'Del lavoro delle tue mani'. Dove vai fonda la dignità del lavoro

Riproponiamo oggi una interessante e sempre attuale intervista tratta dal numero della rivista Desk dedicato al lavoro (2017), edito alla vigilia dell'appuntamento di Cagliari delle 'settimane sociali'. L'autrice è Roberta Leone.

Roberta Leone intervista don Luca Mazzinghi (2017)

Don Luca Mazzinghi, biblista, ordinario di Teologia biblica alla Pontificia Università Gregoriana, è presidente dell’Associazione Biblica Italiana. In questa intervista, l’attualità delle questioni del lavoro e della giustizia sociale nella prospettiva storica e culturale della Bibbia. E la vocazione fondamentale inscritta nel lavoro, tra moderne schiavitù e i nuovi lavori al tempo dell’industria “4.0”.

Professore, dov’è, per la Bibbia, il fondamento della dignità del lavoro e che cosa, nel contesto biblico, ci dice che il lavoro è veramente umano e degno?

Si potrebbe cominciare dal racconto fondatore che la Bibbia ci lascia nei primi 11 capitoli della Genesi, dove vengono poste le basi di quello che è il progetto relativo all’“essere umano” secondo la prospettiva biblica. In questo progetto rientra anche il lavoro. Che non è una condanna alla quale l’uomo arriva dopo aver peccato. Circola ancora una lettura di questo genere, secondo la quale l’uomo non aveva bisogno di lavorare, era in comunione con Dio, con la natura, con il creato; poi, il famoso “frutto”, e il lavoro diventa una pesante condanna che l’uomo subisce. La Bibbia non dice questo.

Prima del frutto di cui sopra, si legge in Genesi 2,15 che Dio pose l’essere umano nel giardino “per lavorarlo e per custodirlo”; i due verbi rimandano da una parte al lavoro agricolo, dall’altra a quello pastorale, i due lavori cardine della società del tempo (stiamo parlando di 5 o 6 secoli - non lo sappiamo esattamente - prima di Cristo). Allo stesso tempo, è interessante che quei due verbi indicano anche il celebrare e il custodire l’alleanza con Dio. Sono due verbi che hanno un doppio valore: uno pratico, e rimandano così al lavoro, e l’altro cultuale, e rimandano allora al servizio di Dio. C’è dunque, secondo il racconto della Genesi, una vocazione dell’essere umano che mette insieme il lavorare la terra con il servire Dio. In altre parole, il lavoro non solo non è una condanna, ma è visto nella Genesi come una vera e propria vocazione; l’essere umano è chiamato, potremmo dire, a governare il mondo per conto di Dio. Quello dell’uomo sul creato non è tuttavia un dominio ma è, in realtà, un servizio, non contro, ma a favore della creazione.

Il lavoro come vocazione fondamentale. Che però, nel suo farsi quotidiano, non manca di generare anche frutti di ingiustizia sociale. C’è qui una contraddizione irrisolta?

Nel peccato dell’uomo, quello raccontato in Genesi 3,1-7, rientra anche il distorcere la prospettiva del lavoro. L’aver preteso di far propria la creazione – simbolicamente, mangiare il frutto – distrugge le relazioni positive con la creazione stessa, da cui la condanna: “tu lavorerai la terra con il sudore della fronte ma essa produrrà per te spine e cardi”. La condanna è però conseguenza di una rottura: le cose non dovrebbero, quindi, essere così. Il lavoro faticoso, il lavoro come sfruttamento, il lavoro come cattiva relazione con il creato, non è secondo il progetto di Dio. È, piuttosto, la conseguenza di un progetto sbagliato dell’uomo. Questa è un’idea che riprende anche recentemente papa Francesco nella Laudato si’, facendo vedere come non sia vero che i testi del libro della Genesi propongono una concezione del lavoro come sfruttamento, dominio dell’umano sulla natura. È l’esatto contrario: il lavoro è diventato tutto ciò in seguito a una prospettiva alterata dagli stessi esseri umani.

