Le donne sui social: quale ruolo hanno? Quale risposta possono dare alla violenza delle parole?

Il dibattito che ha sollevato Giovanna Botteri a proposito del 'body shaming' pone al centro dell'attenzione alcuni interrogativi di rilievo sulla figura femminile in Rete e sui social. Quale ruolo hanno le donne? E quali antidoti possiamo utilizzare contro il disprezzo e l’odio che si manifestano spesso nei loro confronti? L'articolo è contenuto nel penultimo numero della rivista Desk (per info, arretrati e abbonamenti_ ucsi@ucsi.it).

Paola Springhetti (2019)

I social network non sono un paese per donne. O meglio, sono il luogo in cui i sentimenti misogini e la paura nei confronti delle conquiste delle donne si esprimono con più forza ed evidenza, come del resto succede a tutto ciò che ha a che fare con il rancore e che alimenta l’hate speech contro immigrati e Rom, donne, omosessuali e minoranze in genere.

Non si tratta solo di alcuni casi eclatanti, come quelli della Ministra per l’Integrazione Cecile Kyenge, ripetutamente insultata da esponenti politici con relativi post diventati virali sui social, o come quello di Laura Boldrini, bersaglio sistematico di insulti sessisti per tutto il periodo in cui è stata presidente della Camera. Entrambe figure istituzionali, entrambe in posizione di potere, entrambe donne nei confronti delle quali non ci si limitava a fare ciò che è normale e giusto, e cioè sviluppare la giusta critica nel merito di quello che dicevano o facevano, ma si concentravano insulti e minacce sul loro corpo e sul fatto stesso che avessero preso la parola, che avessero osato esprimere pensieri pensati con la propria testa.

Il fenomeno è talmente diffuso che è stato coniato il termine online domination, per indicare proprio queste “pratiche verbali” che tendono a ristabilire un dominio di genere, mettendo al centro dell’insulto e delle espressioni di odio il corpo di quelle donne che hanno un ruolo attivo, propositivo e visibile nel web come nella vita sociale (senza dimenticare comunque che ci sono anche donne che si comportano in questo modo nei confronti di altre donne, soprattutto nei commenti ai post).

UOMINI CHE ODIANO LE DONNE
Dalle rilevazioni sull’odio on line di Vox Diritti-Osservatorio Italiano sui diritti, risulta evidente che le donne sono uno dei bersagli preferiti per la gogna social.

L’Osservatorio dal 2016 monitora periodicamente i tweet e dall’ultima rilevazione emerge che, tra maggio e novembre 2017, quelli sulle donne erano negativi in 225.140 casi circa, contro 132.400 positivi; tra marzo e maggio 2018 sono stati 100.900 quelli negativi contro 42.500 positivi. Purtroppo i picchi di tweet negativi si hanno quando la cronaca racconta casi di femminicidio: come dire che l’essere vittime fa scattare non solidarietà, ma odio.

I tweet sessisti provengono soprattutto da Veneto, Puglia e Calabria e da città come Napoli; sono molto meno numerosi a Bologna, Firenze, Torino, Roma: dato questo, che fa pensare che siano espressione di una cultura radicata nelle comunità, che sul social trova modo di esprimersi e sfogarsi.

Una cultura da cui poi discendono atteggiamenti discriminatori, come già emerso da altre indagini. Ad esempio, in “La piramide dell’odio in Italia” (la relazione finale della cosiddetta Commissione Jo Cox della Camera dei Deputati, istituita nel 2016, che ha indagato sui fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia e razzismo), la categoria “donne” compare tra le più odiate e discriminate e si scopre che il 20% degli italiani pensa che gli uomini siano dirigenti di impresa e leader politici migliori delle donne, che quasi il 50% ritiene che l’uomo debba provvedere alle necessità economiche della famiglia e che gli uomini siano meno adatti ad occuparsi delle faccende domestiche; che il 33% non ritiene necessario aumentare il numero di donne che ricoprono cariche pubbliche, eccetera.

E in fondo è coerente con questo quadro il desolante spettacolo della politica (per fortuna non di tutte le parti politiche), tracciato nel Barometro dell’Odio, il monitoraggio sull’hate speech che Amnesty International ha condotto sulla campagna elettorale per l’elezione del Parlamento Europeo, analizzando i contenuti diffusi su Twitter e Facebook dai candidati italiani. Nel periodo preelettorale poco meno del 2 per cento dei discorsi d’odio è stato rivolto alle donne: può sembrare una percentuale bassa, ma è legata al fatto che la campagna (e l’odio) è stata incentrata su altri temi, come i migranti. In realtà, purtroppo, quasi 1 contenuto su 4 (23 per cento) di quelli dedicati al tema “donne” erano discriminatori.

L’IMPORTANZA DELLA RETE PER FARE RETE
Tutte le donne via dai social, dunque? Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli interventi, i libri, gli articoli che invitano tutti, non solo le donne, a fuggire dai social e da internet: l’ultimo in ordine di tempo è “Chiudete internet. Una modesta proposta” di Christian Rocca (Marsilio 2019). Una provocazione, da non prendere alla lettera. Perché, come abbiamo detto, è nella società e nelle culture diffuse che i problemi sono radicati; sui social trovano lo spazio per esprimersi e per esplodere, grazie a quelle echo chamber in cui ogni conflitto diventa guerra, ogni presa di posizione diventa una messa al rogo di chi la pensa diversamente. Ma abbandonare i social network, o chiudere internet, non risolve il problema e, anzi, chiude le possibilità che questi mezzi di comunicazione hanno offerto alle minoranze culturali – e anche alle donne – di avere una voce, ma soprattutto di mettersi in rete.

