8 marzo: le vittime della 'tempesta emotiva' e di una comunicazione distorta

Passerà alla storia come la sentenza della “tempesta emotiva”. Vissuta, nel mondo femminile e non solo, come un ennesimo passo indietro nel cammino dei diritti delle donne, scese in piazza con sdegno per protestare contro la scelta della Corte di assise di appello di Bologna – impugnata dalla Procura generale di Bologna che farà ricorso in Cassazione – di dimezzare la pena per Michele Castaldo: l’ulteriore femminicida, reo confesso, dell’ex fidanzata Olga Matei, ultima vittima di una scia di violenza che non accenna a cessare né a diminuire. E non soltanto in Italia. Ma questo fatto di cronaca - echeggiante stagioni, che si pensavano superate, di attenuanti giuridiche da “raptus” maschili e “delitti d’onore” - induce anche a riflettere più in profondità su quanto il filo della violenza sia tessuto, negli àmbiti in apparenza più diversi o distanti, dall’uso ipocrita e strumentale delle parole. Che passa sul corpo delle donne (e delle bambine e ragazze). E investe in pieno la nostra responsabilità di comunicatori sociali, nella corretta (in)formazione dell’opinione pubblica.

Prendiamo, ad esempio, la rimessa in discussione della legge 20 febbraio 1958, n. 75 - più nota come legge Merlin - che pose fine all’esistenza delle case chiuse in Italia introducendo i reati di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione, in questi giorni al vaglio di costituzionalità della Consulta con l’indignazione di molte associazioni, movimenti e gruppi femministi – i quali la difendono sotto l’hashtag #iosonoLinaMerlin - proprio mentre in Veneto, terra natale della partigiana, insegnante e senatrice socialista che volle fortemente liberare (e restituire dignità umana) alle schiave del sesso a pagamento, si sta valutando una proposta di legge regionale (dopo le esternazioni di chi è favorevole alla riapertura dei casini) per “regolamentare” il mercimonio di corpi femminili con tanto di “albo professionale” e luoghi chiusi per esercitare il “mestiere più antico del mondo”. È un segno delle ambiguità semantiche, delle trappole ideologiche e degli arretramenti che, nel tentativo di normalizzare una questione che suscita imbarazzi avalla invece, con la patente della “legalizzazione”, situazioni di dolore, abuso, sfruttamento, violenza spietata e cinica mercificazione sessuale (ben oltre la tratta, più facilmente deprecabile) che arriva ad annoverare tra i “rischi del mestiere” non soltanto l’invisibilità sociale delle protagoniste ma persino, in certi casi, la loro morte fisica.

Basterebbe solo leggere le struggenti e toccanti lettere che le donne rinchiuse nelle case di tolleranza inviavano alla Merlin, raccolte dalla Fondazione Kuliscioff e di recente ripubblicate da Giunti (con il titolo Cara senatrice Merlin...lettere dalle case chiuse. Ragioni e sfide di una legge attuale) per farsi un’idea dell’entità umana (e non solo) del problema. Ed è magari proprio su questo complesso e spinoso tema-tabù che, se vogliamo onorare degnamente la data dell’8 marzo – Giornata internazionale della donna troppo spesso ridotta a mera e convenzionale consuetudine consumistica, sulla cui vera origine e storia, miti e riti hanno indagato negli anni ’80 Tilde Capomazza e Marisa Ombra con un libro e dvd edito da Utopia e di recente ripubblicato da Iacobelli – è, più che opportuno, necessario iniziare a fare radicalmente chiarezza. Tanto più a fronte di un dibattito oggi tra i più incandescenti a livello mondiale (locale e globale). E a partire da una semplice domanda: ma il cosiddetto sex work è davvero un lavoro? O non è piuttosto – sempre, comunque, dovunque, in barba a sedicenti rivendicazioni di “libere scelte” nell’autodeterminazione sessuale – un abuso a pagamento, da criminalizzare come tale penalizzando sfruttatori e fruitori (che nella sola Italia “movimentano” un giro d’affari che supera i 4 miliardi di euro, con un numero di “clienti”, spesso insospettabili, quantificato nientemeno che in 9 milioni)?

