Il martirio di Rosario Livatino, che oggi è 'beato'. Uomo giusto e giudice fedele

Oggi, domenica 9 maggio, nella cattedrale della 'sua' Agrigento Rosario Angelo Livatino, il magistrato ucciso "in odio alla fede", diventerà beato. L'omiciio avenne il 21 settembre 1990, ormai più di trent'anni fa. Livatino è il primo giudice dichiarato ' beato' nella storia della Chiesa. Nel numero della nostra rivista Desk dedicato al “racconto giornalistico della giustizia”, nel 2018, lo aveva ricordato Marilisa Della Monica con questo bell’articolo che adesso vi riproponiamo.

Marilisa Della Monica

L’interrogativo del perché il giudice Rosario Livatino, personalità riservata e schiva da ogni protagonismo, assurga ad emblema simbolico della pratica sociale della giustizia è ancora ben lontano dal trovare risposta.

La sua dedizione esclusiva alla pratica del decidere giudicando in qualità di magistrato della Repubblica Italiana, con la sobrietà e la radicalità venate di malinconia e di lampi di umorismo tipiche di un monaco nel deserto, continua a permanere aliena dalle ossessioni debordanti dei protagonisti dell’articolazione del bene comune.

Come un giudice che si asteneva da ogni pubblica manifestazione per essere e apparire “al di sopra di ogni influenza” - senza deroga alcuna né alla discrezione che si vuole dei moti dell’anima in Dio, né alla adesione sincera e pubblica della fede e alla professionalità nel diritto penale, e, soprattutto senza deroga alcuna al combattere la pervasiva idolatrica mentalità mafiosa - quasi un eremita nella città, assurga a perenne “rifondatore di giustizia”, è questione che ancora interroga.

Dopo la lacerazione della trama sociale per il reato commesso dal reo a danno dell’offeso e alla comunità, come ristabilire la comunione civile? La giustizia tra gli uomini è affare dell'homo oeconomicus o politicus, oppure nell’intrecciarsi delle libere volontà ha umano protagonismo e possibile corrispondenza alla grazia, alla misericordia di Dio? Da dove l’imprescindibile contributo del cittadino fedele giudice Livatino ai cittadini fedeli e alla società italiana del 2018?

Fare apparire Rosario Livatino un “santino”, un uomo lontano anni luce da un qualsiasi uomo dei suoi tempi, è questo il pericolo in cui potrebbe incorrere chiunque si cimenti a scrivere di Rosario. Di lui sappiamo poco. E, quel poco, proviene dai pochi che lo conobbero nel corso della sua vita. Pochissime le amicizie che si protrassero negli anni, ed anche ai genitori, come del resto accade nella maggior parte delle famiglie, la vita di quel ragazzo, con tutte le sue fragilità, debolezze e complessità, si palesò dopo la sua morte. Nella solitudine quotidiana, nella incomprensione che generavano molti dei suoi comportamenti, nell’imperscrutabilità del suo essere uomo e uomo riservato e discreto, credente e consapevole del ruolo gravoso di amministrare la giustizia.

Rosario Livatino poteva apparire eccessivo in tutto quello che faceva. Nel suo essere timido e integerrimo. Rosario non lasciava mai, in quanti lo incontravano, sentimenti tiepidi. Racconta Salvatore Cardinale, già presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, che di Livatino fu collega alla Procura della Repubblica di Agrigento e con cui condivise la quotidianità dell’ufficio, come Livatino «conquistava la stima, la considerazione e l’affetto dei suoi colleghi di Procura e degli altri magistrati in servizio a Palazzo di Giustizia di Agrigento. Lo favorivano in tale “conquista” la personalità adamantina, la disponibilità all’ascolto, la propensione al confronto, il modo discreto ma non distaccato di coltivare i rapporti umani.

A dette riconosciute qualità personali Rosario Livatino aggiungeva, dal punto di vista professionale, la preparazione eccellente, la notevole capacità di approfondimento, la tenacia non facilmente contenibile, il dono di esposizione sintetica ma nel contempo esaustiva.

Nell’esercizio delle sue funzioni sapeva astrarsi da ogni occasione di possibile condizionamento. Alieno da ogni forma di protagonismo, era un rigoroso custode del segreto istruttorio che rispettava e che pretendeva venisse rispettato dagli altri. La notorietà degli inquisiti o l’eclatanza della notitia criminis non costituiva mai motivo per derogare a tale scelta che, se da un lato salvaguardava il buon esito delle indagini, dall’altra tutelava l’immagine dell’indagato nella fase in cui il suo nome non doveva essere dato in pasto alle cronache» (Salvatore Cardinale, Un'Introduzione, una testimonianza in Non di pochi ma di tanti, Salvatore Sciascia Editore). Non ebbe mai esitazioni? Seppe sempre quello che doveva fare.

