La #cura per gli altri, una bella parola per questo Natale. E un impegno anche per i giornalisti

C’è una parola chiave che mi ha molto sollecitato, durante l’ultimo Avvento e in queste festività natalizie che volgono al termine (ma che non dovrebbero mai finire nei nostri cuori di credenti): cura.

Un sostantivo femminile, breve ma cruciale, perché veicola molteplici accezioni – non necessariamente sanitarie - e può essere declinato in modi e ambiti diversissimi. Laici e religiosi, pubblici e privati: dalla salvaguardia dell’ambiente (per rimanere su un tema di urgente attualità, peraltro caro alla dottrina sociale della Chiesa, come può confermare fra il resto l’enciclica di Papa Francesco Laudato si’ «sulla cura della casa comune») alla politica; e dall’assistenza spirituale fino all’amore per un lavoro ben fatto, che investe ogni settore della vita professionale, comunitaria e sociale. Compreso il nostro mestiere, che dovrebbe avere molta più cura delle parole con cui racconta la realtà e le storie di vita che la caratterizzano.

Non a caso gli inglesi connotano la sostanziale differenza tra il “curare” e il “prendersi cura”, ovvero “aver cura”, o meglio ancora “avere a cuore” con un semplice cambio di vocale, nei verbi to cure e to care (attitudine tanto cara a Don Lorenzo Milani nella sua scuola di Barbiana, e non solo) su cui vale la pena di riflettere, anche rispetto all’Epifania che oltre ad essere la manifestazione della divinità in forma visibile, induce tutti noi a riconoscere – come i Magi guidati dalla stella di Betlemme e i pastori adoranti – il divino in ciascun umano, oltre che l’Umano nel divino fatto bambino nella mangiatoia.

Gli ospedali italiani, da questo punto di vista, sono un osservatorio antropologico e sociale di enorme interesse. Soprattutto durante le festività natalizie. E in particolare al Sud, in un Paese ad almeno due (se non più) velocità dove la salute diventa spesso appannaggio solo dei ricchi, mentre ai poveri resta la (zoppicante) sanità: come ha più volte denunciato il medico di origini cagliaritane Paolo Cornaglia Ferraris, autore di libri “scomodi”, tra i quali «Camici e pigiami. Le colpe dei medici nel disastro della sanità italiana», «La salute non ha prezzo?», «La Casta Bianca» e «Cura del corpo».

Per circostanze molto personali, ho avuto modo di sperimentarlo più volte, negli anni, avendo cura (appunto) dei miei genitori, in diverse occasioni di emergenza: l’ultima, per un incidente avvenuto a mia madre vedova proprio il 3 dicembre, in pieno Avvento. Periodo di preparazione al Natale cristiano divenuto all’improvviso, per me come per molti in condizioni analoghe, una piccola e inaspettata “via crucis, via cordis” che ha necessariamente capovolto l’ordine delle mie priorità, professionali e private.

Ed è proprio in questa peculiare situazione straniante, vissuta ancora una volta a contatto con il dolore umano, troppo umano e della persona a me più cara al mondo - condizione incarnata in un pensiero di Simone Weil, per la quale la sofferenza è una spada piantata nella nostra vita a separarci dall’effimero - in una sorta di corsa a ostacoli contro i ripetuti sgambetti della signora Morte e in spontanea fraternità e mutuo soccorso con altre degenti (assai “pazienti”...) accomunate da una precaria condizione di disagio, fragilità e forte vulnerabilità rispetto a vistose disattenzioni, disservizi, superficialità - quando non scortesie – di molta parte del personale medico e parasanitario, che mi è tornata in mente la metafora di papa Francesco sulla Chiesa in uscita come «ospedale da campo dopo una battaglia», capace di «curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli» con «la vicinanza, la prossimità», che deve «cominciare dal basso», come Bergoglio ebbe a dire nella sua lunga intervista rilasciata a padre Antonio Spadaro su «Civiltà Cattolica» nell’estate del 2013.

Già. Una metafora potente. Che ci interpella tutti. Dentro e fuori della Chiesa. In una quotidianità lacerata dal cinismo, dall’indifferenza, da una rapace aggressività e mancanza di gentilezza che non risparmiano nessuno: a partire dai soggetti più deboli, in particolare gli anziani. E così, la polisemica parola cura è diventata - grazie allo stimolo del carissimo Antonello Riccelli che ci ha coinvolti per un contributo di riflessione sul nostro bel sito - #laparoladelnatale per eccellenza. Ma ben oltre, s’intende, le vicissitudini personali: condivise con pazienti divenuti ormai amici, per quella tacita solidarietà che sempre si attiva in situazioni estreme, a compensare le molte (e vistose) carenze di umanità e attenzione in luoghi di frontiera, di reclusione, di pena e – paradossalmente – proprio di “cura”.

Penso infatti a quanto - in una società che ancora fomenta odio non soltanto verbale e guerre - il senso profondo di questo vocabolo che 24 anni fa ispirò una bellissima canzone di Franco Battiato e Manlio Sgalambro («La cura», appunto, pubblicata nel 1996 e divenuta per me la colonna sonora di queste festività in cui la fede e l’amore sono diventati la salvezza di mia madre e di ogni “essere speciale” di cui i propri cari si son fatti carico, ben oltre le carenze della sanità campana) sia troppo spesso disatteso. In molti settori, purtroppo, della civile convivenza: e non soltanto in quello sanitario e parasanitario, pur penalizzato da logiche di sforamenti di budget e sovraffollamenti ma dove la premura, l’empatia e l’impegno assiduo, attento e diligente nello svolgimento di terapie o profilassi dovrebbero essere acquisizione scontata, oltre che doverosa, quanto meno in ossequio - se non al giuramento di Ippocrate - almeno al dettato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla salute intesa in senso olistico: come «stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia», dunque come un vero e proprio diritto che come tale si pone alla base di tutti gli altri diritti fondamentali che spettano alle persone. E invece.

Ma penso anche al nostro lavoro di comunicatori sociali, narratori di storie intessute di parole e volti, cercatori di verità oltre l’aridità dei numeri statistici, la superficialità perniciosa degli slogan, la sciatteria dei luoghi comuni; semplicemente, uomini e donne “buoni” – secondo l’auspicio di un reporter di razza come Ryszard Kapuscinski, nel bel libro-intervista con Maria Nadotti «Il cinico non è adatto a questo mestiere» - capaci di mettersi nei panni degli altri per raccontarne la vita magari con quel “supplemento d’anima” che fa la differenza cristiana, per parafrasare il priore Enzo Bianchi.

Anche questo è cura: che richiede tempo, pazienza, discernimento, fatica, interessamento e dedizioni reali all’altro, oltre che motivazione profonda e profondo amore per ciò che si fa. Ma forse, se vogliamo dare un senso vero al Natale, all’Epifania e al nostro cammino nel mondo per tentare per quanto possiamo di cambiarlo in meglio, è proprio da questo piccolo sostantivo femminile che dobbiamo (ri)partire. Mettendoci il cuore, oltre che la faccia. E la firma.

Ultima modifica: Dom 5 Gen 2020