I mille volti della violenza che la pandemia ha svelato. E il ruolo (e le responsabilità) dei giornalisti

La violenza ha molti volti. Non tutti visibili. E non tutti scontati. Soprattutto quando a subirla, la violenza, è il “secondo sesso”. Ad ogni latitudine. E ad ogni età: neonate, bambine, ragazze, adolescenti, adulte. Persino anziane. A fare più spesso notizia, nei mezzi di comunicazione di massa, è però quasi esclusivamente la violenza che si vede: abusi fisici, brutalità, maltrattamenti, torture. Assassinii: Li chiamano femminicidi, e sono in inesorabile aumento. Ma sarebbe meglio definirli ginecidi. E non solo per puntiglio etimologico, semmai per assonanza con genocidio: ovvero, una strage. Silenziosa. Esasperata dalla pandemia globale. Che sembra aver scoperchiato il vaso di Pandora delle contraddizioni e dei mali dell’umanità. Come l’annosa guerra tra sessi, l’analfabetismo sentimentale e affettivo dilagante ai limiti dell’anedonia, le difficoltà relazionali in un diffuso disagio di civiltà.

Ma l’Idra della violenza, come il mostro leggendario della mitologia greca e romana, ha anche volti nascosti non meno insidiosi di quelli diabolicamente velenosi che lasciano tracce concrete, utili a vendere copie di giornali cartacei in crisi, guadagnare audience, attrarre pubblico assuefatto alla morbosità di amori criminali e storie maledette. E sono i volti delle molestie morali, degli abusi psicologici, delle coercizioni dissimulate d’amore (malato), delle ingiurie e prepotenze e prevaricazioni, delle continue denigrazioni, mortificazioni (verbali, gestuali, comportamentali, in una parola: prossemiche) inflitte sistematicamente, subdolamente, quotidianamente, al genere femminile. E non necessariamente dagli uomini, anzi. Magari, con la complicità stessa di altre donne: madri, parenti, amiche, colleghe. E per giunta, con maschere rassicuranti, ad adombrare il controllo che si vuole esercitare su menti, anime, corpi femminili.

Di questo è più difficile parlare: una sfida trovare “le parole per dirlo”, questo nocciolo di buio di una quotidianità diffusa, qui e altrove, ora e allora. Ed è una fatica intercettare storie che possano avere un appeal mediatico, per l’opinione pubblica sempre più abituata a sensazionalismi da emozioni forti, amplificate dalla becera rozzezza dei cosiddetti “leoni della tastiera” social, sempre pronti a intervenire. Su tutto. E a inveire. Contro tutti. Così si aspetta la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, istituita in memoria delle quattro sorelle dominicane Mirabal, più note come “Las Mariposas”, trucidate nel 1960 dal dittatore Trujillo (ma chi le ricorda più, oggi? Chi ha letto davvero la loro sconvolgente biografia raccontata da Julia Alvarez nel romanzo Il tempo delle farfalle, 1994?) per aggirare l’ostacolo e mettere a posto la (cattiva) coscienza. Sciorinando, come da copione dèja vu, l’ennesima sequela di dati statistici nazionali e internazionali, scomodando opinionisti ed esperti di turno per i commenti, raccogliendo magari anche qualche storia esemplare fino al successivo giro di giostra per celebrare il rito, non senza officiare la festa dell’8 marzo, s’intende. Ma forse è proprio quella la linea d’ombra che bisogna attraversare per raccontare con rispetto autentico la violenza invisibile subìta da molte donne, e che affonda le sue radici nel terreno dell’educazione. Del linguaggio. Degli stereotipi che ancora allignano nella mentalità generativa di comportamenti implicitamente o esplicitamente discriminatori.

Lo denunciò con chiarezza, nel 1973, Elena Gianini Belotti con un testo dal titolo eloquente: Dalla parte delle bambine. Un libro ormai classico, ma dimenticato (o inascoltato), sull’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita. Un libro seguito, sei anni dopo, da un testo dell’autrice ancor più misconosciuto, Che razza di ragazza, dialogo aperto sulla condizione femminile. Testi, riflessioni che Loredana Lipperini ha non a caso sentito il bisogno di riprendere nel libro Ancora dalla parte delle bambine (2007), indagine sulla costruzione (e manipolazione) dell’immaginario femminile «negli stessi luoghi dove le bambine compiono ancora oggi il loro apprendistato al secondo sesso: la famiglia, la scuola, il mondo dei media, l’immaginario dei libri e dei cartoni». La violenza contro il femminile si annida anche lì. Parte anche da lì. Dall’aurora della vita. Che l’XI edizione dell’annuale Atlante dell’infanzia a rischio di Save the Children, curata quest’anno da una giornalista e scrittrice attenta alle donne come Vichi De Marchi, ha voluto guardare stavolta, e non a caso, Con gli occhi delle bambine. Lanciando un allarme sulla necessità di intervenire alla radice delle disuguaglianze che colpiscono le ragazze. E non soltanto in zone del mondo dove un miliardo di minorenni è vittima di violenze fisiche, sessuali, psicologiche, e 12 milioni di bambine e adolescenti sono costrette a matrimoni precoci, secondo dati denunciati da Save the Children. Ma anche nella nostra Italia: dove, entro la fine di quest’anno, un milione e 140mila ragazze rischiano di scivolare nel limbo infernale dei Neet (Not in Education, Employment, Training), ossia di ritrovarsi tagliate fuori dallo studio, dal lavoro, da percorsi formativi. Pur essendo inizialmente, in media, più brillanti a scuola dei loro coetanei maschi, e più resilienti nelle aree di maggiore fragilità socioeconomica e culturale (soprattutto al Sud).

La violenza ha molti volti. La pandemia li sta svelando tutti. E il rischio di essere lasciate indietro, in una povertà educativa di genere che mina alle fondamenta l’illusione della parità, è forse uno dei più pericolosi: raccontarlo è una delle responsabilità etiche di un comunicatore sociale che voglia andare oltre gli stereotipi, rimettendo al centro la questione educativa.

Ultima modifica: Mer 25 Nov 2020