Chiesa, casa, umanità: le città luogo del sacro

In #deskdelladomenica proponiamo oggi l'intervista di Roberta Leone a Ignazio Sanna, arcivescovo di Oristano. E' un contributo molto interessante che trovate nella rivista Desk (per info e abbonamenti ucsi@ucsi.it)

Intervista di Roberta Leone a Ignazio Sanna, Arcivescovo di Oristano

“Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze”.
Francesco, Evangelii gaudium, n.71.

Mons. Ignazio Sanna, arcivescovo di Oristano, per 36 anni docente di Antropologia teologica alla Pontificia Università Lateranense, è dal 2013 Presidente del Comitato per gli Studi Superiori di Teologia e di Scienze Religiose della CEI.

Eccellenza, le città d’Europa mostrano visibili, nelle loro architetture, i segni di una presenza storica cristiana, ma cosa ci dicono come luoghi del sacro?

Anzitutto è necessario precisare che cosa intendiamo per città e che cosa intendiamo per luogo del sacro. Per esempio, dobbiamo precisare se prendiamo in considerazione la metropoli, la grande città capoluogo, la piccola città di provincia. Inoltre, dobbiamo precisare se descriviamo la situazione attuale delle città o indichiamo alcune prospettive su come debba essere una ipotetica città ideale; se parliamo del sacro spaziale o del sacro personale; del sacro dei luoghi di culto o del sacro dei luoghi resi sacri da circostanze particolari.

L’esperienza ci dice che la celebrazione di molti riti si è gradualmente spostata in ambito profano. Persino le discoteche e gli stadi sono ormai luoghi di rituali sacri da osservare scrupolosamente. Un effetto particolare di queste celebrazioni è il potere di unire gli animi: i riti uniscono sia nella partecipazione alla gioia della festa che al dolore del lutto, perché in queste occasioni le relazioni si esprimono al massimo. Nei paesi della mia Diocesi, i momenti più aggreganti sono i funerali e le feste patronali. Queste ultime sono altamente identitarie, richiamano in paese i migranti, i professionisti, tutti coloro che per motivi di lavoro sono fuori del proprio paese o della propria città. Il luogo di origine mantiene una tale importanza nella vita individuale da contribuire in modo determinante alla formazione di ciò che l’uomo ha di più personale: il proprio nome.

Nell’Italia dei comuni, tempo nel quale la maggior parte degli storici è concorde nel collocare la diffusione dell’uso del cognome in senso moderno, la gran parte di queste specificazioni che venivano apposte ai nomi propri a dissiparne la totale equivocità, erano determinate in gran parte dal nome del padre o dal luogo della propria origine, si pensi a qualche esempio come Madre Teresa di Calcutta, S. Francesco d’Assisi, San Tommaso D’Aquino, ecc.

Fatte le distinzioni che ha premesso, come intendere gli spazi del sacro nella città? E come “allargarli”, se questo è possibile?

Dico subito che gli spazi del sacro non vanno limitati alle chiese e ai luoghi di culto della città ma vanno estesi a tutti i luoghi dove vivono, soffrono, sperano le persone. Secondo Sant’Ireneo, l’uomo vivente dà gloria a Dio prima ancora che lo splendore delle cattedrali. Ogni uomo è tempio vivo dello Spirito Santo (1Cor 13, 16-17) e, in quanto tale, è titolare di sacralità e di somma dignità. Accanto ai santuari per la devozione dei pellegrini ci sono i santuari della sofferenza, come gli ospedali, le case di cura, le carceri, nei quali si deve difendere la dignità e la sacralità della persona umana, i santuari domestici dove la famiglia, piccola chiesa, è chiamata a santificarsi e a santificare la comunità ecclesiale e il mondo.

L’episodio evangelico della chiamata dei discepoli da parte di Gesù (Mc 1, 14-20) mette in evidenza che non c’è un momento privilegiato per sentirla ed accoglierla, ma che la si può percepire nell’ordinarietà della giornata. In questa prospettiva, le strade, le case, le scuole, le chiese delle nostre città possono essere altrettante vie di Damasco nelle quali irrompe da un momento all’altro la potenza della grazia e della conversione, senza metaforicamente far cadere nessuno da cavallo. Ciò comporta che non c’è né un momento né un luogo “sacro” per operare il bene, ma tutti i momenti e tutti i luoghi sono sacri, perché in tutti i momenti e in tutti i luoghi si può far sentire la voce dello Spirito. Non ci sono spazi sacri o tempi sacri da destinare alla vita spirituale, e tempi e luoghi profani da riservare alle attività materiali. È la stessa dimensione spirituale che rende sacri gli spazi e i tempi delle attività professionali, e dà loro un orizzonte di ulteriorità.