A porsi queste e molte altre domande, con dovizia di dati, cifre, fatti meticolosamente documentati dopo anni di ricerche, ascolto e verifica di fonti di fronti opposti - offrendo una copiosa raccolta di storie, una sintesi oggettiva e un’analitica interpretazione soggettiva per motivare in concreto la propria posizione abolizionista - è Julie Bindel, una donna dallo sguardo fermo e i modi pacati ma decisi. Classe 1962, nota scrittrice e giornalista britannica d’inchiesta (per The Guardian, NewStatesman, Bbc e Sky News), attivista politica di fama internazionale e fondatrice dell’associazione “Justice for Women”, Bindel è autrice di un corposo volume-indagine (oltre 300 pagine) sul commercio globale del sesso (The Pimping of Prostitution: Abolishing the Sex Wok Myth, 2017) appena uscito nelle librerie italiane con l’emblematico titolo: Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione (tradotto da Resistenza Femminista per VandaEpublishing e Morellini editore nella collana VanderWomen), che aiuta a capire come quella che può sembrare una battaglia di minoranza diventi strategica nella lotta non soltanto alla criminalità organizzata, ma alla spirale stessa della crescente violenza contro le donne anche giovanissime (e, più raramente, uomini e ragazzi), innescata e fomentata anche dal mercato del sesso e dalla mentalità consumistica indotta dai paradigmi di liberismo estremo.MoranBindel

nella foto: a sinistra Rachel Moran, a destra Julie Bindel

Impegnata da decenni su temi come il fondamentalismo religioso, le patologie del patriarcato, la violenza contro le donne, le disuguaglianze di genere, la maternità surrogata, il commercio di mogli ordinate su catalogo, la tratta di esseri umani e i delitti insoluti, Bindel ha viaggiato per oltre due anni in lungo e in largo attraversando 40 paesi, città e stati tra Europa, Asia, Nordamerica, Australia, Nuova Zelanda, Africa. Ha intervistato sul campo più di 250 testimoni tra sopravvissute alla prostituzione e papponi, femministe abolizioniste e attivisti “pro-sex work” della lobby a favore della prostituzione, accademici “queer” inclini al politicamente corretto persino nella strumentalizzazione dei “diritti dei disabili al sesso”, pornografi e poliziotti, uomini di governo, escort più o meno patinate e clienti che frequentano con regolarità lucciole. Ha raccolto - tra strade e bordelli, università, enti del terzo settore e palazzi del potere - storie e testimonianze (anche di insospettabili) di opposti schieramenti, smontando menzogne e smascherando falsi miti (come quello di Pretty Woman, la “puttana felice” interpretata sul grande schermo da Julia Roberts nell’omonimo film) propagandati e mistificati con messaggi liberisti a sola tutela dell’industria del sesso e del suo commercio mondiale.

E in questi giorni, sta non a caso presentando quella che è considerata la prima e finora più completa inchiesta globale sulla prostituzione in un tour italiano dal 4 al 9 marzo, partito da Napoli (con tappe a Roma, Milano, Rimini, Torino) spesso in compagnia di Rachel Moran, presidente dell’associazione abolizionista Space international e autrice del libro-choc Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione in cui, da ex persona prostituita per sette anni - dall’età di 15 fino ai 22 anni - Moran sfata con precisione analitica i “miti” su quel mondo, mettendo in luce l’intreccio tra discriminazione sessuale e socio-economica di cui si nutre lo sfruttamento disumano dell’industria del sesso che è – sempre - violenza e violazione dei diritti delle donne: come ben intuiva peraltro una giornalista e scrittrice infraseculare del calibro di Matilde Serao, che avrebbe voluto scrivere in prima persona un’inchiesta su quella “suprema ingiustizia sociale” al femminile (la prostituzione a Napoli tra Otto e Novecento) ma che poi, per pruderie dell’epoca e maledicendo la gonna che indossava e le impediva di farlo, affidò a Salvatore Di Giacomo, che la deluse portandole non un’indagine giornalistica, ma una ricerca storica fino al Settecento.

