Azzerare il consumo di suolo. Qualche dato per fare chiarezza

Torna #deskdelladomenica e vi propone oggi un altro articolo dell'ultimo numero della rivista Desk (per abbonarsi ucsi@ucsi.it, gratis a casa per gli iscritti Ucsi). Si parla del consumo di suolo con una interessante intervista di Emanuele Milano.

Emanuele Milano intervista Michele Munafò

Ogni due ore, una nuova Piazza Navona. Per ogni giorno dell’anno. Con questa immagine l’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha presentato nel luglio 2018 il suo ultimo rapporto sul consumo di suolo. Questa espressione, faticosamente entrata nel dibattito pubblico e sulla cui interpretazione, in ragione della pluralità di interessi in campo, non emerge ancora una trasversale condivisione, indica un fenomeno in parte ancora sottovalutato da imprenditori e amministratori e tuttavia di vitale importanza.

Che compromette le proprietà biologiche, fisiche, chimiche e meccaniche di una risorsa ambientale finita e limitata, quale è il suolo. La cui formazione avviene in tempi molto lunghi: per uno strato da 1 a 2,5 cm di terreno servono quasi 500 anni. Ai fini della sua tutela servirebbe una legge per regolarne la trasformazione ma, pur in presenza di diverse proposte di legge depositate in Parlamento tra la precedente legislatura e quella in corso, non si è ancora arrivati all’approvazione di un testo. Nonostante il nostro Paese sia ai primissimi posti in Europa per incremento annuo di consumo di suolo rispetto alla sua popolazione residente e nonostante sussista una prescrizione comunitaria per la quale questa patologia ambientale deve essere sanata entro il 2050.

Ne abbiamo parlato con Michele Munafò, ingegnere dell’Ispra, responsabile dell'Area Monitoraggio e analisi integrata uso suolo, trasformazioni territoriali e processi desertificazione. E’ lui il curatore del Rapporto 2018 “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”.

Ingegnere, cos’è il consumo di suolo e come è evoluta la sua interpretazione?

Con questa formula, elaborata dagli organismi internazionali una volta verificata negli anni la progressiva occupazione di superficie originariamente agricola e naturale, intendiamo l’incremento della copertura artificiale di terreno dovuto principalmente alla costruzione di nuovi edifici, all’espansione urbana e all’infrastrutturazione del territorio. La sua definizione è cambiata perché si sono modificati i sistemi di monitoraggio a livello europeo e nazionale: la componente più impattante – l’impermeabilizzazione del suolo – è oggi quella maggiormente indagata per i suoi effetti ed impatti. Il monitoraggio – con le sue fasi di raccolta dati, rielaborazione e fotointerpretazione – consente di conoscere, come e in quanto tempo, un territorio è cambiato sotto la spinta antropica.

Perché dobbiamo difendere questa preziosa risorsa ambientale, soprattutto in ambito urbano? E come la rigenerazione urbana potrebbe proteggerla?

Il suolo ci fornisce cibo, biomassa e materie prime; è un elemento del paesaggio e del patrimonio culturale. Nel suolo vengono stoccate, filtrate e trasformate sostanze quali l’acqua e il carbonio. Nelle città si concentrano, e sarà sempre più così, una buona parte delle nuove costruzioni, secondo un processo di progressiva densificazione. Le Nazioni Unite, ormai, lo ripetono da tempo: oltre il 70% della popolazione mondiale, entro il 2050, vivrà in città; agirà e si sposterà in località sempre più minacciate dai gravi effetti dei cambiamenti climatici. Occorre lavorare, da subito, sui tessuti urbanizzati e sanarne le numerose e profonde ferite. Ricucirli e innovarli. Bisogna agire sul costruito, riqualificandolo architettonicamente ed energeticamente, o demolendo e ricostruendo nei dettami dell’architettura bioclimatica.

Non si dovrebbero impermeabilizzare le aree interstiziali e gli spazi aperti che, invece, sono fondamentali per il corretto deflusso delle acque meteoriche, per la mitigazione del rischio idrogeologico, per l'adattamento ai cambiamenti climatici, per il mantenimento della biodiversità e, più in generale, per la qualità della vita degli abitanti. La vivibilità urbana nasce dalla qualità dello spazio pubblico e cresce nell’armonicità relazionale di questo con lo spazio privato.

Quali sono le principali novità del Rapporto 2018 dell’Ispra e quali le principali criticità geografiche e tematiche?
Nella nostra ricerca si analizza l’evoluzione del consumo di suolo in Italia che, nell’ultimo anno, è cresciuto di 54 chilometri quadrati, alla media di quasi 15 ettari compromessi ogni giorno alla velocità di 2 metri quadrati al secondo. Il consumo di suolo netto, tuttavia, è di 52 chilometri quadrati; i 2 rimanenti, da cantieri – quindi consumo di suolo potenzialmente reversibile – sono stati restituiti al patrimonio naturale. Su scala nazionale, il dato complessivo della superficie impermeabilizzata è di oltre 23mila chilometri quadrati.

