultura in giacca e cravatta; ma anche le figure estreme di emarginati cronici o di eroi non riconosciuti contro le figure “ben educate”. Il pericolo è che tutto si riduca a pittoresco, folklore, macchietta. E che l’informazione cada in schemi preconcetti e anche un po’ usurati, che non fanno capire, ad esempio, perché sia tanto importante che a Scampia abbia aperto la Scugnizzeria, una libreria dove si “spacciano” libri: libri, cioè la massima espressione della cultura “civilizzata”, paludata e intellettuale.

Un’informazione “decentrata”

Manca invece un’informazione capace di raggiungere due obiettivi.

Il primo è valorizzare ciò che di nuovo e positivo nelle periferie nasce e cresce, di cui abbiamo già parlato.
Il secondo – ed è questa la vera scommessa – è di adottare lo sguardo delle periferie sulla realtà, per leggerla più in profondità. Come ha detto Papa Francesco in visita al Corviale (una delle più note periferie romane), «la realtà si vede meglio dalla periferia». La verità è che i giornalisti – esattamente come i politici, gli Amministratori, gli uomini della cultura, spesso anche gli uomini di Chiesa – continuano a guardare le periferie dal centro (e questo vale anche per le periferie del mondo, non solo per quelle urbane). Bisognerebbe andarci e starci – non farci una passeggiata preelettorale o un’intervista frettolosa – per vedere com’è il mondo (l’Italia, l’Europa, la legge, il mercato, la scuola, la chiesa e quant’altro) visto da lì.

Insomma, la scommessa non è tanto raccontare meglio le periferie, quanto raccontare meglio il centro, guardandolo dalle periferie. Ne nascerebbe un’informazione più aderente alla realtà, in qualche modo “decentrata” e quindi forse più libera, meno omologata, forse anche più costruttiva.

Ultima modifica: Dom 9 Dic 2018