Nel presepe il vero significato dell'essere #social

Nonostante la rappresentazione del presepe possa sembrare statica o tendenzialmente dinamica, quel momento storico che ogni anno viene riprodotto nelle nostre case, nei luoghi di lavoro e negli spazi pubblici è un luogo di condivisione e interazione. E’ un ambiente “social” nel senso e nel significato reale del termine. Non “social” come sinonimo di conoscenza e competenza degli strumenti e delle nuove tecnologie del 3.0, non modo elegante per definire “smanettone” una persona, un professionista, un giovane adulto o nativo digitale, ma “social” nel senso di capacità di ogni individuo di vivere pienamente la socialità, ossia la tendenza delle persone alla convivenza sociale.

Oggi invece “essere social” viene spesso utilizzato come sinonimo elegante che identifica i nativi digitali che hanno un livello avanzato nell’uso dei social network di nuova generazione. Twittare e postare contenuti su Twitter, Facebook, Instagram o conoscere le performance di Snapchat e Tik Tok non significa essere aperti agli altri, non vuol dire applicare pienamente il concetto di socialità, cioè quella tendenza innata nella persona umana e che va ben oltre gli strumenti. La socialità è alla base dell’essere “social” e parte dal bisogno di ogni uomo e ogni donna di creare e intrattenere relazioni con altre persone.

Per capire la sottile differenza tra essere social e usare i social network occorre partire dall’inizio: la comunicazione è il collante dei sentimenti che tengono insieme le persone le une alle altre dando stabilità al tessuto sociale. Tutti noi oltre a vivere nello stesso mondo partecipiamo uno all’esistenza dell’altro. Per tale ragione possiamo definirci “comunità” e non community. Questa è la vera essenza della socialità. I social network invece sono ambienti che creano community, meta-veicolo di messaggi e contenuti che, purtroppo, possono anche allontanare dall’essere comunità e dal generare quel collante che è il nutriente della comunicazione intesa come trasmissione di un contenuto. E’ così che si generano le “bolle”, quei filter bubble (E.Parisier) che si poggiano su tutta una serie di individui e di persone che dialogano e comunicano apparentemente in quanto, in realtà, compongono una community che si poggia su “bias” confirmativi che estromettono gli altri e tutti coloro che la pensano diversamente.

Solo per fare un esempio il “bias di conferma” è stato descritto come uno yes man interiore che conferma le credenze della persona, quasi come Uriah Heep, il personaggio di Charles Dickens nel romanzo David Copperfield. I social network spesso non favoriscono la tenuta di quel collante e molte volte spezzano il bello della socialità e in maniera subdola diventano ambienti nei quali, spesso, si sprigionano aspetti irriconoscibili dell’animo umano. Basta leggere taluni commenti ai post, ai tweet e nei forum di discussione. In tal senso, richiamando un po’ di matematica spicciola con una proporzione, la socialità sta alla comunità come i social network stanno alla community.

E’ innegabile che alla base dell’essere “social” così come della socialità c’è il concetto di interazione sociale, ma occorre inquadrare il tutto lontano dalla “teoria del momento passivo” di Erich Goffman che vede nel modello drammaturgico le situazioni sociali come drammi in cui i singoli sono attori che usano scenari per creare determinate impressioni. Al contrario, socialità è interazione costante e rispettosa delle diverse idee dell’altro che può condurre a una “terza via” inaspettata condivisa dal gruppo o dalla comunità che in quel momento interagisce attorno a un argomento oppure a un tema. In tal senso la socialità può essere anche interdipendenza positiva che genera attività propositive per il bene della comunità allontanando invece lo spettro dell’autoisolamento, della solitudine di tastiera, della nerdizzazione tecnologica, riconducibile invece ai social network in tutte le molteplici forme in cui si propongono all’utente.

Senza addentrarci nel mondo della sociologia e della psicologia, così come di altre scienze empiriche, si comprende bene che l’essere “social” oggi definisce un “ruolo” che, differentemente dallo status, viene esercitato nell’ambito di un contesto, di una situazione e di mondi online e off line. Ma a differenza della socialità in cui si vive l’ambito della conoscenza reciproca, l’essere “social” è qualcosa di ben diverso, quasi come la differenza tra l’attore e il personaggio.

Il primo, cioè colui che compie l’azione, ha la capacità di far propri i ruoli che risulteranno utili al funzionamento della società stessa e alla promozione della comunità; il secondo, invece, sarà un personaggio, un nickname, un influencer, un account o un profilo capacissimo nel costruire la rappresentazione di sé dentro la community, ma perderà di vista per svariati motivi (monetizzazione, brandizzazione, engagement, etc.) la vera essenza dell’essere social, ossia lavorare per la costruzione di una comunità convergente, cooperativa e integrata, tenendo ben presente che al centro di tutto ci deve essere la persona e la sua dignità.

Essere “social” significa in sintesi promuovere la relazione, l’interazione e l’interscambiabilità, non promuovere se stessi. Essere social vuol dire lavorare per l’ecosistema e non per l’egosistema condividere pensieri, riflessioni, temi e argomenti, scontrarsi per gli ideali e sognare insieme un futuro diverso. Poi certamente si potranno ben utilizzare i social network come ambienti e strumenti di amplificazione positiva, come trasmettitori di messaggi costruttivi, ma senza cadere nella tentazione di “bolle” e “camere chiuse”. Essere social significa che fuori c’è un mondo ed è quello della scoperta dell’altro, delle reti e delle relazioni interpersonali autentiche, non false, quello della bellezza di sentirsi tutti appartenenti alla stessa famiglia umana.

E qui la rappresentazione del presepe che ogni anno, insieme, si ricrea (nel significato di rinvigorire quasi dando nuova vita) dentro o fuori le nostre case richiama alla riflessione e alla contemplazione diventando elemento di socialità, spunto per incontrarsi e condividere un evento che nella storia può essere definito il più “social” di tutti i tempi. Il presepe, da quello di Greccio e di San Francesco fino alle fotografie e alle storie su Instagram e Facebook è meta e nodo centrale di una rete umana che proviene da ogni parte del mondo per ritrovarsi attorno a una mangiatoia e condividere una narrazione, la nascita di Gesù, che viene scritta e aggiornata ogni volta che si passa da un’epoca all’altra.

Attorno al presepe si forma piano piano una community che diventa comunità man mano che pastori, angeli, viandanti ed esseri viventi si stringono attorno alla grotta di Betlemme e prendono coscienza di quanto sta veramente accadendo. Davanti a quella grotta non c’è niente di virtuale. C’è una convergenza e una condivisione che va oltre la massa di manzoniana memoria e il concentramento verso un luogo. Nella notte in cui Gesù nasce c’è lo stupore e il fascino che provoca la socialità dando un significato non banale all’essere social. Da quella grotta e da quella mangiatoia la community diventa comunità e scopre il senso e il significato del concetto persona humana imago dei.

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Leggi qui gli altri interventi della rubrica #ParoladelNatale:

1. VIGILIA

2. DONO

3. TERREMOTO

Ultima modifica: Gio 26 Dic 2019