Nell'anniversario della morte di Emilio Rossi

Il 4 dicembre del 2008 moriva a Roma Emilio Rossi. Sulla rivista Desk, prima della pandemia, lo ricoradva il nostro Andrea Melodia. Vi riproponiamo le sue parole. 

Andrea Melodia (2019)

Vorrei ricordare Emilio Rossi, trascorsi più di 10 anni dalla sua morte avvenuta a Roma il 4 dicembre 2008, cercando di rapportare le sue convinzioni e i suoi insegnamenti alla realtà di oggi. Cercando di capire quali sarebbero state oggi le sue scelte.

Gli ambiti, innanzi tutto. Rossi era uno studioso e un appassionato di comunicazione. La sua biblioteca, i libri minuziosamente annotati che ha lasciato e i suoi scritti lo dimostrano. Aveva capito che il mondo nel quale aveva operato con ruoli di primo piano stava cambiando profondamente. Non era certo un uomo pratico, Emilio Rossi. Non usava il computer e preferiva dettare piuttosto che scrivere a macchina. Ma aveva letto libri che spiegavano, per quanto possibile allora, cosa sarebbe successo con il digitale e la rete. Quindi non si sarebbe certo rifugiato nel passato, come hanno fatto – e in parte ancora fanno – tanti giornalisti nati nel secolo scorso.

Maestro di giornalismo televisivo
Il giornalismo. Per uno come lui, lauree in giurisprudenza e filosofia, libri pubblicati su Erasmo e Maritain, la passione giornalistica non era nata sulla strada, ma nel confronto delle riunioni di redazione, quelle in cui si dipana sotterranea la ricerca meravigliosa di una trama di senso negli eventi del giorno e dei loro legami con la Storia; verifica che prosegue nella ricerca della verità, affidata alla qualità e al confronto delle fonti, alla capacità di discernimento propria e dei colleghi, al perfezionamento della lingua e della sua comprensibilità. Una ricerca della verità sempre cosciente dei propri limiti, pronta a confrontarsi e ammettere l’errore. Regole, poi, che applicate al giornalismo televisivo determinano ricerca accurata delle immagini, cura nel montaggio, passione per gli effetti sonori, scrupolo nella impaginazione della scaletta, attenzione al senso dei raccordi.

In quel quarto di secolo che va dall’arrivo in Rai di Ettore Bernabei (1961) alla fine del periodo d’oro della Rai riformata, Emilio Rossi fu protagonista e testimone nella vita di una azienda che era al centro delle grandi trasformazioni e delle tragedie del Paese.

Dopo una prima esperienza giornalistica in un quotidiano era entrato in Rai nel 1956, prima a Genova e poi al Telegiornale a Roma. Sotto la direzione generale di Bernabei divenne responsabile del coordinamento dei palinsesti di rete. Fu chiamato a dirigere il Tg1 nel marzo del 1976, in seguito alla riforma legislativa che impose la divisione di testate e reti, riforma di cui non aveva condiviso lo spirito. Il 3 giugno 1977, mentre a piedi si recava in via Teulada dove si trovava la redazione dei Tg, venne ferito gravemente al ginocchio dalle Brigate Rosse. Quando la Dc decise di rimuoverlo dalla direzione del Tg1, chi lo sostituì dovette presto dimettersi per appartenenza alla loggia P2: i tempi erano cambiati. Negli ultimi anni in Rai, con il ruolo di vicedirettore generale, seguì con attenzione, discrezione e competenza le complesse dinamiche dei rapporti personali e politici al settimo piano di viale Mazzini. Poi fu presidente nazionale Ucsi, direttore del Centro Televisivo Vaticano, presidente del Comitato TV e Minori.