Nel film di Ermanno Olmi Torneranno i prati è bellissima la scena del soldato che sa che sta per essere abbattuto dai cecchini e prima di uscire dalla trincea bacia un pezzo di pane e se lo infila sotto il pastrano, sul cuore. Olmi commentava: “È la sacralità del cibo. In tutte le famiglie contadine. Perché la sacralità del cibo è capita soprattutto da coloro che producono il cibo. Vedono la zolla. La trattano. Piantano il seme. Quello cresce. Diventa pane. Se non è un miracolo di vita questo! L’uomo è potuto venire al mondo nell’evoluzione dopo che quattro graminacee hanno formato il frumento. Se non ci fosse stato il frumento non ci sarebbe stato l’uomo”. Alla vigilia della sua passione Gesù offrirà ai discepoli un pane per esprimere il senso della sua prossima morte di croce. Il pane è la salvezza donata a tutti da Gesù.

Un fenomeno in atto nel mondo occidentale – penso a molte città d’Europa – è la “scomparsa” delle chiese. Quale significato ha per le nostre società questo processo?

Nel Vecchio Continente le chiese diventano officine, teatri, atelier, consigli d’amministrazione, alberghi di lusso. Sullo sfondo degli ex-edifici di culto rimangono i muri, gli stucchi, i dipinti preziosi. Ma non c’è spazio per la meditazione, il raccoglimento, la preghiera. Al posto di altari compaiono tavoli da ping pong, elevatori d’automobili, banconi da bar, blocchi di partenza per piscine. In Olanda, i Vescovi cattolici stimano di dover dismettere entro il 2025 due terzi dei 1.600 edifici. Entro la fine del 2018 dovrebbero chiudere anche 700 chiese protestanti. In Danimarca sono 200 le chiese che non servono più. In Germania ne sono state chiuse ben 515 in dieci anni a partire dal 2005. In Gran Bretagna se ne svuotano 20 ogni anno.

Le ragioni per cui le chiese chiudono sono varie: scarsità di fedeli, di fondi, cambiamenti nelle abitudini legate alla presenza nelle cerimonie religiose, l’aumento di credo diversi. Per tutti i credenti, la chiusura di un centro religioso, spesso al centro di una città, di una piazza, di un paese, è un evento emotivo di forte impatto personale e sociale. Lì la gente ha pregato, gioito, celebrato, pianto. E la demolizione o il riuso del sito provoca un processo di straniamento. Non si tratta solo di fede, ma anche di conservazione della memoria storica e familiare.

Il cambiamento d’uso delle chiese italiane è testimoniato dalle immagini del fotografo Andrea Di Martino, nel volume La messa è finita, dedicato alla nuova vita delle chiese sconsacrate in Italia: “Per cinque anni, dice Di Martino, dal 2008 al 2013, per cercarle ho viaggiato in tutto il Paese: ho esplorato ogni regione per trovare il riutilizzo più interessante, concentrandomi sulle soluzioni architettoniche innovative, e sugli adattamenti più pratici per chi ora ci lavora. Ne ho fotografate più di 70”.
“Gli edifici della chiesa cattolica, in meno di un secolo, da centri di rappresentatività collettiva e motori di identità urbana – scrive il fotografo - sono divenuti poli tra gli altri, in una più vasta rete di spazi urbani per una moltitudine di religioni e per un ancor più frastagliato numero di culti personali, che non afferiscono ad alcuna tradizione religiosa codificata e si devono annoverare tra i culti privati frutto di quella parcellizzazione ed individualizzazione del Sacro che la ricerca sociologica oggi registra. Gli orizzonti per i quali cose, spazi e tempi si dicono «sacri» sono molteplici, e ciò che per taluni si mostra in tal senso significativo, può essere del tutto trascurabile e privo di interesse per altri. A carattere del tutto introduttivo, per avvicinare la complessità del tema. Non vi è dubbio invece che, nella gran parte delle società storiche, la convergenza su elementi sacrali condivisi fosse all’origine della stessa possibilità del vivere sociale”.

La città, quindi, anche come teatro della “dislocazione” del sacro. È qualcosa di totalmente inedito per la nostra tradizione?

In una tesi dottorale discussa all’Università di Bologna, Luigi Bartolomei parte dal testo della tradizione sacerdotale, o Javista (Gn 2; 4b), che vede Dio intento a circoscrivere lo spazio da lui creato per delimitare un luogo particolare che ospiterà la prima coppia umana, il primo sacro recinto: paradiso è parola che giunge dal sanscrito paradesha o “paese supremo”, più tardi occidentalizzato in pairidaeza (iranico), composto di pairi- (attorno) e -diz (creare), tracciare un recinto. Il paradiso costituisce pertanto il primo recinto sacro, la cittadella di Dio, luogo in cui si manifesta nel mondo terrestre l’attività del cielo, in cui Dio si trova a passeggiare, in cui egli abita insieme all’uomo, vivendo una relazione di amicizia. Il cielo diventa per l’uomo, grazie a questa rappresentazione visibile e vivibile, grazie a questa dimensione ordinata e non caotica, luogo in cui poter essere partecipe della vita divina.

