I giornalisti (e gli altri) nell'infosfera. La consapevolezza che è necessaria per 'abitarla' e renderla migliore

Il nuovo libro di Vincenzo Grienti aiuta a capire i limiti e le opportunità dell’ambiente digitale nel quale viviamo e operiamo e che dovremmo contribuire a rendere migliore. Una responsabilità enorme soprattutto per i giornalisti. “Immersi nell’infosfera (Edizioni Dehoniane) è stato pubblicato il 13 gennaio e l’autore, giornalista di Tv 2000, scrittore e prezioso collaboratore del nostro sito e della rivista Desk, risponde ad alcune nostre domande fornendoci ottimi spunti di riflessione, all’indomani della giornata di san Francesco di Sales.

Antonello Riccelli in dialogo con Vincenzo Grienti

Come si può definire l'infosfera? E perché ci siamo "tutti dentro"?

Il termine infosfera è un neologismo che lega il termine biosfera al mondo dell'informazione. Ci siamo tutti dentro e tutti siamo coinvolti, produttori e fruitori. Anzi, questo confine negli ultimi anni si è assottigliato per via di un uso sempre maggiore dei social network. Nelle reti sociali sono gli stessi utenti a produrre e condividere contenuti che sono immessi in questo ambiente caratterizzato da un “melting pot” di mezzi di comunicazione sociale.

E' un contesto che va oltre e supera di gran lunga il dibattito attorno ai media tradizionali contrapposti a quelli di nuova generazione scoppiato tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila. L'atavica questione "vecchi" e "nuovi" media su cui si fronteggiavano esperti, studiosi, giornalisti e comunicatori credo sia definitivamente tramontata. Siamo in una fase nuova. Non si tratta solo di conoscere, di avere competenza e responsabilità nell'uso degli strumenti, ma di popolare questo ambiente che include sia il cyberspazio (inteso come quinta dimensione in cui avvengono le interazioni sociali, le attività economiche e i processi politici della contemporaneità, anche attraverso internet e i social network) sia il mondo classico dove è possibile reperire informazioni come biblioteche, archivi, emeroteche. Non è dunque una sfida legata al mondo dei social network. Le reti sociali restano una componente importante di questo ambiente, ma non sono l'unica variabile che incide sui comportamenti e sulle percezioni delle persone che vivono in questo nuovo mondo digitale.

Qual è allora la sfida per chi comunica?

Uno dei problemi che stanno lacerando la società moderna è la mancanza di coesione sociale nelle nostre comunità. Sembra quasi che la frammentazione, la personalizzazione e l’egosistema abbiano preso il sopravvento. Basta entrare nei social network per capire come la logica della brandizzazione, della monetizzazione, ma anche, purtroppo, del cosìddetto "odio in rete" stiano prendendo piede sempre di più. Si parla sempre più di "confirmation bias", un fenomeno che alimenta quelle che vengono definite "bolle" dentro le quali le persone-utenti si muovono entro un perimetro delimitato dalle loro convinzioni acquisite. Al riguardo le reti sociali e i motori di ricerca sono funzionali nel correlare e far incontrare utenti che condividono gusti e interessi.

La sfida è dunque doppia: da un lato resta di fondamentale importanza la conoscenza, la competenza e l'uso degli strumenti per vivere e "abitare" questo nuovo ambiente; dall'altro occorre migliorare le abilità sul fronte della governance dei social network per creare ecosistema se si vuole far leva sulla capacità di resilienza di una comunità.

E' una sfida anche per la chiesa, questa. Ma davvero dalla “community" si può passare alla “comunità"? E a quali condizioni?

Le community molto spesso possono degenerare in aggregati di individui che si riconoscono attorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli. La Rete, come ha pure sottolineato Papa Francesco, è di sicuro una "risorsa" e una fonte perchè offre una grande opportunità "di accesso al sapere". Una fonte di conoscenze e di relazioni un tempo impensabili; allo stesso tempo però può rivelarsi uno dei luoghi più esposti alla disinformazione o, peggio, alla distorsione consapevole dei fatti proiettata o orientata a influenzare l'opinione pubblica. E' una sfida importante per la Chiesa che da sempre ha dato un significato importante ai concetti di comunità, condivisione e comunione.

Alla base di questi tre concetti c'è un elemento fondamentale della socialità, ossia le relazioni interpersonali che, non essendo mediate da PC, smartphone e schermi digitali, permettono un'interazione differente tra gli individui. Dalla community si può passare alla comunità, ma occorre impegnarsi dentro e fuori dalla Rete per la costruzione di una “comunità” che prima di ogni cosa deve percepirsi e pensarsi dentro un orizzonte comune, da costruire insieme. Un percorso di senso aperto al confronto e al rispetto delle idee e dei punti di vista anche differenti. Per questo parlo di ecosistema.