Giornalismo e politica
Le convinzioni di Emilio Rossi erano tanto radicate quanto poco esibite. Sapevamo tutti che era cattolico, si riconosceva nella Democrazia Cristiana, e probabilmente si sentiva più vicino a Aldo Moro che a Amintore Fanfani. Ma per dargli queste e altre etichette occorreva lavorare con supposizioni e probabilità. Di certo considerava più importante una discussione in redazione, che una cena con un politico: molti ricordano che una delle sue arrabbiature – spesso si sfogava sbattendo la cornetta del telefono – si manifestò pubblicamente, in un corridoio, con reciproche alzate di voce, nel confronto con il segretario politico di un partito al governo.
Sui suoi rapporti con i politici Emilio Rossi ha scritto, nel suo libro di memorie professionali È tutto per stasera :

[Smentisco] «... per quanto mi riguarda, l’idea che giorno per giorno un filo diretto con chissà chi del palazzo suggerisse, contrattasse e addirittura pilotasse le scelte principali del giornale. Semmai, qualche volta, era il direttore del Telegiornale a chiedere un parere a qualche amico politicamente scafato, ma al momento non necessariamente potente, di quelli il cui consiglio, se pur viene, può essere eventualmente disatteso in tranquillità.»

Mi meravigliai quando, lasciata la Rai, Giovanni Paolo II lo chiamò a dirigere il Centro Televisivo Vaticano, perché neppure sui suoi rapporti oltre Tevere si aveva chiara percezione.

Politica, comunicazione e benessere sociale
Dunque, non era la politica in sé, intesa come confronto per il potere, la passione dominante di Emilio Rossi, se non per il ruolo della politica nei confronti del benessere sociale. A questo dovevano tendere la politica e il sistema dell’informazione, nelle rispettive rigorose autonomie, nei loro ruoli essenziali di servizio pubblico. Negli anni in cui la televisione aveva massimizzato la propria centralità nella comunicazione – anni del monopolio, certo, che andava inteso come somma responsabilità di servizio – la Rai era il luogo obbligato nel quale un giornalista come Emilio Rossi doveva svolgere la sua missione professionale.

Caduto il monopolio, e oggettivamente ridimensionato nell’età il suo ruolo direttivo, Emilio Rossi continuò a difendere lo spirito del servizio pubblico, non sempre rispettato né dalla politica né dalla gestione dell’azienda Rai. Lo ricordiamo bene, noi dell’Ucsi, per la determinazione con cui ci spronava a svolgere un ruolo incisivo nel mondo della comunicazione.

Ci possiamo oggi domandare, riflettendo sul lascito che trova nel già citato È tutto per stasera un concentrato di riflessioni e suggerimenti, quali siano oggi gli elementi essenziali e più carenti del benessere sociale al quale il servizio pubblico della comunicazione è ancora chiamato a offrire risposta.

Siamo negli anni della comunicazione interpersonale diretta alimentata dai social media, la rete sembra travolgere il ruolo del broadcasting unidirezionale, che ha dominato il secolo scorso, e tanto si riflette sulle infinite possibilità di crescita della informazione e della comunicazione in genere, veri strumenti di cultura, o al contrario dei nuovi oscuri fenomeni che si chiamano discorsi di odio, false notizie alimentate e diffuse da algoritmi incontrollabili, o le “bolle” al cui interno, sui social, si rinchiudono in se stessi i gruppi incapaci di confrontarsi con altre opinioni e di affrontare le sfide della complessità.

Se fino a pochi anni fa si poteva accusare la politica di cercare il dominio sulla comunicazione, oggi è la comunicazione ad essersi impossessata della politica. Interventi razionali e disinteressati diretti a ripulire i sistemi di comunicazione dalle falsità e dai discorsi d’odio per riaprirli a un ruolo pacificatorio di costruzione della coesione sociale, oggi compromessa, devono contribuire a riportare nel confronto politico il rispetto reciproco.
Oggi la coesione politica è pressoché nulla, i mezzi di comunicazione sembrano impazziti e le tensioni sociali appaiono sempre pronte ad esplodere. Di conseguenza un contrasto attivo alle tensioni deve essere attuato, e la Rai come servizio pubblico costituisce, a causa della quantità di risorse pubbliche di cui dispone, il primo luogo a ciò delegato.

