Su Desk (2018) le parole del Cardinale Bagnasco: 'Genova, alimentare la fiducia'

 Per la nostra rivista Desk, nei mesi scorsi, la stessa Laura Ferrero aveva intervistato il cardinale e arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco. Vi riproponiamo oggi questo contributo.

intervista di Laura Ferrero al card. Angelo Bagnasco (2018)

Il 14 agosto 2018 crolla il ponte Morandi, stabilendo un confine netto tra il prima e il dopo nella storia di Genova. Il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo del capoluogo ligure dal 2006, è subito vicino alla gente della sua città; la Chiesa diocesana è sul campo per prestare soccorso, confortare e curare, ma anche per cercare risposte e soluzioni a una tragedia che disorienta.

Al cardinale Bagnasco, per dieci anni alla guida della Conferenza Episcopale Italiana, abbiamo posto alcune domande sul senso della cittadinanza in situazioni di così grande emergenza. Con uno sguardo anche all’Europa, dal momento che dall’ottobre 2016 è Presidente del Consiglio delle Conferenze dei Vescovi d’Europa.

A Genova e in tutta Italia si piangono le vittime innocenti, si cercano soluzioni per gli sfollati, ma qual è secondo lei la ferita più profonda che Genova deve risanare con il tempo e il sostegno di tutto il Paese?

Tutti i cittadini devono guardarsi gli uni gli altri con stima e fiducia, nello spirito di una collaborazione concreta; senza arrivismi, veti e gelosie che hanno bloccato in alcuni momenti la nostra splendida città. Si tratta di uno stile di unità che Genova ha mostrato possibile proprio in questo evento catastrofico e che da un momento eccezionale deve diventare uno stato d’animo continuo e operoso.
Genova deve uscire da questa tragedia non come prima, ma meglio di prima; come una città capace di volersi bene e camminare insieme, dove ogni cittadino possa sentirsi a casa.

La città, per essere aperta e accogliente, ha bisogno di spazi che favoriscano le relazioni. Oggi Genova si trova senza uno strumento di collegamento sia fisico sia umano, i cittadini lo percepiscono come un vuoto nella propria quotidianità e sono disorientati. Come favorire la percezione della città come luogo della relazione, dell’incontro e della solidarietà?

È vero che è crollata una via di comunicazione interna della città, oltre che autostradale, e che la città si trova spaccata in due; ma non dobbiamo dimenticare l’immediata decisione da parte delle istituzioni di aprire una via alternativa all’interno del porto, almeno per una parte del traffico pesante... Per quanto riguarda i luoghi di incontro, io credo assolutamente che Genova non ne sia priva. Giro spessissimo nei vicoli della città, che mi sono particolarmente cari perché legati alla mia famiglia e alle mie origini; mi rendo conto che Genova è fatta ancora di quartieri che esprimono un’identità importante per la popolazione locale. Non è dovunque così, ci sono zone dove questa realtà è più sfilacciata, qualche volta inesistente. Per contro ci sono quartieri identificati dove la gente si sente a casa.
Non dobbiamo dimenticare le parrocchie e le comunità cristiane, luoghi aperti a tutti, dove si può trovare dialogo e ascolto. Se si ha bisogno di aiuto, si può entrare liberamente, trovarlo e anche offrire il proprio.
Ma teniamo comunque sempre presente un aspetto: non sono i luoghi che fanno l’incontro, ma piuttosto le persone che li vivono. Questo dipende perciò da ciascuno di noi.

Nel crollo non sono morti soltanto genovesi, ma persone da tutta l’Italia che erano lì per lavoro o nella spensieratezza della vacanza. Sono morti anche stranieri che in Italia stavano costruendo una nuova vita. Nel suo messaggio a un mese dal crollo, lei ha detto: “I quartieri esistono per le comunità, e la città è il grande quartiere di tutto il mondo”. Come lavorare per il dialogo tra i quartieri e le città e tra le città e il mondo?

La città è fatta di quartieri che però non la esauriscono. Ogni abitante deve sentirsi a casa: certamente si radica più profondamente in una zona precisa con determinate caratteristiche, ma questo non deve portarlo a dimenticare l’appartenenza alla sua città.
Ci sono iniziative cittadine che possono aiutare questo senso di appartenenza. Ad esempio, nel settembre scorso si è svolto a Genova il Salone Nautico: ritengo che questo evento sia uno strumento per far crescere l’orgoglio per la propria città. Lo stesso vale per la vitalità del porto e delle piccole, medie e grandi imprese che vi gravitano attorno e che registrano eccellenze professionali riconosciute in tutto il mondo. Quanto più cresce la rete produttiva portuale e lavorativa delle piccole, medie e grandi imprese, tanto più cresce la stima e la fiducia del singolo cittadino.