Ora, grazie all’acribia del metodo investigativo anglosassone di Julie Bindel, il velo su quel mondo oscuro di reificazione dell’umanità è caduto, mettendo a nudo tra l’altro le bugie di una mitologia tesa esclusivamente a truccare gli interessi planetari di una redditizia attività criminale che cerca di nascondersi dietro l’assunto che la compravendita di corpi sia “necessaria, inevitabile e innocua”. E grazie al coraggio di chiamare le situazioni con il loro nome, Bindel non esita nemmeno a mettere in guardia contro “modelli” di legalizzazione falliti un po’ ovunque, dimostrando così l’impopolare verità che con la consueta lucidità la filosofa del pensiero della differenza Luisa Muraro, collegando la spirale della violenza sulle donne e le dinamiche inique dei rapporti di potere a questo antico e irrisolto problema, così sintetizza: «Secoli di complicità tra uomini, di assoggettamento delle donne, di moralismo ingiusto, di cattiva letteratura e di assuefazione hanno portato la società a non rendersi conto che la ferita inflitta all’umanità con la pratica della prostituzione non è più accettabile. E non lo è mai stata. Non ci sono regole che tengano. Così come è accaduto per i ricatti sessuali sul posto di lavoro da parte di quelli che hanno più potere, verrà il momento – ed è questo - in cui la non eliminabile vergogna della prostituzione, sempre rigettata sulle donne, tornerà alla sua vera causa, che è una concezione maschile degradata del desiderio e della corporeità».

«Per decenni - sottolinea Bindel - la sinistra liberale ha oscillato fra il pro-sex work e l’abolizionismo. Ma oggi le donne che hanno vissuto la violenza della prostituzione hanno preso la parola contro la favola di Pretty Woman, dando vita a un movimento globale che sta portando avanti una battaglia a favore del Modello nordico, introdotto in Svezia con una legge del 1999 che criminalizza chi sfrutta e acquista sesso e decriminalizza chi vende il proprio corpo, rendendo così visibile la responsabilità degli uomini nel mantenimento di un sistema di controllo e di oppressione della libertà delle donne: l’unico modello legislativo che protegge davvero i diritti umani delle persone prostituite». Il vento, insomma, sta cambiando, sottolinea la giornalista britannica elencando gli Stati che hanno adottato il Modello nordico (Svezia, Norvegia, Islanda, Irlanda del Nord, Irlanda e Francia) e accumulando e mostrando le prove del fallimento degli esperimenti di regolamentazione del commercio del sesso, dall’Olanda alla Germania (dove, come è noto, si è arrivati alla deriva etica dei bordelli con prostitute di silicone, anche incinte, su cui esercitare ogni tipo di violenza e tortura: aberrazione inaugurata a Dortmund nel 2017 e replicata, tra le polemiche, da altri Paesi, dalla Francia a Torino, Italia) fino al “falso modello” Nuova Zelanda, dove il tentativo di “normalizzazione” si è rivelato, sottolinea Bindel, «una licenza per trafficanti, sfruttatori e compratori di sesso di fare ciò che desiderano». A danno delle donne. Occultandone le violenze subìte. E trasformando gli sfruttatori in imprenditori, allo scopo di decriminalizzare l’industria del sesso e proteggere il diritto dei soli compratori ad abusare dei corpi femminili.

Saper discernere tra mitizzazioni di parte e realtà, immaginario collettivo e dinamiche economicistiche, idealizzazioni romantiche e orrore quotidiano è un dovere, per chi racconta, che può prevenire anche derive ulteriori in cui si legittima la considerazione del femminile come oggetto, o “non persona” (di cui la Storia è disseminata): tanto da arrivare a concepire un videogioco per pc che si chiama «Rape Day», ideato con “fini umanitari” per far “sfogare” il 4% della “popolazione sociopatica” e che permette perciò agli utenti di molestare, stuprare e uccidere le donne. La notizia, che si commenta da sola, è di questi giorni ma pare che, data la bufera di polemiche che ha scatenato l’anteprima, sia stato sospeso e forse cancellato dalla piattaforma che avrebbe dovuto metterlo in circolazione dal prossimo aprile. Di qui ai femminicidi dilaganti, con o senza “tempeste emotive”, il passo sembra molto breve. Ecco perché l’(in)formazione diventa fondamentale, per la tutela dei diritti umani e delle pari opportunità di donne e uomini. Come ha evidenziato l’ex senatrice Pd Francesca Puglisi, parte dell’Associazione Towanda Dem, commentando la controversa sentenza di Bologna: «In Spagna hanno la metà dei femminicidi che ci sono in Italia, dopo aver investito due miliardi di euro nel triennio per i centri anti-violenza, ma anche per le attività di formazione». Tutto tiene. E forse vale la pena ricordarlo, per non svuotare di senso le celebrazioni altrimenti stucchevoli dell’8 marzo.

Ultima modifica: Gio 7 Mar 2019