Nel dettaglio, abbiamo rilevato che nel 2017, in 15 Regioni, viene superato il 5% di consumo di suolo, con il valore percentuale più elevato in Lombardia (che arriva a sfiorare il 13%), in Veneto e in Campania. Seguono Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Puglia e Liguria, con valori compresi tra l’8 e il 10%. In termini di incremento percentuale rispetto alla superficie artificiale dell’anno precedente, i valori più elevati li abbiamo in Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige. Quasi un quarto (il 24,61%) del nuovo consumo di suolo netto tra il 2016 e il 2017 avviene all’interno di aree protette o soggette a vincoli paesaggistici.

In particolare, si evidenziano i casi del Parco nazionale dei Monti Sibillini e di quello del Gran Sasso-Monti della Laga, nei quali si è avuto un consumo di suolo complessivo di 48 ettari, per la localizzazione delle soluzioni abitative d’emergenza e di tutte le opere resesi necessarie a seguito del terremoto del Centro Italia. Nelle aree a pericolosità sismica e idraulica, rispettivamente, abbiamo superato, invece, le percentuali del 6% e dell’11,5% della superficie complessiva.

Cosa sono i servizi ecosistemici? Qual è il loro impatto economico e come la loro valorizzazione potrebbe produrre una crescita della qualità della vita in ambito urbano?

I servizi ecosistemici sono tutti quei benefici che l’uomo ottiene, direttamente o indirettamente, dagli ecosistemi necessari al proprio sostentamento, dallo sviluppo dei quali dipende la sopravvivenza dell’uomo. Nello specifico, possono essere di approvvigionamento (prodotti alimentari e biomassa, di regolazione (del clima e della qualità dell’acqua, della cattura e stoccaggio del carbonio) e di stampo culturale (attività ricreative di vario genere). Dall’analisi del loro flusso si evince che le perdite annuali, in termini economici, sono molto elevate, con il valore più significativo associato alla funzione di regolazione del regime idrologico. La crescita del consumo di suolo, tra il 2012 e il 2017, ha provocato danni economici da un minimo di 1,66 a un massimo di 2,13 miliardi di euro.

La scelta di conferire una stima economica ai servizi ecosistemici deriva dalla volontà di evidenziare il valore della risorsa limitata che si rischia di compromettere o perdere irrimediabilmente. Pur nella consapevolezza che possa esserci chi è disposto a pagarli, certi prezzi, e a sacrificare il patrimonio naturale a scapito delle future generazioni, va evitato che tramite scambi e compensazioni tali servizi diventino strumenti impropri o una merce per creare un mercato dei beni non rinnovabili.

Nel nostro Paese, nel quale sono ancora vigenti norme approvate 50 anni fa (come il D.M. 1444/68 sugli standard urbanistici), non abbiamo ancora una legge che regoli il consumo di suolo. Tra le proposte già presentate in Parlamento, quale la migliore per arrestare il fenomeno indagato?

Sono già state presentate, dall’avvio di questa nuova legislatura, diverse proposte di legge finalizzate a contenere o ad arrestare il consumo di suolo. In attesa dell’avvio della discussione parlamentare, è sicuramente opportuno riprendere il testo uscito dalle Commissioni Ambiente e Agricoltura del Senato durante la scorsa legislatura (ora AS193), che potrebbe essere integrato e migliorato ulteriormente con alcuni elementi innovativi introdotti dall’iniziativa del Forum Salviamo il Paesaggio (AC63).

In generale, ritengo che i paradigmi del riuso e della rigenerazione urbana siano essenziali e debbano trovare spazio per assicurare la tutela del diffuso ed esteso patrimonio naturale presente in città ed evitare nuove impermeabilizzazioni delle aree libere nei tessuti esistenti.

Sarebbe importante mantenere o addirittura incrementare la permeabilità dei terreni per il corretto deflusso delle acque meteoriche e per mitigare l’effetto di fenomeni come le ondate di calore. Potrebbe inoltre giovare ai Comuni l’adozione di buone pratiche per incentivare la sperimentazione e la realizzazione di politiche integrate di rigenerazione urbana, al centro delle quali vi sia il ripristino degli spazi pubblici più degradati o la rifunzionalizzazione del patrimonio dismesso.
Nel nuovo provvedimento, infine, dovrebbe essere anche chiarito che non possono essere preservate tutte le previsioni edificatorie contenute nei piani urbanistici vigenti – spesso vecchi di decenni e inopportunamente sovradimensionati rispetto alle esigenze reali della comunità di riferimento – ma annullate se inattuate dopo un certo periodo di tempo.

Ultima modifica: Sab 2 Mar 2019