Rpensiamoci. Davvero / 11

Lo confesso senza troppi giri di parole. La proposta di scrittura estiva, una consueta e preziosa occasione che giunge puntuale ogni anno ad inizio agosto, quest’anno mi trova un po’ senza risorse. Quasi come una macchina in riserva che procede, sì, ma con una spia fissa accesa sul cruscotto ad indicare un prossimo limite, giunto al quale, senza fare rifornimento, resterà a secco. Potrei dire semplicemente: “grazie, non scrivo”... ma tutto sommato penso che anche raccontare un’aridità sia pur sempre un modo per dare voce alla realtà. Che forse riguarda più di qualcuno in questo tempo di post-pandemia o, comunque, di ripartenza vigilata.

Riguarda noi che, prima di essere giornalisti, siamo donne e uomini con le nostre rispettive quotidianità e moti interiori da gestire e da ascoltare.

#ripensiamoci: l’ho letto e riletto in tutti i modi; l’ho voltato e rivoltato in tutte le direzioni, l’ho scomposto e ricomposto innumerevoli volte in questi giorni di riposo così desiderato e così necessario. E non riuscivo a venire a capo di nulla. Una sorta di vuoto pari a quello del foglio bianco a mezz’ora dalla deadline per la consegna di un pezzo. Capita. Ma non si può scappare. Bisogna affrontarlo. Così, sarà questo il mio modo di affrontare questo vuoto, racconterò semplicemente cosa mi è passato per la testa e per il cuore in questa, ahimé un po’ arida, lettura e rilettura.

Ri-pensiamoci come “pensiamoci ancora”: un punto di vista che indica la direzione di “risvegliare il pensiero”, un invito a non stancarsi di pensare e di riflettere su ciò che la realtà ci comunica di ciò che siamo, su ciò che c’è bisogno di coltivare e su ciò che, invece, è bene lasciar andare.

Ri-pensiamoci come “pensiamoci nuovamente”: un’angolatura che richiede di avere uno sguardo nuovo su noi stessi, sulle cose e sulle persone, meno giudicante, più paziente e più compassionevole. Perché la pandemia ha messo tutti alla prova e in tutti ha lasciato un segno, più o meno visibile, più o meno rilevabile da esami diagnostici: che siano sguardi straniti, che sia ruggine relazionale, che sia paura, che sia chiusura più o meno consapevole, che sia un lavoro perso o un lutto non ancora elaborato, in tutti c’è un segno che non potrà essere rimosso o dimenticato, ma solo metabolizzato. Con pazienza e nel tempo.

Ripensiamo-ci come “pensiamo al noi”: uno scorcio su quella comunità sociale, famigliare, amicale, lavorativa, associativa e ordinistica che ci ha protetti dal sentirci soli in mezzo alla tempesta. Un “noi” che tra colleghi andrebbe maggiormente coltivato in tempi di precarietà del lavoro e di spinta, maggiore e contraria, a tenere per sé (e a volte accaparrare) quel poco lavoro che c’è. Un “noi” che potrebbe evitare gli accentramenti di lavoro su chi uno stipendio fisso o una pensione già ce l’ha per lasciare invece spazio ai giovani che hanno bisogno di crescere e di farsi strada a partire dalle piccole collaborazioni.

Ri-PENSIAMO-ci, infine, come “promemoria per scegliere le parole giuste” per raccontare le persone, le storie, le situazioni. Perché non succeda, nella distrazione collettiva della ripartenza e dell’“andrà tutto bene”, che le nostre parole costruiscano muri e non ponti, che ci si dimentichi dei piccoli e dei più poveri e che ci si scordi, colpevolmente, di quanto il nostro lavoro debba sempre essere un servizio a quella piccola porzione di verità che ci viene chiesto di custodire.

Ultima modifica: Sab 12 Set 2020