Giovani giornalisti al Sud: 'La professione che conoscevamo non esiste più'

Amico mio, ti dico la verità, non credo più nella possibile redditività di questo mestiere: sono stanco di inseguire persone, progetti, compensi. Tutti chiedono tanto ma non danno nulla”. Andrea (nome di fantasia) è uno dei colleghi più in gamba che conosca nel panorama del giornalismo sportivo della Sicilia orientale, ma è uno dei tantissimi che sembra gettare la spugna rispetto all’idea di fare il giornalista. Non è poi così tanto “giovane” essendo vicino ai 40 anni: ma per una società che rifiuta l’idea dell’età adulta, dell’anzianità o della morte, probabilmente è talmente giovane da dovere essere ancora ritenuto uno che deve lavorare pressoché gratis per “fare la gavetta... 

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... Andrea parla tre lingue e ha talmente tante capacità che troverà altre occupazioni, ma alcune inquietanti domande restano: quando finisce la “gavetta”, nel giornalismo di oggi? E fino a che età si è “giovani”, verrebbe da chiedere ampliando il ragionamento, ammesso che essere tali significhi quasi doversi rassegnare a compensi irrilevanti per una vita emancipata e dignitosa?

Un altro collega, Giuseppe (altro nome di fantasia), se possibile è ancora più in gamba di Giorgio. Se non altro perché invece va per i 50, di anni, e ha lavorato per oltre 25 di questi per una delle testate più importanti dell’isola che poi, dopo decenni di promesse e aspettative, ha pensato bene di metterlo alla porta. Il benservito è arrivato di fatto qualche anno fa, anziché premiare le indiscusse capacità con le quali per anni questo “ragazzo” ha tenuto in piedi la “baracca” più nota dei media siciliani per tanti anni. Nunzio talvolta approntava persino 16 pagine in un solo giorno: dopo decenni di precariato e promesse, è stato lasciato con un pugno di mosche in mano. Eppure come lui, in tutta la Sicilia orientale, se ne contano sulle dita di una mano: ha esperienza, competenze innovative e passione smodata. E’ stato talmente tanto ritenuto “giovane” che, giornalisticamente, “c’è rimasto” anche lui.

Sono due storie emblematiche emerse proprio nei giorni in cui mi viene chiesto di dire cosa significhi fare il giornalista al sud. Solo due, per non annoiare o intristire, ma utili alla comprensione immediata del momento, nella loro brutale realtà. Eppure, al sud più che altrove, ma un po’ ovunque, i giovani giornalisti illusi e sfruttati stanno tenendo in piedi testate con una dignità e una resilienza che la generazione di professionisti precedente probabilmente non immagina neanche. Al sud, più che altrove, arrivano prima il nome e la provenienza familiare, poi l’influenza che eventualmente riesci a esercitare dentro il “sistema” e quindi, per casi più unici che rari, il merito. E a molti sta bene così, perché baciati dalla fortuna di campare di rendite che rientrano in questa cornice. O forse, molto più illusi di altri.

Allora buona parte della mia generazione, non accettandolo, ha due strade: cambiare mestiere o andare via. La terza via esiste, e chi scrive ci crede talmente tanto da averla scelta e sperimentata tornando dal “continente”, dove stipendi e opportunità erano ben maggiori. Ma solo chi non ha l’acqua alla gola del mutuo, della malattia o dell’affitto, può permettersi un coraggioso strappo prendendosi dei rischi in qualità di imprenditore di sé stesso; può farlo comunque chi, al contempo, aggiunge un pizzico di utopistica follia e, in ogni caso, trova qualche risorsa lavorativa creativa o anche altrove, perché non si sa mai... e perché non si campa “d’aria e d’amore”, come dicono i nonni del sud.

Di giornalismo oggi, al sud, possono vivere di fatto ben pochi e, comunque, soprattutto se accettano con oneri e onori la logica della libera professione. Altrimenti, il famoso “campa cavallo” è più che trapassato da tempo. Fa male leggere la realtà? Sì, ma ignorarla o fingere di non vederla sarebbe peggio. La crisi dell’editoria di questi ultimi 15 anni si è insediata nelle storture di una società già miope nei confronti dell’investimento necessario verso le giovani generazioni. Questa amara ma realistica considerazione, ovviamente, non vale solo per il settore editoriale/giornalistico, ma anche per tante istituzioni che trascinano vecchie logiche fuori dal tempo sul piano della formazione e della selezione del personale in base alle competenze. E’ il sud; è l’Italia.

Pertanto, le domande da riproporre sono le stesse, esistenziali ed ampie: il giornalismo serve oggi? E chi lo desidera, quanto è disposto a dare, per riceverlo? Ma soprattutto, chi parla o per lo più straparla di “giovani d’oggi”, cosa fa per i giovani d’oggi? Quante ore del proprio tempo mensile, se non risorse materiali, è disposto a dare nei confronti dei giovani, chiacchiere da salotto social a parte? Ora, come in tutte le epoche, anche questo “cambiamento d’epoca” presenta grandi opportunità come anche “sepolcri imbiancati” da riconoscere.

Certamente le prospettive dell’europrogettazione, della libera impresa, della cooperazione tra professionisti e, soprattutto, del riconoscimento pubblico e privato dell’importanza di puntare ancora sull’informazione, possono sortire nuove possibilità e speranze. Inoltre, sono molte le istituzioni e le aziende che necessitano di ricostruire la propria identità mediatica, la propria narrazione e i contenuti delle loro attività, ricercando personale di formazione anche giornalistica. Ma il giornalismo che conoscevate, oggi, non esiste più. Soprattutto al sud. Quello che vorremmo o che vorreste, cari amici e colleghi, va in buona parte ricostruito dalle fondamenta: come nel dopoguerra, così nel dopo-Covid. Ma il primo passo, come sempre, è nella consapevolezza e, come ha affermato Papa Francesco, nella capacità di parlare con parresia, fraternamente ma con estrema chiarezza e trasparenza, con il rischio calcolato di ferire il fratello, il padre o l’amico. Ma solo per salvare l’intera famiglia. Umana e italiana, almeno, in questo caso.

Ultima modifica: Mar 8 Giu 2021

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