Migranti: come è cambiata la comunicazione dopo la tragedia di Lampedusa

Sette anni dopo la tragedia di Lampedusa, riproponiamo un articolo della nostra rivista Desk, nel numero del 2017 che abbiamo dedicato alle migrazioni. E' l'intervista di Marilisa Della Monica ia Domenico Zambito, che era appena stato nominato stato parroco a Lampedusa in quel drammatico ottobre del 2013 (ar)

da DESK (2017)

«Dopo i tempi in cui sui media imperavano termini come invasione ed emergenza, ora la comunicazione si articola con espressioni meno generiche e non più fraudolente e fuorvianti. Ma il discorso pubblico emotivo e umorale, di pancia dice qualcuno, è emigrato sui social. In rete ormai predomina il rifiuto preconcetto, così, a prescindere, tanto per rivitalizzare la vicenda della “colonna infame (sic)». Don Domenico Zambito, parroco a Lampedusa dal settembre del 2013 all’ottobre del 2016, ha fatto dell’accoglienza la cifra del suo servizio.
Nella riflessione sulla parola “accoglienza” edita dalla casa editrice ‘In Dialogo’, ripercorre questi anni. Con lui parliamo del ruolo assunto dalla comunicazione nel racconto di questa epocale migrazione.

Nel suo servizio alla Chiesa agrigentina ha avuto la possibilità di osservare e conoscere il fenomeno migratorio che ha interessato il territorio diocesano, soprattutto Lampedusa. Come è mutato, in questi anni, il racconto dell’accoglienza da parte dei media?

La mia personale sensazione, a riguardo della narrazione del fenomeno migratorio da parte dei media, è che la comunicazione si sia mossa dapprima al passo della cronaca, per poi specializzarsi, sino a rendersi specifica e tendente all’integrale. Gradualmente, così, il fenomeno è stato colto nei suoi diversi aspetti. Dai crudi numeri della migrazione ai motivi che spingono a migrare; dal salvataggio in mare alle condizioni di vita nei centri in Libia; dalla prima accoglienza, non solo a Lampedusa ma anche in altri porti siciliani o del meridione d’Italia, al fascino problematico e imprescindibile dell’integrazione. Alla descrizione e narrazione di fenomeno complesso e ai suoi multiformi approcci ha concorso anche una evoluzione del linguaggio – anche video – più attento: meno facilmente si parla di “invasione, sbarco e clandestini”. Una comunicazione un po’ più accorta e meno vittima-artefice di semplificazioni: “respingimenti in mare”, “migranti economici”, “bombardare le navi”, “pericolo terrorismo”.
Sia nel caso della descrizione semplificata che articolata del fenomeno migratorio, necessari sono stati i simboli, e l’isola di Lampedusa è stato il primo simbolo e resta l’archetipo del rischio congenito dell’ambivalenza della comunicazione. Potere politico italiano ed europeo, Ong e Associazioni, media e social, hanno variamente dato un significato e offerto un’interpretazione della vicenda epocale della migrazione, coagulando in simboli – persone e personaggi, Forze militari, amministratori e volontari, l’isola e gli isolani – a metro ora del salvataggio ora della tragedia; ora dell’accoglienza o del respingimento; dell’integrazione o del razzismo più superficiale e bieco. Una evoluzione del racconto e del linguaggio, mai risolta una volta per tutte e che va di pari passo con una maggiore comprensione del fenomeno e di ciascuno uomo, donna, bambino che è in via, protagonista di questo tragitto al limitare della morte, insieme a noi spettatori-lettori che dalla loro vita migrante veniamo interrogati sul nostro “viaggio della vita”.

Dopo la primavera araba lei ha curato per il settimanale diocesano, L’Amico del Popolo, alcuni interventi su quanto stava accadendo a Lampedusa (in pochi giorni l’isola fu “invasa” da giovani tunisini, il cui numero superava quello della popolazione residente). Come fu trattato a quei tempi il tema dell’accoglienza?