Potremmo dire che tutta la Bibbia assegna al lavoro una dignità enorme. Non è neppure pensabile per gli uomini e le donne della Bibbia che una persona viva senza lavorare, dove per lavoro si intende quasi esclusivamente il lavoro manuale (il lavoro intellettuale all’epoca c’era – quello degli scribi, ad esempio – ma era raro). Paolo potrà dire con molto orgoglio, nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi – se l’abbia scritta lui o un suo discepolo qui è marginale –, “chi non lavora non mangia”. E Paolo stesso si vanta di lavorare con le sue stesse mani, pur potendo vivere senza aver bisogno di quel lavoro. L’esempio di Gesù e della sua famiglia, poi, è più che conosciuto. Il fondamento della dignità del lavoro sta nel fatto che l’uomo ha una vocazione a custodire e far crescere il mondo come per conto di Dio.

Il lavoro, almeno come lo concepiamo oggi, è ordinato alla produzione di ricchezza e di profitto. La cronaca ne registra anche le conseguenze estreme, a cominciare dalle diverse forme di schiavitù.

È il caso, molto attuale, del lavoro vissuto come alienazione, che la Bibbia già conosce. Una situazione un po’ diversa è quello della schiavitù, perché l’Antico Testamento, di fatto, la ammette. È un dato culturale che l’Antico Testamento non supera in maniera così netta, e anche il Nuovo la supera fino a un certo punto. Paolo fa un passo avanti ma la schiavitù, la sente ancora come un dato di fatto. L’alienazione del lavoro è, invece, un discorso diverso, centrale, per esempio, nel libro del Qohelet, questo saggio ebreo anonimo (Qohelet significa l’“uomo dell’assemblea”) che si nasconde sotto i panni di Salomone, morto da sette secoli.

Qohelet scrive in epoca ellenistica, nel III sec. a.C., in un tempo in cui nascevano le banche, la circolazione del denaro, il latifondo, un’economia non più basata solo sull’agricoltura, e attacca il lavoro inteso come ricerca del denaro, come ricchezza fine a se stessa. Al capitolo 5 Qohelet scrive: “a chi cerca il denaro, il denaro non basta e a chi cerca il profitto non bastano le entrate”, e così anche i suoi passi contro i ricchi che, al momento della morte, se ne vanno via nudi così come erano venuti. Testi che poi riprenderà anche Gesù, soprattutto secondo il Vangelo di Luca.

La polemica del Qohelet non è moralistica: arricchirsi nel presente perché sopraggiungerà la morte è un orizzonte che non giustifica sino in fondo la polemica del Qohelet contro le ricchezze (e i ricchi). La sua polemica è, infatti, molto più seria: se tu spendi l’intera vita per i soldi e per il lavoro vissuto in funzione dei soldi, arriverà un momento in cui ti accorgerai che tutto questo ti evapora in mano. La parola chiave del Qohelet è, a questo riguardo, hebel, il “soffio”, che le nostre Bibbie si ostinano a tradurre con “vanità”, e che significa tuttavia proprio questo: un soffio. È lo stesso nome di Abele, il secondo figlio di Adamo, fratello di Caino. Se tu vivi il tuo lavoro solo per il profitto, il risultato è che tutto è un soffio, è un inseguire il vento. Qohelet fa aprire gli occhi a quel tipo di persone che pensano che il lavoro sia tutto, che il lavoro sia per diventare ricchi, e che una volta che hai un buon lavoro e i soldi, sei a posto per tutto il resto della vita.

Cosa umanizza il lavoro e lo sottrae alla schiavitù del profitto?