Ogni comunità, piccola o grande che sia, parrocchiale, associativa, scolastica, sportiva o anche redazionale e giornalistica, custodisce una ricchezza di un valore unico: le persone e la loro capacità di stare insieme per costruire bene comune. In tal senso la forza della comunità supera di gran lunga le logiche di intere community che rischiano molto spesso l'autoreferenzialità o, peggio, l'autoisolamento.

Internet è nato in un modo ed è cresciuto in un altro. Persino facebook oggi chiede regole nuove e indipendenti. E' d'accordo?

La diffusione popolare di Internet ha vissuto varie fasi. Siamo passati dalla fase "esplorativa" a casa, quando ci si connetteva in Rete attraverso un modem e un telefono collegato al Personal computer, alla fase della condivisione e dell'interazione tramite i social network, fino all'attuale fase "mobile" in cui noi tutti siamo sempre connessi grazie al fatto che in tasca abbiamo uno smartphone ed e' possibile connettersi in wi-fi nei luoghi di lavoro, a casa, ma anche in taxi, nei mezzi pubblici e nelle piazze.

Se questo aumenta la percentuale di opportunità di accesso a Internet, dall'altro deve far riflettere sull'utilizzo, anche in termini di cybersecurity e privacy, che noi tutti facciamo degli strumenti che ci aprono la porta di ambienti come i social network. Facebook dopo il caso Cambridge Analytica ha dovuto ricorrere ai ripari chiedendo nuove regole agli utenti, ma anche in funzione del fatto che istituzioni come l'Unione Europea hanno messo delle regole ben precise a garanzia dei cittadini. Non ultimo il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr) del 25 maggio 2018.

Lo spettro è quello della perdita di privacy, dei big data che svelano tutto di noi. Come si fa a difenderci?

Innanzitutto ci si puo' difendere adottando delle regole minime di sicurezza, come ad esempio leggere i termini e le condizioni di utilizzo quando apriamo un account o un profilo "social" oppure quando attiviamo una casella di posta elettronica. Spesso motori di ricerca e social network modificano le policy. Su questo, prima di cliccare su "accetto", occorre capire cosa modificano queste grandi multinazionali nei rapporti con l'utente. Di recente YouTube ha introdotto una nuova policy di utilizzo a tutela dei minori, così come Facebook ha stabilito nuove regole per la tutela della privacy. Per i cittadini-utenti resta importante essere a conoscenza di poche regole ma buone: ad esempio usare password complesse e cambiarle periodicamente, aggiornare gli antivirus, verificare le impostazioni sulla privacy dei servizi di messaggeria istantanea che usiamo abitualmente, ma anche rimanere aggiornati sulle norme che tutelano i cittadini, disponibili nel sito dell'Autorità Garante per la Privacy e attraverso numerose associazioni di consumatori.

Nell'infosfera tutto corre più veloce. Anche i giornalisti

Si. L'informazione di flusso sembra non dare tregua e spesso redazioni e giornalisti non hanno abbastanza antidoto alla viralità delle notizie. La configurazione e la struttura di molte redazioni resta di tipo tradizionale e in un mondo dove le notizie non arrivano più solo da fonti dirette e agenzie di stampa, ma anche dal web e dai social network, il lavoro di ricerca, di selezione e di verifica da parte delle redazioni risulta più difficile, a maggior ragione se si aggiungono fake news e disinformazione.

Per fronteggiare tutta questa velocità occorre certamente rallentare, ma con sapienza e utilizzando gli strumenti che ci offre la tecnologia a nostro vantaggio. Fare l'elogio della lentezza per poi "bucare" le notizie non serve. Darsi un metodo, una impostazione, una organizzazione redazionale, invece, potrebbe aiutare redazioni e giornalisti a produrre più contenuti di qualità e a badare meno alla quantità. Per farlo occorre organizzare degli hub content oppure, come in tanti casi all'estero e in qualche caso in Italia, delle newsroom capaci di "governare" il flusso delle informazioni in modo diverso. Giornalisti e redazioni sono immersi nell'infosfera allo stesso modo delle persone-utenti, ma hanno una grande responsabilità: la selezione, ma soprattutto la verifica delle fonti.