Soprattutto dal punto di vista del potere politico, durante i primi mesi del 2011, l’isola fu usata in un modo che la sociologia chiama “spazio di eccezione”. Come giocando su due piani, coloro che sono artefici di potere e di comunicazione, in uno spazio-tempo limitato sospendono l’ordinario per una esigua frazione di popolazione, sicché la rimanente ed esorbitante parte della comunità riconosca la “qualità” dell’intervento.
Fuor di metafora: con un atto di forza in un’isola di 20 km² si costringevano 6mila abitanti e 10mila giovani maschi tunisini a convivere – come in un carcere all’aperto – con condizioni vergognose e disumane. Se si pensa che erano i giorni della ‘Primavera araba’, che portarono alla caduta di Gheddafi nell’ottobre successivo, si coglierebbe la necessità di altri e ben più approfonditi studi sulla creazione di questo “spazio di eccezione” che fu Lampedusa: una pedina simbolica su una scacchiera di un gioco molto più grande, alla quale gli isolani e i tunisini concorsero in forma inconsapevole. Quella “lezione” di potere e comunicazione, simbolo e dramma, andrebbe approfondita. Di certo cominciarono a cogliersi gli incroci di interesse e disinteresse. Gli interessi politici da parte di nazioni europee e delle grandi multinazionali, delle ricchezze della Libia, e il disinteresse verso i popoli migranti. Ma, d’altra parte, grazie ai media e alle Ong, anche la presa di coscienza della necessità di una visione più allargata del fenomeno migratorio. E da questo il ruolo dell’Italia e dell’Europa.
Con particolare attenzione cominciarono ad essere trattati i temi dei diritti umani e dell’impossibilità dei respingimenti di coloro che, giunti su una nave o su un battello di qualsiasi genere, chiedessero il diritto di asilo o di protezione umanitaria. Il simbolo di Lampedusa − in realtà simbolo lo è ciascun migrante − appella ad un intreccio inscindibile di Diritti, Comunicazione, Responsabilità della Polis. Il ruolo della comunicazione dei media è performativo di nuovi modelli di società. Tutti i protagonisti sono chiamati a vigilare sulla qualità della comunicazione, soprattutto coloro che la producono.

Dal settembre del 2013 al settembre 2016 lei stato parroco a Lampedusa. In questi anni di servizio nella più grande delle Pelagie è venuto a contatto diretto con il mondo dell’informazione. Che ricordo ne ha?

Sembrerebbe che in nessun luogo al mondo, così esiguo come Lampedusa, ci siano state così tante riprese televisive in forma continuativa, relativamente a un fenomeno epocale come quello migratorio. In certi momenti si è rischiato di fare di Lampedusa un reality show. Le telecamere poste a riprendere h24 gli approdi al molo Favaloro, alternando salvataggi, composizione di cadaveri e pubblicità ci danno la cifra della potenza a rischio che è la comunicazione.
Credo che molti giornalisti giunti a Lampedusa per raccontare la vicenda migratoria abbiano colto proprio l’aspetto essenziale. Questo è dato dal mix fra la condizione di aspra ed estrema insularità, la ricerca di vita da parte dei migranti e l’evenienza che per farlo – come a volte è successo – questi morissero. Giornalisti testimoni di un duello fra la vita e la morte: dei migranti, del senso dell’Europa, della comune umanità, dei diritti dei popoli alla vita e non solo del diritto dell’eventuale diritto dei singoli all’eutanasia. Quanto questo combinato disposto, che si attua anche nella contemporaneità di comunicazioni, reti, connessione permanente della comunicazione globale e propaganda sia affine all’evangelizzazione – propaganda della fede, è davvero interrogativo imprescindibile. C’è certamente stata un’elevazione a simbolo di Lampedusa. Più profondamente si potrebbe cogliere la funzione che Lampedusa ha svolto nel far emergere il “segno dei tempi” che è la migrazione. I credenti con lo Spirito sono sempre all’opera per comprendere quali siano i segni che la presenza di Dio nel tempo. Tutti i segni conservano una certa ambivalenza. Vanno rilevati, misurati certo con i criteri della sociologia. Ma questi non bastano. Oggetto di discernimento, di profonda disamina e congiungimento con il criterio che sovviene dal Vangelo e dallo Spirito, i segni – come la comunicazione – aprono all’oltre. In questa capacità propria della Chiesa di saper leggere e comunicare nella fede il segno dei tempi di Dio, papa Francesco è discepolo e antesignano. Venire a collocarsi su uno scoglio in mezzo al mare – tale è Lampedusa – abbracciando la realtà e proporre un senso è stato il modo di Francesco di dirsi Papa. Non meno di quanto dovremmo provare a fare nel dialogo credenti e cittadini, operatori e fruitori della comunicazione.

Crede che in questi anni, soprattutto alla luce della visita a Lampedusa, in cui il Papa denunciò la globalizzazione dell’indifferenza, il mondo dell’informazione che racconta l’accoglienza sia cambiato?