Se è vero, infatti, che il rancore dalla comunità passa nelle community dei social e diventa odio, è vero anche che la voglia di costruire alternative può nascere nelle community e diventare azione sul territorio.
Per le donne, i social hanno rappresentato e rappresentano una possibilità di fare rete, che si trasforma in nuovi movimenti; per i femminismi rappresentano la possibilità di diventare movimento di movimenti e di riconquistare una dimensione popolare, superando quella élitaria che avevano assunto.

DAGLI ALGORITMI ALLA PARTECIPAZIONE
Nell’ottobre 2018 piazza del Campidoglio, a Roma, si è riempita di circa 10mila cittadini per una manifestazione di protesta pacifica, ‘Roma dice Basta’. Non c’erano bandiere di partito a sventolare, non c’erano esponenti di partito sul palco, non c’erano strutture di partito a organizzare. La manifestazione era stata organizzata da sei donne: professioniste, impegnate nella società civile, ma comunque donne comuni. Il tutto è partito da un gruppo su Facebook, un gruppo chiuso, oltretutto. Poi il gruppo si è allargato (oggi lo seguono quasi 21mila cittadini) ed è diventato strumento per lanciare e organizzare non solo quella manifestazione ma anche altre che si stanno programmando. Dalla community alla comunità il passo è stato breve ed è indicativo che, in un contesto in cui la politica dei partiti fatica a valorizzare le donne, e in qualche caso si rifiuta di farlo, sia proprio da loro che è arrivata questa esperienza, fondata sui nuovi strumenti di partecipazione.

Qualcosa di simile è successo, nel novembre 2018, a Torino, dove un’altra manifestazione è stata organizzata per protestare contro la facilità con cui si diceva “no” a ogni opportunità di investimento e sviluppo. Anche in quel caso le organizzatrici erano un gruppo di donne, sette, anche loro al di fuori dei partiti, anche loro con ampio uso dei social per informare, coordinare, mobilitare.

È nata sul web la parte italiana del movimento femminista Se Non Ora, Quando? (SNOQ), che è poi tracimata dai social alle piazze. La prima manifestazione, il 13 febbraio 2011, mobilitò un milione di persone a Roma, mentre in altre cento piazze di varie città italiane si svolgevano manifestazioni simili. In quel periodo il blog del movimento contava 23mila contatti al giorno, la pagina su Facebook 15mila. Oggi la pagina nazionale su Facebook ha 128mila like e innumerevoli sono le pagine e i gruppi locali.

Un discorso simile si può fare per ‘Non una di Meno’, movimento comparso in Italia nel 2016 sull’onda di un’esperienza nata in Argentina per protestare contro la violenza sulle donne, che aumentava e sembrava inarrestabile. Da allora Non una di Meno ha organizzano molte manifestazioni, dibattiti, campagne in giro per tutta l’Italia, ma senza i social il movimento non avrebbe potuto diffondersi e organizzarsi (oggi la pagina Facebook nazionale ha 104mila follower).

Si può collocare nella galassia post femminista anche Freeda, una start up nata nel settembre 2016 per intercettare le nuove generazioni («realizzazione femminile, stile personale, collaborazione tra donne», si legge nelle info), che ad oggi conta più di 1.3 milioni di fan su Facebook e oltre 600mila follower su Instagram. Ha investito unicamente sui social; infatti non ha un vero sito web, ma solo una landing page che rimanda gli account.

Anche in ambito ecclesiale i social hanno avuto e hanno un ruolo importante. Il movimento ‘Donne per la Chiesa’ lo dichiara nel proprio sito web: «Siamo donne credenti provenienti da tutta Italia, ci siamo conosciute mediante i social e ora ci stiamo riunendo intorno al desiderio condiviso di offrire alla Chiesa e al mondo le nostre migliori energie e capacità, che sappiamo essere spesso ancora poco viste e valutate». Anche in questo caso, la community è diventata comunità, dando vita ad una serie di gruppi locali e costituendosi poi in associazione di promozione sociale. La pagina Facebook dà spazio a teologhe e teologhi, bibliste e biblisti, studiose e studiosi, che riflettono attorno ai temi delle donne.

Proprio questo esempio ci porta a fare un’altra considerazione: la funzione positiva dei social non si misura solo sui grandi numeri di persone mobilitate, ma sulla possibilità che offrono di incontrare altre persone interessate a certe tematiche, codividendole. In altri termini, anche community piccole possono avere un grande valore.

In conclusione, quegli stessi algoritmi che, proponendoci contenuti che corrispondono ai dati che hanno raccolto su di noi, rischiano di rinchiuderci in bolle filtro narcisistiche e ottuse, ci permettono però di entrare in comunicazione con persone che percorrono strade simili alle nostre. Lo hanno capito perfettamente i terrapiattisti e i politici, sarebbe il caso di non lasciare solo a loro queste potenzialità. L’importante è continuare a combattere buone battaglie, nelle community come nelle comunità.

Ultima modifica: Dom 10 Mag 2020