Come correttivo a questa visione, la Bibbia - la Bibbia ebraica in modo particolare - propone la prospettiva del sabato. I testi sono ben noti: Esodo 20, Deuteronomio 5 e poi, soprattutto, l’inizio del capitolo 2 della Genesi: quando crea il mondo, il settimo giorno Dio non agisce, si riposa. Quel giorno diventa così consacrato al Signore e sarà un giorno di riposo, di non attività. E l’ebraismo, soprattutto dopo il ritorno dall’esilio babilonese, fa del sabato un segno d’identità: il sabato si trova al cuore della vita di Israele. Tra i suoi vari e ricchi significati, uno è proprio la polemica contro l’idolatria del fare: l’uomo non è solo il suo lavoro.

Ci sono cose che non valgono il lavoro, ma che valgono ben di più: per l’ebraismo, non solo il sabato non si fanno lavori, tranne ciò che è necessario per la vita; ci si dedica alla Torah, alla famiglia, agli affetti; di sabato, le coppie sposate celebrano il loro amore. È un bel modo per dire che il sabato è il giorno della vita, e la vita è più importante del lavoro. L’esempio del fare l’amore è interessante perché fa capire che il non lavorare di sabato ha un valore sacro, non certo nel senso tabuistico del termine, ma nel senso che restituisce l’essere umano ai suoi veri valori. Non che il lavoro non sia un valore, ma quel valore non esaurisce l’intera vita dell’uomo. Il cristianesimo recupererà il sabato attraverso la domenica. E se la domenica, come la chiama l’Apocalisse, è appunto il dies dominicus, il giorno del Signore, non è del lavoro. Qui affermo che la Bibbia ha davvero qualcosa da dire al mondo di oggi, nel contestare una mentalità per cui la festa, quella autentica, non esiste più. Oggi andiamo inoltre verso un mondo nel quale il giorno di festa è legato al contratto di lavoro, non a un giorno fisso uguale per tutti; devi lavorare di domenica, come magari per Natale o per Pasqua. E non ti puoi rifiutare. Come tu fossi uno schiavo; nel precetto del decalogo, il libro del Deuteronomio aggiunge una motivazione importante: “perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te”. Persino in un mondo dove la schiavitù esisteva, lo schiavo aveva diritto al suo sabato!

Il grande tema di questo tempo è la mancanza di lavoro, ma anche gli scenari del lavoro 4.0, pensiamo al ritorno dei lavori a chiamata del crowdworking. Il mondo della Bibbia conosce il problema di chi non trova un lavoro? E come lo interpreta?

Prendiamo l’epoca di Gesù: siamo in una società agricola, ci sono i grandi proprietari terrieri, che non hanno particolari problemi a sopravvivere, e i piccoli proprietari, che comunque se la cavano; quelli che hanno qualcosa di proprio, un piccolo campo, un piccolo gregge, e sopravvivono; e poi ci sono i braccianti agricoli, che dipendono dal fatto che qualcuno li chiami al lavoro. Il problema della carenza di lavoro nel mondo di allora c’è, ma in modo un po’ diverso da oggi. Si potrebbe pensare a Matteo 20, la parabola del padrone che esce ad ogni ora a chiamare lavoratori per la sua vigna. Un po’ come succede nel sud con i caporali, che vengono a prendere gli schiavi - e dobbiamo parlare davvero di schiavi – per raccogliere i pomodori. A una certa ora vengono, prendono quelli che ci sono, concordano un salario minimo e poi, eventualmente, tornano a prenderne altri. Il padrone di questa vigna di cui parla Matteo è particolarmente strano perché a ogni ora torna e continua a prenderne fino alle cinque del pomeriggio, quando non c’è più niente da fare. E anche a quelli che sono arrivati alla fine della giornata, dà la stessa paga di quelli della prima ora che, tra l’altro, è – detto con i criteri di oggi - la paga sindacale di un denaro al giorno. Il padrone non ruba quindi nulla a nessuno: dà la paga giusta.

