Quel che ci ha detto il Papa

“Via il metagiornalismo, diventiamo strumenti di carità culturale”. Lo scrive, nell’interessante riflessione che proponiamo di seguito, Saverio Simonelli (giornalista di Tv2000 e presidente dell’Ucsi Lazio). Anche lui ha partecipato, con il Consiglio nazionale e tutte le delegazioni regionali, all’udienza di Papa Francesco del 23 settembre (a questo indirizzo tutto l’intervento del Papa) - ar

Saverio Simonelli

Come tutti noi che proviamo a fare questo mestiere sappiamo, il giornalismo in sé non esiste. E’ piuttosto una somma di competenze parziali, storicizzate, fallibili e continuamente aggiornabili, che esige un costante lavoro di revisione e compromesso tra lo sguardo narcisistico del nostro io e l’idea di una collettività da servire. Se ne prende consapevolezza poco a poco sul campo, per la strada, nelle questure, ma anche alle tavole rotonde o nei corridoi delle redazioni.

Grazie a un continuo bagno di realtà, di cose, volti e storie quotidiane, di contatto osmotico con i mondi in con i quali si entra in relazione. Perché ciò che in quella realtà captiamo, analizziamo, decodifichiamo e ritrasmettiamo divenga, ha detto chiaramente il Papa, “cultura condivisa”. Un lavoro, cioè, in cui l’emittente del messaggio si rivolge a un destinatario per condividere non un’emozione o una suggestione dell’istinto ma il tentativo di capire qualcosa di più di questo mondo caotico, frenetico e frammentato, bisognoso però di uno sguardo autenticamente umano.

Un metodo di lavoro che è esattamente il contrario di ciò a cui punta l’odierna società della comunicazione il cui obiettivo è l’immersione di emittenti e destinatari in uno spazio ansiogeno e febbricitante, un continuum che rigurgita emozioni e suggestioni, che comunicano ma non informano né tantomeno formano quell’idea di comunità solidale cui - specifica sempre Bergoglio - ognuno di noi dovrebbe contribuire.

Quando il Pontefice ci sprona a “costruire comunità di pensiero e di vita capaci di leggere i segni dei tempi” ci dice in realtà che il compito del giornalismo è addestrare il destinatario a questo tipo di discernimento, il che fatalmente implica non solo uno stravolgimento delle consuete gerarchie delle notizie, strategiche e minuziosamente studiate, ma ancora di più un atteggiamento mentale verso la realtà da raccontare. E’ la strada non utopica ma inevitabilmente complessa del dato oggettivo, della riflessione che contenga ogni sfumatura possibile, dell’approfondimento che dia conto non del bianco e del nero ma della reale scala di grigi, di un giornalismo che non sia neanche un metagiornalismo, tutto preso da desiderata tecnici e di scuola, dal far quadrare i conti secondo l’opportunità editoriale, ma lontano da quella dedizione autentica verso la persona, che ambisca a essere strumento di carità culturale per cui già solo il pensare di aver ampliato lo spazio mentale di chi ci ascolta anche di una sola piccola competenza dovrebbe rendere la nostra giornata degna di essere professionalmente vissuta.

“L’uomo è nato in una condizione limitata – scriveva Goethe nel Wilhelm Meister - e si abitua a usare i mezzi di cui può disporre con immediatezza; ma non appena l’orizzonte si allarga non sa più che cosa vuole, né cosa fare, ed è del tutto indifferente che sia distratto dalla gran quantità delle cose, o che sia disorientato dall’elevatezza e dalla dignità delle stesse. E’ sempre una disgrazia quando è indotto ad ambire a qualcosa con cui non sa raccordarsi per una regolare e personale frequentazione”.

Proviamo a contribuire allora a questo tipo di frequentazione regolare e consapevole delle cose. Utopia? Forse, ma chi ha la responsabilità di un “dire pubblico” sa di dover parlare avendo rispetto per ogni piega della realtà, che va raccontata nella sua autenticità, senza estrarne simbologie di comodo, ma come cosa data nella sua unicità e che impatta la nostra vita perché della nostra vita è parte, così come il mittente e il destinatario della notizia sono parte di quella realtà in cui la cosa raccontata accade. Perché non si dica più con l’accigliato filosofo che non esistono più fatti ma interpretazioni, ma piuttosto che i fatti proprio per quello che sono, danno motivo di interpretazione franca, leale e soprattutto umana.

Ultima modifica: Sab 28 Set 2019