La comunicazione ha un ruolo importante per trasmettere fiducia e non favorire sentimenti negativi come la rabbia, così diffusa nel nostro Paese. Quale consigli può dare ai giornalisti cattolici per raccontare la città e le sue ferite?

C’è una specie di voluttà e gusto nel raccontare il male. Sembra che solo l’errore, lo scandalo, il male e il peggio possano fare notizia e attirare l’attenzione del lettore. Credo sia davvero una cattiva comunicazione. Non dico che sia necessario non dire la verità su ciò che non va bene, ma contesto il fatto che la parte peggiore sia raccolta e rilanciata sui mezzi di comunicazione. Con questo tipo di atteggiamento, la comunicazione non aiuta a guardare serenamente e con spirito collaborativo al futuro, in mezzo a qualunque difficoltà. Bisogna non solo mettere in evidenza con sobrietà di linguaggio e immagine ciò che non va, ma alimentare la fiducia che non è artefatta ma reale, perché fondata su ciò che funziona e su ciò che di bello c’è nel nostro Paese.

Qual è la strada che la Chiesa sta intraprendendo a livello europeo perché le città pongano al centro della loro politica l’inclusione sociale e l’accoglienza?

Abbiamo concluso l’Assemblea Plenaria del Consiglio delle Conferenze Europee: al centro della riflessione il tema della solidarietà, che è innanzitutto un atteggiamento interiore, un modo di sentire il mondo, la vita, il prossimo; si esprime poi in volti concreti, come il volontariato. La solidarietà è il nome laico della carità evangelica e il volontariato è la sua forma concreta. Attraverso un’indagine statistica, abbiamo rilevato che nel continente europeo ci sono milioni di volontari cattolici. La Chiesa cattolica risulta essere il soggetto con il più alto numero di volontari.
Aver messo a tema come Presidenti delle Conferenze Episcopali Europee proprio la solidarietà vuole essere un primo modo semplice per incoraggiare a camminare insieme. Inoltre, in questo contesto, i vescovi europei hanno inviato una lettera al Santo Padre per esprimere vicinanza, gratitudine e affetto cordiale in un momento di prove ingiuste e infondate che ne possono appesantire i passi, ma certamente non piegare l’anima.
Siamo convinti che il solo fatto di incontrarci come vescovi europei almeno una volta all’anno, sia un aiuto: portiamo l’eco di tutti i nostri Paesi, con diversità che non ci dividono, ma si unificano rispettosamente e alimentano un’unità più alta, di carattere spirituale. Spero che anche da questo l’Europa tragga la conclusione che è possibile camminare insieme. Come noi vescovi riusciamo a rendere le nostre diversità particolari una ricchezza comune, all’interno dell’orizzonte della fede, così gli Stati, se vogliono, possono farcela. Senza pretesa di omologazione: se il necessario cammino unitario del continente fosse di omologazione legislativa, identitaria e culturale, i popoli non si sentirebbero a casa e reagirebbero.

È una sfida possibile, secondo la Chiesa, quella che si gioca a livello europeo?

Come vescovi non possiamo tacere. Siamo pastori, certamente non esperti o responsabili di politica, però abbiamo qualcosa da dire perché viviamo nelle diocesi e nelle città con la nostra gente; vediamo le loro difficoltà, le loro speranze e paure.
Abbiamo il dovere di dare voce a tutto questo. Una voce di richiamo e di speranza, per far vedere che è possibile camminare insieme, ma senza arroganza.
Riteniamo che l’Unione Europea sia un cammino necessario, ma, in comunione con il Santo Padre, siamo altrettanto convinti che debba ripensare se stessa sulle sue fondamenta ispiratrici che o sono di ordine spirituale-etico o sono di ordine puramente finanziario, economico e politico e non possono sostenere l’edificio europeo.
Ci vuole un’Europa più leggera, cioè più rispettosa; se sarà più leggera, sarà anche più efficace, perché i popoli sentiranno la casa europea come propria e vorranno abitarla, non desidereranno starne fuori per paura di essere fagocitati.
Finché perdura questo timore, che ha anche riscontri molto concreti, che noi vescovi conosciamo, è chiaro che il cammino non può procedere.

Ultima modifica: Mar 13 Ago 2019