Nel libro dell’Esodo è forte il richiamo alle immagini del paradiso terrestre, poiché ogni volta che l’uomo entra in relazione con Dio in un rapporto di alleanza-amicizia devono essere necessariamente riprodotte le condizioni iniziali in cui, in principio, tale rapporto ha avuto inizio. Il monte Sinai sul quale Dio mostra la sua gloria rimanda al giardino piantato in Eden come Mosè rimanda ad Adamo; in questo luogo preciso e delimitato l’immensità del cielo si lascia circoscrivere e si rende visibile e abitabile per l’uomo e per Dio: “Fisserai per il popolo un limite tutto attorno, dicendo: Guardatevi dal salire sul monte e dal toccare le falde”. (Es 19, 12). Il popolo non può salire sul monte Sinai, “perché tu stesso ci hai avvertiti dicendo: Fissa un limite verso il monte e dichiaralo sacro (Es 19, 23)”.

Nel Nuovo Testamento si è verificato un progressivo spostamento dei luoghi del sacro, dalla loro dimensione cultuale tradizionale (il tempio) a quella privata e domestica della casa. Ciò è particolarmente evidente nel vangelo di Marco. Il tempio di Gerusalemme, polo liturgico tradizionale di Israele, compare solamente sul termine del racconto evangelico, nel capitolo undicesimo, in immediata prossimità dei giorni e del racconto della Passione. È certamente molto significativo che il vero centro in cui Cristo soggiorna negli ultimi giorni della sua vita terrena sia una casa di amici.

Un’immagine che racconta il “nuovo” evangelico anche nella città.

Nell’incontro con la Samaritana al pozzo di Giacobbe, l’evangelista Giovanni elimina ogni importanza dello spazio per l’adorazione di Dio. Alla domanda esplicita: “I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”, Gesù risponde: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. [...] Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità» (Gv. 4,5-42). Il fedele non ha dunque bisogno di un luogo, ma solo della intimità di sé stesso, della camera del proprio cuore per raggiungere il suo Dio. Ogni specifica necessità spaziale è radicalmente esclusa.

Nel racconto della passione, poi, Gesù non occupa mai un luogo proprio in modo continuo, ma si muove in un dinamismo che lo porta a occupare spazi del tutto temporaneamente. Anche la tomba diviene ben presto vuota. In Mc 15,38, il velo del naos si strappa interamente, dall’alto verso il basso, senza lasciare alcun margine a possibili ricuciture nel momento della morte sulla croce del Cristo.
Il Cristiano non ha dunque luoghi di culto, se non la Persona di Cristo. Il sacro, nel suo valore etimologico e antropologicamente determinato, è una categoria che il cristianesimo non conosce: per il cristiano tutto è profano, come tutto, al contempo, è santo, ossia santificato, dalla presenza della Verità che, per il credente, è Cristo stesso. Il cristiano riconosce come mediatore tra Dio e l’uomo solo Gesù Cristo, per cui, nell’assenza di ogni forma di sacralità naturale, egli vive il profano nella consapevolezza che a permetterne la stessa sussistenza è quella Verità che ne ha presieduto l’origine e che si è fatta carne nelle forme dell’Uomo Cristo Gesù.

Una parola per chi, nella comunità cristiana, lavora nell’informazione: come raccontare questa Verità, che palpita nelle nostre città?

Ricordandoci che nella città ci sono tanti altari sui quali si offrono i sacrifici della solitudine, della disperazione, della prova; ci sono tanti santuari della sofferenza dove si consumano giorni di dolore e di abbandono. Oltre che nelle chiese e luoghi di culto, allora, si deve servire a questi altari e visitare questi santuari. Uscire dai nostri recinti sacri per annunciare il Vangelo di Gesù e testimoniare lo stile delle Beatitudini alle persone che non varcano le soglie delle nostre chiese. Memori di quanto scrisse Tolstoj che “la più grande sporcizia è non sporcarsi con gli altri”, bisogna avere il coraggio di andare incontro a Cristo, là dove si fa riconoscere, cioè nel volto dei poveri, dei sofferenti, degli emarginati. Ogni uomo e ogni donna di buona volontà può prestare mente e cuore a Dio, perché Egli doni luce a chi lo cerca e conforto a chi lo trova.

Ultima modifica: Sab 9 Feb 2019