Dopo la sua morte, i genitori trovarono delle agende in cui Rosario aveva annotato, quasi giornalmente, pensieri e osservazioni, sulla giornata appena vissuta. Attraverso questi piccoli e quotidiani flash si è cercato di capire un po’ di più l'uomo Rosario Livatino: i suoi tormenti amorosi, il suo attaccamento ai genitori che non voleva mai deludere, la sua crisi religiosa e la momentanea mancanza di fiducia nello Stato e nell’ordinamento giudiziario. Pensieri, parole, invocazioni di aiuto e disperazione, si ritrovano, scritti in filigrana ed espressi con un ermetismo che colpisce e dimostra, ancora una volta quanto, anche in questo esercizio personalissimo, Rosario Livatino fosse schivo e timido.

«17 gennaio 1984. Udienza straordinaria. Processo Alabiso. Terribile e demoralizzante. Ho rinunciato a una cena. 20 marzo 1984. Indagini CORV. E. per i “15”. È pericoloso. (In Procura si stava indagando sui rapporti fra mafia e politica e sugli intrecci mafia-appalti. Livatino passa al setaccio i beni dei clan, facendone controllare provenienza e gestione. Il processo riguardava molti capimafia della zona, a partire dal boss di Canicattì Antonio Ferro, ndr). 24 marzo 1984. È un brutto periodo per il morale. 3 giugno 1984. In mattinata Messa alla Madonna della Rocca con i miei. Pomeriggio in casa. Il mio spirito è nero. Ed il futuro non vedo come possa rischiararlo. 19 ottobre 1984. Ad Agrigento per una riunione improvvisa: un boccone amaro: vogliono togliermi il processo dei “15”. Riflessione a margine del mese di dicembre 1984. Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?».

Il 1984 è forse l'annus horribilis per Rosario Livatino. L’anno in cui sicuramente il travaglio interiore raggiunge l’apice. Non si accosterà più al sacramento della Comunione fino al maggio del 1986. Lo annota egli stesso nell’agenda di quell’anno: «27 maggio 1986. Oggi, dopo due anni, mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che nulla di male venga da me ai miei genitori».

Rosario in quel biennio, 1984-86, prova una profonda delusione per l’ambiente giudiziario in cui si trova ad operare, avverte la slealtà di qualche collega e prende consapevolezza della inutilità della propria totale dedizione allo Stato. Comincia ad avvertire che l’incorruttibilità non passa inosservata alla criminalità organizzata, che comincia a vedere in lui non il rappresentante della giustizia ma un avversario pericoloso da combattere. Sapeva Rosario di essere già nel mirino della mafia, sapeva, forse aveva ricevuto qualche avvertimento, che alla mafia quel suo modo di fare, quel suo agire, cominciava ad andare stretto. Ed è lui stesso a palesarlo nel diario minimo dell’Agenda di quell’anno: «3 ottobre 1986. Giornata di ferie. Ho 34 anni. Invoco la benevolenza divina su quelli che restano». Come se sentisse incombere su di lui un destino già segnato ma affidasse a Dio di proteggerlo e di fare in modo che quanto immaginato non si realizzasse. Passeranno 4 anni e quel destino che Rosario Livatino vedeva segnato si manifesterà in tutta la sua crudeltà.

Quattro uomini, Paolo Amico, Domenico Pace, Giuseppe Avarello e Gaetano Puzzangaro il 21 settembre 1990 porranno fine alla vita di Rosario Livatino. Un'esecuzione mafiosa in piena regola ai danni di un uomo indifeso, che aveva sempre rifiutato qualsiasi forma di protezione della sua incolumità, per evitare che il personale di scorta potesse correre pericolo di morte e che i suoi genitori potessero essere allarmati dalla presenza costante degli agenti.

Cosa fa di Rosario Livatino un uomo che merita di salire agli altari? Perché oggi diventa beato? Il processo di canonizzazione ha già datto delle risposte. Per noi la santità di Rosario Livatino risiede nel suo essere “normale”. Da cattolico praticante sapeva uniformare la sua condotta alle regole della fede in cui credeva, avendo trovato nella religione le necessarie risposte e i necessari stimoli a proseguire nel suo cammino di vita privata e professionale. Scrive egli stesso nella conferenza “Fede e Diritto” del 1986 «[...] Proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. [...] E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi di costruttiva contrizione. Ed ancora una volta sarà la legge dell’amore, la forze vivificatrice della fede a risolvere il problema radicalmente».

Il rispetto dell’uomo sempre, sia esso indagato, reo confesso, colpevole o presunto colpevole, in ogni uomo deve essere tutelata la dignità, in ogni uomo è presente l’amore di Dio, ogni uomo merita il rispetto derivante dall’essere creatura di Dio. Una banalità del bene che alla fine palesa tutta la grandezza di un uomo che fino alla fine ha dimostrato amore anche per i suoi assassini.

foto: Famiglia Cristiana

Ultima modifica: Sab 8 Mag 2021