Quando il giornalismo è davvero social / 2

Tempi, modi, processi e abitudini di giornalisti, operatori dell'informazione e della comunicazione sono stati messi a dura prova durante il periodo di emergenza sanitaria per via del Covid-19. La "chiusura" ha chiamato tutti ad affrontare questo tempo sospeso sperimentando tecniche nuove e strumenti diversi.

Basti pensare all’uso che si è fatto di Zoom, di We School o di Jitsi meet, tanto per citarne alcuni, in molti settori lavorativi del pubblico e del privato. Lo stesso vale per Skype che nei giorni della pandemia ha vissuto quasi una seconda vita. WhatsApp, poi, in tante occasioni ha messo in contatto famiglie e colleghi di lavoro.

Nulla sarà come prima” è stato il leit motiv dei primi mesi del 2020. Un dato è certo: questo periodo entrerà nella storia non solo perché ha messo a dura prova l’intera umanità, ma perché ha rimodulato l’approccio tra le persone e l’uso delle tecnologie. Se da un lato gli strumenti e le opportunità offerte dalla Rete non potranno mai sostituirsi ai rapporti interpersonali, alle interviste "de visu" e a tutto l'insieme di contatti e relazioni che fanno parte della "cassetta degli attrezzi" di ogni buon giornalista, dall'altro è innegabile che gli strumenti tecnologici hanno dato una grande mano a redazioni e giornalisti.

La storia dell’uomo è ricca di periodi che registrano crisi economiche, guerre, scoperte scientifiche, pandemie e pestilenze, ma anche di lunghe fasi di pace che hanno permesso la realizzazione di processi evolutivi nel campo della politica e della cultura. Lungo i secoli le fasi alterne dell’umanità sono state raccontate dai cronisti con i mezzi a disposizione. Nei mesi in cui il coronavirus ha lacerato la popolazione di tutto il mondo, l’informazione e la comunicazione hanno mostrato una buona dose di resilienza alla stessa stregua degli anni in cui si è affermato l’avvento del telegrafo e la diffusione del telefono. Lo stesso è avvenuto negli anni in cui nelle redazioni sono arrivati i primi terminali e corrispondenti, inviati e collaboratori spedivano gli articoli via hyper terminal. Anche la televisione ha subìto profondi cambiamenti tecnologici. Si pensi a quando i servizi televisivi venivano trasmessi via ponte radio, mentre oggi i file multimediali viaggiano attraverso we transfer. Ogni periodo della storia, dalla nascita de "Il Caffè" dei fratelli Verre fino ai giornali on line e ai portali aggregatori di notizie, registra una capacità resiliente del giornalismo. Bruce Chatwin scriveva che “La vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi”. Un viaggio, quello dell’uomo, che i cronisti del passato e quelli del presente hanno sempre raccontato con gli strumenti offerti dal progresso tecnologico.

Pensiamo ai tempi della Lettera 22, la macchina per scrivere “portatile” con cui sono stati scritti celebri reportage, o alla macchina fotografica Leica: dal 1925 in poi questa fotocamera da 35 mm progettata da Oskar Barnack nei laboratori della società tedesca Leitz ha cambiato per sempre la storia del fotogiornalismo del XX secolo. Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, tanto per citarne due, si tuffarono a pesce nella sperimentazione. Avevano compreso che quella fotocamera dava una maggiore libertà di azione. Quella piccola e potente macchina diede la possibilità di uscire facilmente dalle redazioni per andare a raccontare storie, persone e luoghi, senza portare dietro attrezzature pesanti. Pensiamo a quel che accadde nel 1953 con l'introduzione del Walkie Lookie, la progenitrice della moderna video-camera portatile prodotta dalla RCA. Una sorta di primordiale “zainetto” dotato di un trasmettitore con antenna che inviava il segnale audio-video a una regia fissa posta a distanza. Uno strumento utile per raccontare le convention politiche negli Stati Uniti, ma anche i grandi eventi sportivi. Una svolta per l'informazione e per il racconto giornalistico.

