L'informazione resiliente tra il tempo e la storia

(#restart_02) Guerre, pandemie, crisi economiche e catastrofi naturali fanno parte della storia del mondo e dell’umanità. I cronisti di tutte le nazionalità sono stati in prima linea per raccontare i grandi sconvolgimenti politici, le rivoluzioni, i colpi di Stato, le scoperte geografiche e scientifiche, così come le evoluzioni tecnologiche.

Il Novecento è stato quel “secolo breve” (E. J. Hobsbawm) che ha prodotto mutamenti non solo nella società e nella cultura, ma anche nel mondo dell’informazione. Dal codice di Samuel Morse al telegrafo senza fili di Guglielmo Marconi, dal telefono di Antonio Meucci e di Alexander Bell alla macchina per scrivere, il giornalismo si è adattato al tempo e alla storia. La tecnologia al riguardo ha aiutato il mondo dell’informazione ad evolversi. L’introduzione del dimafono fu una svolta nella trasmissione degli articoli, i notiziari come la Settimana INCOM diedero un ampio impulso all’informazione di massa e il passaggio dalla fotografia al collodio di Frederick Scott Archer al sistema reflex di Carl Zeiss Jena contribuì a dare un carattere diverso al fotogiornalismo. Tutti esempi che sottolineano come l’evoluzione tecnologica sia andata di pari passo con la storia del giornalismo.

Il rapido sviluppo delle tecnologie nel campo dei media è sicuramente uno dei segni del progresso dell'odierna società (Giovanni Paolo II) e il giornalismo si è semplicemente adattato alle contingenze del momento. Ad ogni conflitto, pandemia, disastro aereo o ferroviario, calamità naturali e capovolgimenti socio-politici ed economici i giornalisti hanno compreso di essere entrati in una nuova fase professionale. Chi era stato chiamato a stare sul campo aveva compreso la necessità di migliorare le tecniche di trasmissione dei contenuti. Non si trattava di intaccare i vecchi ferri del mestiere, ma di imprimere velocità alle notizie da pubblicare, ai contenuti da trasferire. Quando Ray Tomlinson inventò la e-mail non poteva immaginare quante e quali ricadute avrebbe avuto per il mondo del giornalismo.

Lo stesso è avvenuto tra il 2020 e il 2021 con il Covid-19. L’emergenza sanitaria ha condotto a un rinnovato uso di Skype o di Whatsapp nell’organizzare le interviste televisive. I giornalisti hanno partecipato ai webinar e alle conferenze stampa online, le riunioni di redazioni in molte realtà sono avvenute a distanza e la trasmissione dei contenuti audio-video-fotografici è avvenuta attraverso le piattaforme più disparate. We Transfer e tutte le altre decine di servizi di mail box hanno aiutato il lavoro dei giornalisti nella quotidianità. L’emergenza sanitaria ha fatto prendere maggiore coscienza circa la tecnologia che c’era sempre stata, ma che era stata considerata sussidiaria e funzionale solo all’occorrenza. C’è però di più: quello che è stato definito “tempo sospeso” ha prodotto nuove forme di produzione di contenuti audio-video e rilanciato piattaforme di pocdast come Spreaker, Spotify, Apple podcast, Google podcast, Audible e tante altre. I contenuti in podcast hanno vissuto una nuova vita e grazie ad un uso sempre maggiore di smartphone e tablet hanno guadagnato una grossa fetta di mercato tanto da indurre i grandi quotidiani, le radio e le emittenti televisive a dedicare intere sezioni dei loro siti internet agli audiolibri oppure ai racconti in podcast di grandi firme del giornalismo. Tra le numerose esperienze ci sono ad esempio Chora Media, Buzzsprout, Podbean e molti altri. Si, perché se una storia è bella ed è ben raccontata, se un’intervista è fatta bene e il giornalista si è preparato, il contenuto diventa “trasmissibile” e “fruibile” da qualsiasi device. Non importa con quale strumento. Quel che importa è la storia e il contenuto di qualità. I giornali e i periodici hanno immediatamente colto nella loro versione online questa opportunità.

