I cinque sensi del giornalista (in memoria di Nadia)

Pensare, riflettere, parlare, scrivere, precisare, chiedere, ascoltare, cercare einterrogarsi sono tutte azioni ordinarie nella professione di comunicatori e giornalisti. Quando c’è tuttavia un coinvolgimento personale tutto diventa più delicato e complesso al contempo. E’ questa l’esperienza vissuta con Nadia De Munari, volontaria dell’Operazione Mato Grosso (OMG) aggredita a Nuevo Chimbote (Perù) e morta per le lesioni riportate il 24 aprile scorso.

Leggendo le notizie e vedendo le foto pubblicate dalla stampa peruviana è sorto spontaneo l’interrogativo rispetto ad una sensibilità particolare che giornalisti e operatori della comunicazione potrebbero o dovrebbero avere.

Sono cresciuta nella stessa parrocchia di Nadia, a pochi passi da casa sua, a Giavenale di Schio (VI), il quartiere di periferia, in piena campagna, e avevo 9 anni quand’è partita la prima volta per l’anno di esperienza in Ecuador. Ricordo con grande stupore le raccolte viveri, le vendite dei lavoretti e delle torte in parrocchia, la “fretta” bella che veniva trasmessa il sabato pomeriggio ai bambini dell’Azione Cattolica dei Ragazzi per aiutare quelli della missione di Nadia.

Ogni ritorno suo e degli altri volontari OMG della parrocchia era fonte di grande fermento in tutti e per i bambini voleva dire l’occasione di almeno un incontro con Nadia. Da animata prima, poi da animatrice e catechista c’è sempre stato un filo rosso che incrociava le nostre vite insieme a quelle di una comunità semplice, ma profondamente orgogliosa dei propri missionari, grembo fecondo da sempre sia di vocazioni religiose che missionarie, oltre alle altre.

Nadia, però, aveva un carisma particolare: era infatti un vulcano di idee che si realizzavano sempre, capace di sognare e far sognare, ma anche di concretizzare insieme ogni progetto.

Appresa la notizia della sua aggressione, ho pensato alla reazione dei media e mi sono chiesta se l’ufficio comunicazioni sociali della diocesi di Vicenza nel quale lavoro sarebbe stato coinvolto. Arrivata la triste conclusione della corsa buona di Nadia in questa vita, è iniziato il vortice.

Come raccontare un omicidio tanto efferato ed inspiegabile? Come tutelare la famiglia e gli amici dell’OMG, così provati da un fatto arrivato in modo del tutto inatteso?

Prima ho iniziato ad ascoltare: lunghe ore al telefono con singoli e gruppi dell’OMG, con i familiari, con persone colpite dalla storia di Nadia per capire, ma cosa? Mentre la notizia “montava”, bisognava orientare le informazioni, dare risposte, certezze...che non c’erano e ancora mancano.

C’erano solo animi rotti da un dramma, vite da ricucire, un rimpatrio da organizzare al meglio.

L’ascolto elaborato è diventato tatto nei confronti di familiari e amici più stretti: c’è un tocco che passa nelle parole, nei gesti, nei silenzi che si fanno presenza, non solo negli abbracci.

Lo stretto contatto e, probabilmente, l’unione di animi ha permesso di fiutare l’interesse di chi voleva solo spettacolarizzare questo dramma, così da scegliere di ridurre le dichiarazioni, pesando ogni parola, “presidiando” quei luoghi informativi che facevano temere la manipolazione e facendo squadra con chi invece voleva solo aiutare a capire la bellissima figura di Nadia, come donna e come missionaria.

Giorno dopo giorno, è diventata visibile una voce univoca sui fatti che si stavano sviluppando, sulla personalità di Nadia, non solo su quello che faceva...perché il fare è già molto, ma in questa vicenda è il suo modo che ha da sempre fatto la differenza: il “come” agiva, coinvolgeva, amava con grande passione i suoi 500 bambini dei 6 asili di Chimbote.

Da questa esperienza risulta evidente che chi lavora nel mondo della comunicazione deve trovare il modo per difendere non solo i valori del proprio editore, ma la vita umana: va difesa non solo nel corpo fisico, ma anche nel corpo mediatico perché c’è un corpo che si realizza anche lì e, se manca chi lo tutela, è compito degli addetti ai lavori farlo affinché la ricerca della verità sia la motivazione principale di ogni parola che si fa azione. La differenza con altri lavori sta principalmente qui: comunicare è rendere comune qualcosa, cioè dire parole che si fanno azioni. Da qui, una necessaria ricerca di coerenza. Questa è tuttavia una scelta etica che si costruisce giorno dopo giorno, scegliendo di perdere fama e successo facili per difendere i valori nei quali si crede, di perdere tempo per verificare le notizie e incontrare le persone “consumando le suole delle scarpe” o i tasti del telefono, perché la verità emerge sempre, a volte con tempi diversi dai nostri, ma arriva.

E giustizia è anche dare dignità a chi non può più difendersi o non ne ha la forza. Anche con le parole che si fanno azioni. Comunicatori e giornalisti hanno un grande potere e ogni giorno devono discernere come veicolarlo nelle notizie e nel rispetto di chi operare simili scelte, ma questo significa anche rendersi credibili: un’integrità che, nel tempo, premierà.

Sarà così anche per il ricordo di Nadia che, inizialmente sembrava poter essere rovinato, mentre già dalle centinaia di persone presenti al funerale (la stima è di 1.500 persone) è pienamente confermato nella sua preziosa dignità. “Aiutiamoci ad essere felici in un modo dove pochi lo sono”, diceva spesso lei. È un concetto alto di solidarietà che tocca le corde della vita di ogni persona e anche di alcune professioni. Per essere felici, in fondo, basta poco: l’onestà e la trasparenza conducono sempre alla verità e alla giustizia. Una vita felice sa guardare fuori di sé condividendo ciò che si è, prima ancora che ciò che si ha, rispettando ogni umanità come un terreno sacro da custodire in tutta la sua preziosità.

Ultima modifica: Dom 9 Mag 2021