La prima lottizzazione
Nei primi anni ’70 del secolo scorso, mentre venivano faticosamente digerite le nuove libertà post 68, si preparavano scontri politici e sociali violenti. Fu in quel clima che la riforma della Rai aprì la strada alle prime echo chambers, alle prime “bolle” ufficiali della comunicazione italiana, attraverso lo spezzettamento della comunicazione e della informazione in reti e testate. Emilio Rossi aveva individuato questo pericolo. Aveva scritto:

«La ‘lottizzazione’ di un ente radiotelevisivo monopolistico fa a pugni con la natura, con la ragione, con la giustizia. La incompatibilità è di quelle che, per essere radicali, prima o poi si pagano. E, del resto, essa potrà avere effetti degenerativi irreparabili già negli atti aziendali di ogni giorno. In termini di vecchia dottrina sociale cristiana, che sorta di “bene comune” potrà sopravvivere in un’azienda i cui massimi responsabili saranno divisi tra il dovere professionale di curare il maggiore e migliore sviluppo di ogni rete e il “dovere partitico” di non portar acqua (cioè pubblico) al mulino (cioè alla rete) del diavolo (clericale o anticlericale che sia)? Ma più in particolare: ‘lottizzare’ è una dichiarazione di impotenza: significa abdicare al compito di esercitare una mediazione unitaria e globale, correttamente rivolta a tutto il pubblico e rispettosa delle diverse famiglie spirituali e politiche in cui esso si distribuisce. (...) ‘Lottizzare’ significa spartire l’ex campo comune: un’aiuola per noi e una per voi, l’una e l’altra sostanzialmente eterodirette, con conseguente svuotamento del potere centrale. (...) Ma c’è di più. Nell’‘aiuola per voi’, vi autorizzo, anzi vi esorto, ad assumere posizioni esplicitamente antagonistiche, vi do licenza di parteggiare, esentandovi in partenza da riguardi verso le ragioni altrui.”

È sconcertante vedere come, oltre 40 anni dopo, il vulnus al servizio pubblico della riforma del ‘75 ancora non sia superato, nonostante siano oggi prevalenti le voci di chi vorrebbe compiere questo passo. Nella ristrutturazione che si discute mentre scrivo, infatti, è contemplato un timido superamento delle contrapposizioni tra le reti ma non quello tra le testate informative.

Il bello della diretta
Un altro lascito chiaro di Rossi, e in parte della sua generazione, riguarda la rilevanza della televisione di flusso, in diretta, rispetto all’evoluzione sociale. Quel ruolo che oggi a torto si riterrebbe superato nella frantumazione delle connessioni di rete. In realtà non è la tecnologia a dare senso alla diretta, bensì la sua capacità esclusiva di gestione globale degli eventi, siano essi nati autonomamente nel mondo reale, siano eventi prodotti dalla televisione medesima, ma non per questo privi di realtà (tipo Sanremo, ma anche eventi di portata molto più limitata), sia quelli collocati a metà strada, come lo sport.

L’accesso globale agli eventi/fatti reali/spettacolo che confluisce nella diretta televisiva, diffusa con qualsiasi strumento tecnico, rimane una funzione irrinunciabile nel grande televisore domestico, che comunque si conferma il punto di consumo privilegiato di tutte le forme di distribuzione dei prodotti: lo smartphone invece resta padrone della comunicazione interpersonale, con la funzione aggiuntiva di una sorta di telecomando universale verso ogni forma di connessione. L’accesso alla diretta è la funzione della televisione che non è destinata a entrare in crisi, assai più dell’accesso all’informazione organizzata nei telegiornali, che restano comunque rilevanti come evento e contenitore di eventi, più di quanto emerga dalle loro vetuste linee editoriali.
Come può la Rai ridare senso alla propria tradizione di gestore degli eventi, oltre che di produttore di informazione e di fiction, contribuendo come servizio pubblico al benessere sociale? Oggi, lo sappiamo, la Rai misura se stessa attraverso un meccanismo, l’Auditel, che la accomuna al mondo commerciale e che fornisce risultati non disprezzabili sulla sua capacità di restare in rapporto con il grande pubblico.

