Community a rischio 'echo chambers'

Nella società dell’industria 4.0 sta avvenendo una rivoluzione nascosta e subdola che parte dal comportamento dei nativi digitali, adolescenti e ragazzi, che stanno su social network come Instagram e Snapchat, per arrivare agli over 40 e 50, attivi principalmente su Facebook e Twitter.

Si tratta di un sommovimento che fa leva su quelli che in psicologia e psicometria vengono definiti bias cognitivi di un individuo, ossia pregiudizi che non corrispondono all'evidenza, ma che si sviluppano sulla base di interpretazioni e informazioni spesso superficiali o acquisite attraverso le reti sociali.

La stratificazione nel tempo di questi bias può condurre a errori di valutazione, a mancanza di oggettività di giudizio se non addirittura alla distorsione della realtà. Un’inclinazione, questa, che si sta diffondendo sempre di più non solo con la complicità delle tanto citate fake news ma anche attraverso i così detti meme, parola coniata nel 1976 da Richard Dawkins nel libro Il gene egoista, per spiegare la propagazione delle informazioni culturali. Oggi i meme sono usati per veicolare messaggi e significati tramite foto, gif animate e clip che giungono puntualmente sui nostri smartphone e tablet con l’obiettivo di ottenere un maggiore impatto emotivo attorno a un fatto, a un modo di pensare o a un personaggio pubblico, spesso solo per far scattare un sorriso oppure per attirare l’attenzione sul fronte politico e sociale.

La principale caratteristica dei meme è quella di restareappunto “memorabili” e incisivi a tal punto di trasformare una spassosa immagine o una clip di pochi secondi in un contenuto che, rimbalzando sui servizi di messaggistica istantanea, può far riflettere o addirittura influenzare l’opinione pubblica alla stessa stregua dei persuasori occulti studiati da Vance Packard, ma in modalità più avanzata. Un meccanismo semplice e allo stesso tempo complesso che si autoalimenta nel sempreverde desiderio di tutti e di ciascuno di essere accettati a livello sociale.

Al riguardo basta guardare i comportamenti dei nativi digitali: essi postano e “snappano” per ottenere il maggior numero di “mi piace” sulle foto o sugli snap. Una forma di compiacimento che gli utenti, giovani e non, vogliono trarre dagli amici, dai follower e dai seguaci. E’ il nocciolo di questa strana rivoluzione e allo stesso tempo il rischio fondamentale che si cela dietro una community on line: trasformarsi in echo chambers, cioè in “camere” dove tutti parlano bene di tutti e tutti si compiacciono e scherzano sugli argomenti più disparati interagendo a colpi di emoticons. Se qualcuno, però, per i motivi più disparati dissente o diventa una voce fuori dal coro, magari un po’ critico rispetto alla moltitudine che popola il “cerchio magico” e rispetto alle chiacchiere che avvengono in queste particolari stanze, viene riempito di insulti generando quell’hate speech che, a volte, può condurre a drammatiche degenerazioni, specie tra adolescenti e ragazzi.

Se da un lato il pericolo è quello di essere tagliati fuori dalla community, dall’altro l’eccesso che ne può conseguire, purtroppo per i più giovani, può essere quello di finire nel tunnel del cyberbullismo. Una community che invece punta a diventare comunità, i cui membri vicini e lontani, decidono di uscire fuori da questa “gabbia di filtri” o, per citare Eli Parisier, dai filter bubble, costruiti attorno alla frammentazione degli utenti, deve superare il gap delle echo chambers e la logica dell’engagement collegato ai bias delle persone.

Qui non si tratta di prendere posizione a favore di chi si pone rispetto al mondo del web 3.0 critico apocalittico o entusiasta compulsivo, ma di riflettere sull’importanza di “linkare” le storie delle persone mettendole in condivisione non solo tramite i social network, ma nella vita di tutti i giorni, sforzandosi di passare “dalla community alla comunità”, come suggerisce Papa Francesco con il tema della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2019. Ciò significa mettere al centro di tutto la persona umana, la sua dignità e il suo il carico di valori etici e culturali in una società in cui la tecno-economia, la logica degli algoritmi e la brand reputation sembrano aver preso il sopravvento annullando la bellezza dello stare insieme, del dialogo e del confronto costruttivo facendo perdere di vista il fascino della prossimità, dell’empatia e della reciprocità, cioè della vera rivoluzione che sta all’origine della storia umana.

Ultima modifica: Dom 30 Dic 2018

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