Il giornalismo davanti alla morte. Il dialogo tra Paolo Benanti e Francesco Occhetta

Sul modo in cui i mezzi di comunicazione nel febbraio 2017 raccontarono la morte di Fabiano Antoniani, in arte dj Fabo, pubblichiamo nuovamente uno stralcio della corrispondenza tra padre Paolo Benanti, francescano, e il consulente ecclesiastico dell’Ucsi, padre Francesco Occhetta, gesuita. Lo facciamo all'indomani della sentenza della Consulta, particolarmente enfatizzata (purtroppo, ancora una volta) da molte testate (ar)

Febbraio 2017

Caro Francesco,

non riesco a smettere di pensare a come i media stanno trasmettendo la notizia della morte di Dj Fabo.
Non voglio qui aprire una discussione sul tema dell'eutanasia o della morte assistita: penso che ora ci si chieda di sospendere le discussioni sul gesto e contemplare in silenzio il dolore e la sofferenza umana, rimandando ad altra sede le discussioni etiche-politiche. Ma proprio questo profondo senso di rispetto per l'altrui sofferenza e dolore mi spinge a questa riflessione sui media e sullo stile che stanno impostando per "comunicare" questa notizia. Si lo so, me lo dici sempre, la comunicazione e il giornalismo non sono e non possono essere mai neutrali, però nel come c'è un perché. In altri termini è la prospettiva di fondo quella che mi preoccupa di più.

Guardando il flusso mediale che si sta scatenando, pieno di banalità, sensazionalismi e inopportune allusioni politiche e partitiche, sembra che i media non riescano a guardare la vita che nella prospettiva di Søren Kierkegaard: "Quando la morte è il più grande pericolo, si spera nella vita; ma se si vede un pericolo ancora più tremendo, si spera nella morte. Quando dunque il pericolo è così grande che la morte è diventata la speranza, la disperazione è la non speranza di non poter nemmeno morire".

Ma questo modo dice che l'unica cosa da cercare, celebrare e cercare è l'angoscia e il non senso che appartiene al nostro essere. Allora le notizie, ciò che merita essere sulle pagine dei nostri giornali non saranno altro che prove e dimostrazioni del nulla, del non senso e della disperazione. Da francescano, caro Francesco, mi chiedo come possiamo fare perché le tristezze e i fatti della vita possano essere in realtà una testimonianza e una celebrazione dell'umano.

Come far emergere quella necessaria ricerca di senso che ci caratterizza e che ci urge? Come dire la nostra fragilità, il male del mondo senza scordare, citando san Franesco, che la vita è Laude? Che la vita, cioè, prima che disperazione, è un’offerta di senso a un essere contingente e fragile come l'uomo che ha in sé un anelito insopprimibile di infinito?
Dj Fabo non c'è più, ma il suo grido è un grido umano, un grido di senso, un gemito di umanità che non può essere solamente osservato nella prospettiva della tolleranza.

Allora, Francesco, ti chiedo come far si che i nostri contemporanei possano tornare a scoprire il senso anche della morte così come ha fatto il serafico padre Francesco: "Laudato si' mi Signore, per sora nostra Morte corporale,da la quale nullu homo vivente po' skappare...."?

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Caro Paolo, 

sono rimasto colpito anche io. Parto da una premessa che ci colloca nella fede: noi crediamo che la morte non distrugge il corpo che vive sotto la carne. Quello appartiene a Dio. C’è un principio di speranza che tiene accesa la nostra vita. Detto questo il punto per me è come il giornalismo, che respira della cultura che lo nutre, tratta la volontà di morire come il fine possibile della vita.

Questo è uno spazio sacro. Davanti a temi così anche il silenzio e la meditazione servono. Non è necessario dover dire tutto sul tema del fine vita quando la pietà e l’emotività prevalgono giustamente su tutto il resto. Ho bisogno di più tempo per riflettere sul caso concreto del Dj Fabo. Mi spaventa però assurgere a regola un caso concreto. Se facciamo diventare cultura diffusa un diritto soggettivo senza un dibattito pubblico che ponga al centro su quali valori condivisi ci dobbiamo trovare. Qui trovi qualche riflessione sulla morte ‪http://www.francescoocchetta.it/wordpress/?p=59829 che ho scritto tempo fa.

Tutto quello che tocca il fuoco dell'amore di Dio diventa cenere che risorgerà. Sarebbe importante collocare il tema della morte e del morire ricentrandolo sulla responsabilità che una società ha di prendersi cura di chi sta male. a volte quando smettiamo di essere efficienti e utili e ci ammaliamo non serviamo più. Questo è il fine di una società? Il giornalismo ha poi una finalità: quella di fare servizio pubblico che costruisce l'opinione pubblica. Su quali fini (sociali) lo sta facendo? Per quale ragioni positivizza tutto senza ripensare al significato dei principi costituzionali che reggono la democrazia? Perché si mischia il fatto e la valutazione etica senza capire dove finisce il rispetto di una storia di dolore e iniziano le valutazioni morali e antropologiche?

La dignità umana va difesa in una cultura, non basta a se stessa, dipende da un Altro e ha bisogno di una comunità per crescere, in quanto è portatrice di diritti innati e indisponibili, che lo Stato ha il compito di riconoscere e promuovere, difendere e prendersene cura. 

 

 
Ultima modifica: Gio 26 Set 2019