Credo che si siano moltiplicate a dismisura le Lampedusa. Lo hanno detto i vescovi americani al confine con il Messico. In Italia e in Europa diversi sono i luoghi in cui si sono vissuti e si vivono l’accoglienza e l’integrazione oppure il rigetto, il rifiuto del mondo nuovo che sta per venire, che sta per nascere. Ritengo che papa Francesco sia uomo per questi tempi. Sia uomo di Vangelo ma sia anche uomo di comunicazione e di comunicazione del Vangelo e lo sia attraverso una persona che diventa comunicazione e una comunicazione che si fa persona.
Credo che questo sia l’appello fondamentale che la comunicazione, i giornalisti, dovrebbero cogliere e riuscire a trasmettere. Si tratta di persone che cercano il miglioramento della loro condizione di vita con tutti i loro limiti, proprio come noi che stiamo trattando questa situazione, io che sto rispondendo a queste domande, lei che me le sta ponendo, quelli che ci leggeranno, quelli che potranno avere percezione di queste domande e risposte, cioè si richiedono una forma di contatto con la realtà e una capacità di accoglienza delle vite vissute, delle persone che migrano, del loro desiderio di essere ricongiunte con i loro familiari, di avere un lavoro dignitoso, di poter esercitare liberamente i loro diritti e le loro scelte di vita, che vanno a braccetto e si coniugano perfettamente con questa funzione elevante di libertà che la comunicazione indiscutibilmente deve assolvere, soprattutto in questo tempo così complesso e così connesso.

3 ottobre 2013, 366 persone muoiono in un naufragio a pochi chilometri dalle coste italiane, la stampa si mobilitò per raccontare quella tragedia. Fu un racconto che scavava a fondo o si limitò a raccontare la superficie?

Di fronte ad una tragedia immane il rischio per ciascuno di noi è di non cogliere il dramma di ciascuna vita che è andata a fondo, che è scomparsa e di quello che, ciascuna di esse, portava con sé quando scomparve. Quindi la vastità delle immagini delle 366 bare nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa già parla di per sé e richiederebbe un sottofondo di silenzio, una sospensione. Necessita e sempre necessiterà di un approfondimento, cioè del volgere lo sguardo a ciascuna singola vicenda e saperla connettere con il resto dell’umanità che si è portata dietro, che l’attendeva e che doveva compiersi. Tutta la comunicazione è opportunità: è rischio di superficialità e opportunità di profondità. Quale sia la funzione della comunicazione, in questo frangente, a me appare chiarissimo. Da non operatore di livello, mi permetto di non aggiungere niente altro.

Come dovrebbe essere affrontato, secondo lei, il tema dell’accoglienza da parte dei media?

Credo che occorra il rispetto per ogni persona. Nello sgombero di recente effettuato dalla polizia a Roma, siamo rimasti particolarmente colpiti dalla carezza del poliziotto nei confronti della richiedente asilo eritrea. Penso che tutta la vicenda della comunicazione si giochi ancora una volta in quella immagine, in quel simbolo. L’integrazione è da compiersi, l’accoglienza è da compiersi, il salvataggio è da compiersi, la migrazione è da compiersi. Intendo dire che non soltanto la cittadina eritrea che ha chiesto diritto di asilo deve essere accompagnata in questa sua presenza sul territorio italiano e sul territorio europeo, ma è lo stesso poliziotto, siamo noi stessi che abbiamo necessità di compiere questa migrazione personale, sociale, di essere accolti, di essere salvati e di pensare ad un migliore mondo possibile.
Il mondo della comunicazione riesce a mettere profondamente in contatto altri mondi: quello del rispetto della legge e quello del rispetto della persona. Quelli dei diritti di cittadinanza europea e delle condizioni essenziali perché ciò si realizzi. È una grandissima responsabilità quella dell’accoglienza e della comunicazione, inerente un fenomeno di portata epocale. Non possiamo esimerci né dall’una né dall’altra.
Il mondo della comunicazione, non meno della politica che si interroga sullo Ius soli o delle famiglie e parrocchie che si dispongono all’accoglienza diffusa, o il mondo della scuola insieme con quello del lavoro e dei diritti, ha fatto certamente dei passi e ancora deve farne. È un impegno estremamente gravoso distinguere e percepire i diversi aspetti del fenomeno. Non meno impegnativo è star lontani da semplificazioni, massificazioni, denigrazioni; comprendere questo fenomeno e diventarne tutti interpreti capaci di modificare, per il meglio, la vita sociale e la vita della comunità.

La foto di papa Francesco a Lampedusa è di AgenSIR

Ultima modifica: Mar 25 Mag 2021