Oggi con il web e con i social network il lavoro redazionale, per tempi, processi e modalità, è completamente diverso rispetto a venti anni fa. Il lettore, il telespettatore e il radioascoltatore si "aggancia" al flusso delle notizie in modo diverso rispetto a prima. Alla frammentazione dell'utente si aggiunge anche la personalizzazione dei contenuti per tematiche e categorie. La fruizione dei contenuti avviene in tempi diversi rispetto agli orari di messa in onda di tg o gr oppure di pubblicazione di un giornale. Ciò non vuol dire che i media tradizionali scompariranno. Al contrario sopravviveranno se inizieranno a percorrere un cammino di sinergia e integrazione che si traduce in cooperazione convergente dei contenuti, partecipazione collaborativa dei giornalisti che lavorano insieme in redazione e condivisione e interazione sui social network.

Un altro rischio paradossalmente è quello di perdere la memoria, ed è anche il tema della prossima Giornata delle Comunicazioni Sociali. Lei è anche uno studioso di storia, ha analizzato e spiegato tanti fatti del nostro passato. Come si fa nell'infosfera a preservare attivamente la memoria?

La narrazione, il racconto e le storie non sono in antitesi con le nuove tecnologie, con Internet e i social network. Al centro di tutto c'e' sempre e comunque la persona e la famiglia umana che viene raccontata quotidianamente dagli operatori dell'informazione. Il ricordo, la memoria e la storia sono parte del bagaglio dell'umanità.

Andare alla ricerca di una storia, sia negli archivi polverosi che in quelli digitali, scrivere e raccontarla sui media tradizionali per poi condividerla attraverso il web e i social network fa parte di un processo mentale e redazionale che non si esaurisce nell'attimo della pubblicazione. Al contrario, la narrazione e l'approfondimento di fatti e storie declinate utilizzando tecniche e linguaggi nuovi come per esempio il WebDoc fanno riscoprire un passato che può far leggere il presente con occhi diversi.

Le storie degli uomini e delle donne che si inseriscono in quella che puo' essere definita la Storia con la "S" maiuscola spesso fanno riflettere e ripensare ai nostri nonni, peraltro sempre citati da Papa Francesco, e a quanto essi si siano impegnati per consegnare una sicietà più libera e democratica. Anche nell'infosfera, essendo popolata da persone, occorre fare la scelta dell'empatia e della prossimità. Una storia raccontata su Instagram oppure su YouTube può far riflettere. La via resta sempre quella della testimonianza. Quello che resta fondamentale è che prima di essere influencer di sé stessi occorre essere influencer di Colui che ci ha creati a sua immagine e somiglianza. L'incontro con l'altro vuol dire anche entrare in empatia, farsi prossimi e avere la capacità di ascoltare per poi raccontare e dare testimonianza.

Questo libro completa un suo percorso di riflessione cominciato diversi anni fa. Mantiene lo stesso ottimismo di prima o qualcosa nel frattempo è cambiato?

E' un libro che osserva ancora una volta un mondo, quello delle comunicazioni sociali e del giornalismo in particolare, che risulta profondamente cambiato rispetto a vent’anni fa. Non per questo e non per l'avvento di Internet, dei social network e delle nuove tecnologie, si può essere ottimisti oppure pessimisti. E' chiaro che c'e' una fetta di operatori dell'informazione che spesso sono fin troppo entusiasti del web e dei social network, così come dall'altra parte ci sono i "critici apocalittici" che rifuggono da tutto cio' che e' tecnologico. Su questo studiosi ed esperti hanno scritto fiumi di parole.

Penso che la verità, mai come questa volta, stia in mezzo. Il giornalismo resta una professione affascinante perchè ha il privilegio di raccontare, narrare, entrare in empatia con gli altri, capire e appassionarsi ai fatti e a tutto ciò che ruota attorno ai problemi e alle questioni del mondo e delle persone. Da sempre i cronisti hanno descritto luoghi e persone, contesti sociali e periferie urbane ed esistenziali. Lo hanno fatto e lo fanno ancora fornendo una rappresentazione della realtà che un tempo veniva trasmessa col telegrafo, col fuorigioco, al dimafono oppure con il walkie talkie, oggi può essere trasmessa attraverso lo smartphone journalism oppure i documentari di qualità. Questo per dire che il giornalista nei secoli si è sempre adattato alle tecnologie del tempo perchè prima di ogni altra cosa e di qualsiasi strumento di trasmissione c'è sempre stata, e ci sarà sempre, una storia da raccontare, un luogo da descrivere, un fatto da pubblicare.

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Ultima modifica: Sab 25 Gen 2020