L'etica del giornalismo che 'racconta' la giustizia

Oggi, in #deskdelladomenica, torniamo a proporvi un'intervista di Roberta Leone a Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale. Risale a un anno fa, ed è all'interno della nostra rivista Desk "Raccontare la Giustizia". Per abbonamenti, informazioni e arretraii: ucsi@ucsi.it.

Roberta Leone (2018)

Professore, tra i suoi scritti vi sono un “Elogio della dignità” e un “Elogio della Costituzione”. Che cosa, nel mondo globalizzato, è fondamento di dignità e quali cambiamenti gli scenari della globalizzazione chiedono ai modelli di giustizia occidentali?

Fondamento della dignità, anche nel mondo globalizzato, è il rispetto reciproco, quell’equilibrio tra i princìpi di eguaglianza e di diversità cui la Costituzione si riferisce quando parla di “pari dignità sociale” dei cittadini, ricordando che è compito della Repubblica - cioè di tutti noi - rimuovere gli ostacoli di fatto che limitano l’eguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della personalità e la effettiva partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
La diversità è fondamentale per l’identità di ciascuno e per il pluralismo; ma non può risolversi nella discriminazione del “diverso” e nella sua sopraffazione; per evitare quest’ultima è essenziale il riferimento al principio di solidarietà.
Riguardo ai cambiamenti provocati dalla globalizzazione, occorre distinguere tra quelli che è bene perseguire e quelli che è giusto evitare. Appartiene a questa seconda categoria, ad esempio, una giustizia rivolta soltanto all’efficienza e alla rapidità, che rischia di non tener conto del necessario equilibrio tra eguaglianza e diversità, e quindi, della “pari dignità sociale” dei cittadini.

Nel contesto globalizzato, e pensando a cosa è stato nella storia italiana il racconto della giustizia, qual è e quale potrebbe essere di qui in avanti il ruolo del giornalismo?

In primo luogo, il giornalismo deve cercare di dare le notizie e darle tutte, senza censure o reticenze o omissioni.
Deve evitare di contribuire al “processo mediatico”, cioè alla anticipazione di un giudizio fondata su impressioni, scelte aprioristiche, artifici mediatici e sensazionalismo; più ancora, deve cercare di evitare la diffusione delle fake news. Nel fare questo, dà il proprio contributo al pluralismo, che permette l’equilibrio nella società. Non dovrebbe, inoltre, prendere posizioni precostituite. Troppo spesso, l’anticipazione di notizie, così come lo sposare tesi precostituite, allontana la professione giornalistica dal ruolo, dalla responsabilità e dai compiti dell’informazione.

Da Ministro di Grazia e Giustizia ha conosciuto alcuni grandi passaggi nella vita della Repubblica. Come ha vissuto gli anni dopo Tangentopoli e Mani pulite e a che punto della sua storia è, oggi, la giustizia in Italia?

Prima dell’esperienza come Ministro, da studioso e da avvocato mi ero occupato di tematiche legate alla criminalità economica e a quella organizzata, che sono fra loro connesse. Ad esempio, ricordo di aver affiancato – su richiesta dell’allora sindaco di Palermo - l’Avvocatura comunale di Palermo nel primo maxiprocesso nei confronti della mafia. Quell’esperienza mi aiutò a comprendere lo stretto rapporto fra Mafiacity, Tangentopoli e Nerolandia. Sterminato territorio, quest’ultimo, del sommerso, della poca trasparenza e del conflitto d’interesse, da cui ricevono forte stimolo sia la criminalità organizzata che quella corruttiva. È il triangolo “delle Bermuda” dove affonda la giustizia; vi sopravvive tutt’al più la sola legalità formale e procedimentale, che è, di fatto, una legalità di facciata.
Da Ministro ho cercato di mettere insieme, tenendoli in equilibrio, i problemi delle leggi, quelli della loro applicazione e i problemi del “fare giustizia”. Svolgere questo ruolo mi ha consentito di cogliere le lacune che una Costituzione non attuata in tutto il suo contenuto ha lasciato, ad esempio, nel sistema giustizia. Le esagerazioni del ricorso alla giustizia nel gestire la convivenza con i “diversi” ne sono un esempio; penso al carcere, giustamente definito una “discarica sociale” con la quale si cerca di risolvere – anzi di dimenticare – problemi che è compito della società affrontare.
Spesso, il tema della diversità è servito ad alimentare paure e strumentalizzazioni politiche: si pensi al modo in cui è frequentemente trattato il tema delle migrazioni, che devono essere risorse positive in un’Europa e in un’Italia in crisi demografica, e non emergenze di crisi. In verità, la Costituzione è attuale tutt’ora, a condizione che venga attuata effettivamente e compiutamente.

Quali temi trova oggi più interessanti tra quelli che riguardano la giustizia?

Un tema di grande interesse è il rapporto tra giustizia, economia e politica. E poi, il rapporto tra i poteri dello Stato. Da una parte vi è il problema della legge che cerca di inseguire una realtà che cambia; pensiamo ai temi della bioetica, della bioingegneria, del controllo del terrorismo o della rete nel campo dell’informazione, della comunicazione e della trasparenza. Di solito, la risposta delle regole non è pronta e spesso occorre cercare risalire in via di interpretazione ai princìpi della Costituzione. D’altra parte, si tratta di capire i limiti e il ruolo del giudice. Questi deve limitarsi a giudicare il singolo caso, contemperando più elementi, o deve affrontare il fenomeno nella sua globalità? Ne è un esempio il caso Ilva, in cui il diritto alla salubrità dell’ambiente, quello alla salute e il diritto al lavoro coesistono, con la possibilità di contrasti tra di loro e la necessità di trovare un equilibrio nella legge o nell’interpretazione del giudice. La questione è, allora, se la giustizia dovrà attuarsi sulla base di leggi che seguono la realtà in ritardo su di essa o riconoscendo maggiore ampiezza al ruolo del giudice. Il rischio, nel secondo caso, è che un mito della sentenza del giudice subentri al mito delle leggi buone.

Pensando alla società di domani, come concepire la giustizia in un quadro di inclusione sociale? Che cosa, nel nostro modello attuale, si dovrà cambiare e quale giustizia immagina per vittime e rei?

Certamente va coltivata la dimensione dell’efficienza. Non tuttavia l’efficienza dell’algoritmo tout court, ma una efficienza che metta sempre al centro la persona. Ciò vuol dire superare, ad esempio, la logica carcerocentrica; superare la legge del taglione come presupposto di legittimazione anziché come limite alla reazione dello Stato; concepire la giustizia come strumento di inclusione sociale, e non di separazione o di esclusione. La giustizia non può essere soltanto retributiva; non può essere soltanto strumento di difesa sociale e di dialogo solo tra reo e Stato; deve essere un sistema in cui a dialogare siano lo Stato, la società, il reo e la vittima. Penso, ad esempio, a quei movimenti di conciliazione che hanno coinvolto, con la ricerca di una giustizia riparativa, il Sudafrica e poi il Rwanda dopo le guerre: in materia di conciliazione, l’Africa avrebbe molto da insegnarci. Si tratta, ancora una volta, di tornare al rispetto reciproco e alla dignità della persona, fondamenti di giustizia in una società in cui la persona sia al centro.

foto: AgenSIR

Ultima modifica: Dom 21 Lug 2019