Di esempi ce ne sarebbero tanti, ma quelli elencati bastano per argomentare il concetto di fondo: il giornalismo e i giornalisti hanno da sempre raccontato le piccole e le grandi storie dell’umanità attraverso l’uso intelligente degli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia del momento. Si pensi ad esempio al blog e all’uso giornalistico che di esso si è fatto dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre. Ai giornali cartacei, alle tv e alle radio si affiancò questo innovativo e più libero spazio informativo. Uno strumento utile alle redazioni per “riempire” il gap informativo tra un’edizione e l’altra dei notiziari. I giornali cartacei, così come i telegiornali e i giornali radio, avevano una timeline da rispettare: l’apertura e la chiusura di una edizione. Nei giorni drammatici e convulsi che seguirono il crollo delle Twin Towers i blog e i siti delle testate giornalistiche on line svolsero una funzione sussidiaria, ossia quella di prolungare la cronaca, le testimonianze e le storie tra un’edizione e l’altra dei telegiornali e dei giornali. Internet e i blog riuscirono a “linkare” il filo del racconto creando quella condizione che anni dopo sarebbe stata definita di transmedialità. Negli Usa e poi in Europa si comprese come l’informazione generalista e mainstream poteva essere affiancata dai siti e dai blog che, con la pubblicazione di contenuti differenziati rispetto a quanto pubblicato e trasmesso da giornali, tg e gr, iniziarono a svolgere un compito double-face, sia di approfondimento che, all’occorrenza, di pubblicazione di ultim’ora e breaking news. Nel contempo si riuscì a ovviare a una criticità che ha sempre assillato editor in chief e giornalisti del desk: il problema di “bucare” le notizie. I siti e i blog delle testate giornalistiche affermate riuscirono ad assolvere anche a un altro compito: abituare l’utente a un’informazione “di profondità” rispetto alle notizie, agli articoli e ai servizi pubblicati e trasmessi dai media tradizionali. Basti pensare all’uso delle prime gallery fotografiche che hanno cambiato il modo di concepire le foto-notizie, così come ai primi blog di inchiesta (negli Usa Drudge Report), ma anche ai casi di blog diventati giornali on line come l’Huffington Post creato da Arianna Huffington nel 2005.

La diffusione popolare dei social network, infine, ha cambiato per sempre il mondo del giornalismo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del Duemila. Uno scossone che ha messo a dura prova editori e redazioni. Il giornalismo professionale ha dovuto confrontarsi con una modalità diversa di reperire le fonti, ma anche di verificare le notizie. Gli uffici stampa e i comunicatori istituzionali sono andati al di là del comunicato stampa di un tempo. Oggi il comunicato stampa è multimediale proprio perché si tiene conto che una testata giornalistica ha una sua identità anche nel web e nei social network.

Attenzione: qui non si tratta solo di strumenti, ma anche e soprattutto di contenuti. Non si tratta di quantità di post o articoli inseriti e pubblicati da un giornale on line. Viceversa si tratta di qualità e nuovi linguaggi. Ed è lo stesso mondo tecnologico a fornire nel 2012 piattaforme utili a sviluppare nuove modalità di racconto. Ne è un esempio il WebDoc, il quale ha cambiato radicalmente gli schemi della narrazione sul web e dell’inchiesta giornalistica pubblicata on line. Attraverso tools come Racontr, Storyform o Sparke, ma anche piattaforme come Verse.com o Upian.com molti giornali e giornalisti hanno avuto la possibilità di ritornare al gusto dell’approfondimento come nel passato, ma con strumenti innovativi. Negli ultimi anni, anche a casa nostra, in Italia, abbiamo registrato un aumento di produzione dei WebDoc. Quasi una risposta a chi pensava impossibile da realizzare inchieste giornalistiche e approfondimenti di qualità sul web.

Per dirla alla Gesualdo Bufalino: “C’è chi viaggia per perdersi, c’è chi viaggia per trovarsi”. Il viaggio del giornalista e del mondo dell’informazione è appena iniziato. Occorre solo decidere se ci si vuole perdere oppure ritrovarsi. Come sempre la verità sta in mezzo e non è vero che la “storicizzazione” di un’intervista, di un articolo, di un servizio televisivo pubblicato nel web e nei social è la scomparsa dell’oggi, dunque la morte del giornalismo. Una risposta a quanti temono la cannibalizzazione dei media tradizionali potrebbe essere la seguente: dipende. Se in questo viaggio il giornalismo si pone accanto all’uomo e percorre le strade dell’umanità, belle o brutte, per raccontarle, allora vale la pena intraprendere nuove strade. Se invece ci si deve perdere nell’iperuranio della tecnologia senza sapere come e perché si sta percorrendo un cammino, allora meglio non percorrere questa strada e intraprenderla invece quando veramente ci si sente attrezzati per farlo.