Una nuova Auditel
Il marketing alimentato dall’Auditel tuttavia consente anche di specializzare l’offerta, di lavorare su settori specifici, perfino marginali, del pubblico, a volte favorendo acriticamente le sue tendenze e pulsioni. Un meccanismo che può dare benefici marginali, ma immediati in termini di livelli di ascolto, che però si muove in senso opposto rispetto al bisogno di ricompattare il tessuto sociale. Al contrario, è stato elaborato un meccanismo di misurazione di un indice di coesione sociale dell’offerta radiotelevisiva: consiste, semplicemente, nel rielaborare i dati Auditel valorizzando, insieme ai livelli quantitativi del pubblico raggiunto, l’equilibrio della suddivisione interna tra le diverse categorie di pubblico.

Un programma che è visto da tutti – uomini e donne, giovani e vecchi, colti e incolti, nord e sud, est e ovest, cittadini e paesani... – in modo proporzionalmente uguale alle rispettive presenze nella società, è destinato a creare coesione sociale. Si tratta di mettere a punto nella sperimentazione attiva un modello di misurazione, peraltro già esistente, che ha il vantaggio di tenere conto prioritariamente dei livelli quantitativi del pubblico e di riparametrarli secondo la capacità di creare coesione sociale. Pensiamo cosa potrebbe significare un quotidiano indice di coesione sociale del Tg1 della sera!

L’obbligo di misurare l’indice di coesione sociale è presente nel Contratto di servizio sottoscritto dalla Rai. Il problema è crederci, anziché considerarlo un ulteriore orpello. Se invece questa “nuova Auditel” del servizio pubblico diventasse davvero prioritaria, prendendo il posto della vecchia Auditel, nel misurare le performance aziendali e quelle dei suoi dirigenti, ecco che la Rai avrebbe finalmente un serio argomento da contrapporre a chi ripete, come un disco rotto, che oggi non serve più un servizio pubblico pagato dal canone.

La televisione, e oltre...
Sarebbe una misura rivoluzionaria, se si vuole, anche se in fondo toccherebbe in partenza le attività tradizionali della Rai quelle più “analogiche”, soprattutto quelle dei grandi canali generalisti. Quelli legati alla diretta, quelli più bisognosi, possiamo aggiungere, di rivitalizzare il proprio ruolo per non essere travolti nel mondo digitale. Sviluppando la capacità di creare coesione sociale, i canali generalisti – attraverso le infinite propagazioni che essi stessi generano nei social media, propagazioni che oggi vengono intercettate, misurate e perfino orientate – combatterebbero attivamente il fenomeno della frantumazione culturale della società.

Oggi ha poco senso misurare tempi di presenza e strutture di palinsesto con criteri analogici, quando ormai è maturo l’uso degli algoritmi anche per definire i contenuti del telegiornale della sera. Anche senza trascurare le capacità di reazione del tessuto sociale, davvero chi governa gli algoritmi della comunicazione digitale affronta ogni giorno la tentazione del potere manipolatorio. E nessuno controlla il suo operato.
La misurazione della coesione sociale generata dai canali Rai sarebbe un grande e solido punto di partenza, dal quale estendere l’analisi a quello che circola in rete: perché è evidente che per sopravvivere il servizio pubblico della comunicazione, nel suo insieme, non può fermarsi al prodotto tradizionale, ma è ormai costretta, a partire dal suo ruolo nell’informazione, a “sporcarsi le mani” intervenendo eticamente sugli algoritmi che ne controllano la distribuzione e ne manipolano i contenuti.

Credo che oggi Emilio Rossi sarebbe prodigo di consigli e stimoli in questa direzione. Continuare è quanto dobbiamo alla sua memoria.

Ultima modifica: Sab 28 Nov 2020

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