Questo vuol dire che Matteo prende ad esempio il comportamento di Gesù di fronte a un problema del suo tempo - la difficoltà di trovare lavoro per i poveri, l’ingiustizia del non essere pagati - e riprende qui un’intera tradizione, non solo profetica, relativa al pagare il salario agli operai. La disoccupazione giovanile, la Bibbia non la conosce nei termini di oggi, ma quando affronta un problema analogo, si mette dalla parte degli ultimi. La Bibbia sottolinea la difficoltà di trovare lavoro per i poveri e la difficoltà, per i poveri, di trovare un lavoro giusto. Fa aprire gli occhi sul fatto che ci sono persone che non hanno lavoro e persone che non vengono pagate come dovrebbero. E si mette dalla loro parte, e non ha paura di gridare al padrone che il padrone è ingiusto. Da Amos in poi, la Bibbia è piena di accuse contro il padrone che non paga. Questo era il vero, grande problema: lo sfruttamento dei deboli. In questo, la Bibbia è senz’altro attuale.

È interessante qui il ruolo del profeta.

Del profeta, ma anche del legislatore. Faccio un esempio: Deuteronomio 24,15 dice che all’operaio “darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e a quello egli aspira. Così egli non griderà contro di te al Signore e tu non sarai in peccato”. Questa non è una norma morale: fa parte del codice deuteronomico, che è un testo anche civile, promulgato probabilmente al tempo del re Giosia (fine del VII sec. a.C.), dunque un codice regale, con un valore ufficiale. Vuol dire che esisteva una legge civile, in Israele, nella quale si diceva che devi pagare il salario all’operaio entro la giornata, e proprio perché è povero devi pagarlo senza indugio. Non si tratta di un discorso utopico, che chiede al ricco di dare qualcosa all’operaio. È una questione di giustizia. Altrimenti, si riduce il discorso biblico sul lavoro a un problema di assistenzialismo. Per la Bibbia, si tratta appunto di una questione di giustizia; la motivazione religiosa presente nel testo del Deuteronomio non rende la legge meno efficace, ma, almeno nell'intenzione dell'autore del libro, aggiunge peso alla legge.

Anche perché, tornando al passo da lei citato, l’ingiustizia causa una rottura nella relazione con Dio.

Se tu non dai il salario all’operaio, ne hai una conseguenza di fronte a Dio stesso. Leggiamo in Siracide 34,27, un testo degli inizi del II sec. a.C.: “Versa sangue chi rifiuta il salario all’operaio”. È una metafora, evidentemente, nel senso che uccide l’operaio, ne distrugge la vita. Tanto è vero che nel vecchio Catechismo, frodare il salario all’operaio era considerato come uno dei sette peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. Papa Francesco è recentemente andato in visita a Barbiana: ci sono scritti e testimonianze su come don Milani polemizzava contro i proprietari delle industrie pratesi che non pagavano i suoi ragazzi e li sfruttavano. E c’è l’umiliazione di don Lorenzo, che andava a intercedere per uno di loro e non veniva ascoltato. Don Lorenzo lo faceva proprio perché aveva letto il Vangelo.

C’è, a suo giudizio, un’immagine biblica che in chiave positiva o, come monito, in negativo rappresenta più e meglio di altre il significato del lavoro oggi?

In negativo, il monito di Giobbe 31: “Se contro di me grida la mia terra e i suoi solchi piangono con essa; se ho mangiato il suo frutto senza pagare e ho fatto sospirare dalla fame i suoi coltivatori, in luogo di frumento, getti spine, ed erbaccia al posto dell’orzo”. Cioè, se io ho sfruttato sia la natura che il lavoro a mio esclusivo vantaggio, la terra si ribelli contro di me. La terra che mi violenta per averla violentata, questa è un’immagine in negativo, molto forte.

L’immagine in positivo potrebbe essere, invece, una delle parabole contenute in Marco 4, quella del contadino che semina e non sa neanche lui com’è che il seme nasce. L’essere umano lavora, feconda la terra, dona vita al terreno e nasce qualcosa che è più grande di quello che l’essere umano possa pensare di fare.

Ultima modifica: Ven 30 Apr 2021