Tra le testate giornalistiche e tra i giornalisti che hanno intrapreso nuove strade nella consapevolezza che il pubblico va intercettato c’è il New York Times, uno tra i più importanti giornali del mondo. Di recente la notizia della produzione di tre documentari di cui il primo disponibile sulla piattaforma Netflix proprio a luglio 2020. Non è la prima volta che il NyT si tuffa nel mare dell’innovazione giornalistica e narrativa. Nel 2009 fu tra i primi ad introdurre la figura del social media editor, un giornalista inserito nella gerarchia redazionale (un caporedattore) per “formare” i colleghi a un approccio verso un giornalismo 2.0. Poi diede vita a racconti multimediali e immersivi come “Snow Fall”, infine è stato tra i primi a rendere la narrazione giornalistica multimediale e convergente. L’iniziativa del quotidiano statunitense fa riflettere: essa guarda prima di tutto all’esperienza degli utenti che, nell’era della frammentazione e della personalizzazione dei contenuti, accentuata dal periodo di “chiusura” per via dell’emergenza sanitaria, hanno aumentato l’uso di piattaforme di streaming on demand. E’ proprio degli ultimi giorni di luglio 2020 la notizia economica positiva di un incremento di utili registrato dalle aziende della big tech. E’ la dimostrazione di quanto la persona-utente vada alla ricerca di contenuti in modalità non sincrona e fuori dal flusso informativo tradizionale.

Un dato di fatto facilmente riscontrabile in ognuno di noi con un semplice esperimento: quante volte al giorno prendiamo dal nostro taschino lo smartphone per informarci, messaggiare, condividere foto, post e tweet? Quante volte andiamo sui siti delle grandi testate per leggere notizie e approfondimenti? Ma soprattutto quanto tempo abbiamo impiegato a guardare docufilm e serie tv anche su supporti mobile?

L’analisi delle abitudini di tutti e di ciascuno, specie delle giovani generazioni, è l’indicatore e la metrica che ci fa comprendere quale strada intraprendere, e se vogliamo viaggiare per perderci oppure per ritrovarci. Il futuro sarà il 5G e, forse, il wi-fi gratis (che non significa dono) a livello planetario. Interrogarsi e riflettere su questi temi resta importante per un giornalismo che vuole prima di tutto camminare accanto all’uomo per raccontarne la storia e le storie. Essere “social” non significa saper usare gli strumenti. Essere “social” vuol dire prediligere la socialità che è la principale caratteristica della persona umana. In questo senso il giornalismo è “social” quando intraprende le vie dell’umano al tempo dei social network e delle piattaforme in cui si condividono video, articoli, film e musica.

Un capitolo a parte, infine, è il giornalismo cattolico: i due decenni appena trascorsi sono stati caratterizzati da due pietre miliari rappresentate dagli Orientamenti della Chiesa italiana che hanno per titolo “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” ed “Educare alla vita buona del Vangelo”. Comunicazione ed educazione sono il binomio che ha caratterizzato l’impegno dei mezzi di comunicazione sociale nel promuovere il messaggio evangelico. Questo mette in evidenza la straordinaria missione della Chiesa: quella di intercettare le vie in cui si incammina l’uomo. Occorre capire i contesti e le strade che percorre l’umanità; e tra queste c’è la sfida delle tecnologie.

Dal Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali del 2002 sul tema “Internet: nuovo forum per proclamare il Vangelo” di San Giovanni Paolo II, fino a oggi in piena era post Covid-19, la sfida educativa e quella comunicativa necessariamente si intrecciano mentre agli educatori e ai comunicatori è richiesto di non perdere di vista l’orizzonte di senso: la questione antropologica. In questo giornalisti cattolici e non sono chiamati a ripensare il loro modo di «comunicare» dentro e fuori le reti sociali, per dare maggiore valore alle relazioni interpersonali, al dialogo, all'incontro, nella consapevolezza che le storie, i racconti, le notizie possono essere trasmesse in forme nuove e con nuovi linguaggi.

Nella foto di Engin Akyurt da Pixabay una vecchia macchina fotografica, strumento che cambiò il modo di fare il giornalismo

Ultima modifica: Sab 29 Ago 2020