La legge Mammì alla prova della politica

(#articolo21, puntata 6) - Nel 1990 il Parlamento promulga la legge n. 223, nota come Legge Mammì, che prende il nome dall’allora Ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni, dopo un tormentato andirivieni di decreti di urgenza e sollecitazioni da parte della Corte Costituzionale,
La tanto attesa riforma del sistema radiotelevisivo è giunta a compimento. Ma con quali risultati? Si può parlare realmente di riforma?

Dal punto di vista tecnico, questa legge è suddivisa in 5 titoli e 41 articoli. All’art. 1 venivano richiamati dal legislatore i principi generali: la diffusione dei programmi radiofonici o televisivi ha carattere generale e valori quali «il pluralismo, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità dell’informazione, l’apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali, culturali e religiose, nel rispetto delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione, rappresentano i principi fondamentali del sistema radiotelevisivo che si realizza con il concorso di soggetti pubblici e privati ai sensi della presente legge». A tal fine il legislatore ha predisposto una serie di norme per facilitare la tutela di tali principi: all’art. 3 prevedeva la pianificazione delle radiofrequenze, all’art.8 regolamentava le norme sulla disposizione pubblicitaria, all’art.15 disciplinava le norme sul divieto di posizioni dominanti e all’art. 16 prevedeva il rilascio di una concessione necessaria per l’esercizio di impianti radiofonici e televisivi privati.

Ci chiediamo: si è trattato di una rivoluzione o di una involuzione del sistema radiotelevisivo?
Anzitutto la regolamentazione sulla presenza della pubblicità nelle trasmissioni, ad esempio, è stata un’innovazione; la problematicità di questa legge è essere stata una fotografia del sistema radiotelevisivo dell’epoca per legittimarlo. Non innovava nulla nella sostanza, non garantiva un mercato libero, guidato dai principi del pluralismo. L’art. 15, per esempio dettava le condizioni per approvare il sistema di spartizione delle reti in un oligopolio, rendendo chiuso (di fatto) il mercato.

Il sistema disposto dalla legge Mammì prevedeva, per l’assegnazione delle radiofrequenze, una suddivisione nazionale al fine di garantire l’esistenza di diverse emittenti televisive e la disponibilità di impianti efficienti di trasmissione di rete. Il problema però era stabilire a livello nazionale che ogni singolo soggetto non potesse godere più di tre concessioni e neppure superare il 25% delle reti previste dal piano nazionale. Così facendo si è legittimato una situazione già in essere di fatto, come confermerà la sentenza n. 420/1994 della Corte Costituzionale. Infatti, con decreto ministeriale del 13 agosto 1992 le concessioni che si rilasciarono sono state assegnate a Canale 5, Italia 1, Retequattro, Videomusic, Rete A, Telemontecarlo.

Il peso politico di questa legge, se era già forte in precedenza, acquisì ancora maggiore risonanza durante la fase di approvazione. L’allora Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, chiese la fiducia sull’approvazione della norma. Questo comportamento non passò inosservato all’interno della sinistra democristiana, tanto da sfociare nelle dimissioni congiunte di ben cinque ministri: Sergio Mattarella, ministro della Pubblica Istruzione, Carlo Fracanzani, ministro delle Partecipazioni statali, Riccardo Misasi, ministro per il Mezzogiorno, Calogero Mannino, ministro dell’Agricoltura e Mino Martinazzoli, ministro della Difesa.

Questo atto politico fortissimo di obiezione di coscienza è stato giustificato da due ordini di motivi.
Intanto la legge andava contro la direttiva della Comunità Europea 89/552/CE sul divieto di inserire messaggi promozionali di beni e servizi all’interno di programmi sponsorizzati. Venne poi aperta una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea contro l’Italia presso la Corte europea di Giustizia. A tal proposito, l’allora on. Sergio Mattarella rimarcò la sua decisione di dimettersi: «Riteniamo che porre la fiducia per violare una direttiva comunitaria sia, in linea di principio, inammissibile».
La seconda motivazione riguardava proprio il fatto che tale legge fosse la legittimazione di un sistema che andava a garantire un oligopolio già in vigore. «Secondo noi - affermerà più tardi l’allora Mino Martinazzoli - la legge Mammì non era la grande legge regolativa dei rapporti tra servizio televisivo pubblico e privato che volevano farci intendere. Era la fotografia, la presa d’atto, di quel che nel frattempo era accaduto, senza che ci fosse una vera regolamentazione del settore privato della comunicazione».

Infine un’ultima considerazione. Questa legge rifletteva il peso politico che ricopriva la comunicazione di quel tempo che si era ritagliata ad hoc un vestito su misura. Ma c’è di più: è stata l’apertura di una strada nel deserto per l’allora segretario del Psi, Bettino Craxi e soprattutto per Silvio Berlusconi che governerà la scena pubblica con le televisioni e i giornali di sua proprietà. A questo proposito si comprende con ancora più forza l’atto di lealtà dell’allora on. Mattarella e degli altri ministri nei confronti della politica e dell’etica, da intendere nel suo senso più alto, quello della tutela degli interessi della polis e della volontà di non trasformare la democrazia in plutocrazia in cui governano i ricchi.

(segue) - Leggi la precedente puntata e anche le altre

Ultima modifica: Dom 30 Giu 2019