C’è da chiedersi però qual è l’approccio dei giornalisti con i nuovi strumenti. Qual è la percezione del mondo giornalistico a questi nuovi strumenti di narrazione? Molto utile al riguardo è lo studio condotto dall’Osservatorio sul giornalismo dell’Agcom che ogni anno conduce un’indagine molto interessante, in Italia ci sono quasi 36.000 giornalisti attivi. Dal 2010 ad oggi c’è stato un calo del numero di giornalisti impiegati di circa il 10%. Essi utilizzano quotidianamente soprattutto motori di ricerca (76%), sistemi e servizi di messaggistica istantanea (56%,) e Facebook (41%). Instagram, il social network più usato dai giovani, viene utilizzato dal 72% dei giornalisti fino ai 35 anni di età; Facebook dall’83% dei giornalisti dai 36 ai 55 anni di età; YouTube solo dal 28% del totale. Per quanto riguarda nello specifico i social network, emergono forti differenze, sia nel possesso di account, sia nel loro uso per finalità lavorative, tra le tre principali fasce di età, a testimonianza di un importante gap generazionale nell’uso di questi strumenti. Emerge il ritratto di un giornalista italiano che pur in possesso dei dispositivi tecnologici, visto che la quasi totalità usa pc portatili o fissi e più di tre quarti lo smartphone non sempre riesce ad utilizzare tali strumenti in maniera ampia e adeguata alle opportunità che il digitale mette a disposizione dei professionisti dell’informazione.

Un quadro, questo, che potrebbe indurre a pensare al giornalismo del futuro come spazio esclusivo di smanettoni supertecnologici e di nerd informatici. Non è così. Al contrario, proprio questi dati sottolineano come il mondo dell’informazione, alla stessa stregua di altri periodi storici, si sta pian piano adattando all’innovazione tecnologica. L’emergenza sanitaria non ha fatto altro che accelerare questo processo.

E’ vero che il livello di competenza digitale dei giornalisti italiani, soprattutto nella fascia di età degli over 65, non risulta ancora particolarmente elevato. Altrettanto vero è che un’importante quota della popolazione giornalistica è posizionata a livello medio-basso e che i giornalisti più giovani tendono a utilizzare maggiormente i social media in ambito lavorativo per attività legate all’audience engagement, ma un fatto è certo: i giornalisti italiani, indifferentemente rispetto all’età, tendono a usare più fonti di diverso tipo a dimostrazione di una tradizione di fondo della professione giornalistica: l’abitudine alla ricerca delle notizie da più fonti, comprese le più tecnologiche come le reti sociali, e il bisogno di una verifica, essenziale per chi ha prestato giuramento alle regole etiche e deontologiche. Proprio su quest’ultimo punto si giocherà la credibilità della professione giornalistica del futuro.

Non basta smanettare, conoscere i codici html per modificare le pagine online, saper impaginare con un Content Management System e avere un’alta percentuale di ottimizzazione dei contenuti scritti online (Search engine optimization). Non basta prestare attenzione a curare una buona snippet per il miglior posizionamento sui motori di ricerca se poi viene meno la fiducia dei lettori-utenti-telespettatori. Perciò il nodo fondamentale per il giornalista del futuro sarà la sua competenza e le sue capacità di verificare, se non addirittura di smascherare, quelle che un tempo si chiamavano “bufale” e che oggi sono definite “fake news” con un rating molto alto di propagazione in Rete, nelle chat e nei social network.

Le guerre, le pandemie, le catastrofi naturali sono ricche di esempi in cui la propaganda, la manipolazione delle informazioni e le fake news hanno dato filo da torcere ai giornalisti. Nel libro Media e guerra Philip Hammond parla di vulnerabilità, di crisi di significato, di azioni militari che diventano evento mediatico, di una propaganda che prende il sopravvento sulla strategia, del cinismo dei media, degli aiuti umanitari che possono trasformarsi in uno spot. D’altronde lo stesso Vance Packard con il suo I persuasori occulti pubblicato nel 1957 in piena “guerra fredda” mise in guardia da quella “alleanza sempre piú stretta tra analisi e pubblicità” che “minacciava subdolamente, ma scientificamente, la libertà d’opinione su qualsiasi argomento”. A chi toccava dunque il ruolo “da cane da guardia” in tutto questo? Ai giornalisti, come sempre. Oggi siamo di nuovo ai nastri di partenza. Anzi al #restart, alla ripartenza anche della professione giornalistica chiamata a entrare dentro una nuova mentalità: nel paradigma “fonti di tipo innovativo-open data-fact-checking”.

Se da una parte, infatti, gli strumenti hanno subìto un’accelerazione tecnologica, dall’altra i cronisti, gli inviati, i corrispondenti e i collaboratori delle testate giornalistiche locali e nazionali avranno il compito che sempre hanno avuto, cioè andare “a caccia di notizie”, alla ricerca delle fonti, di piste possibili per raccontare un fatto, un aspetto della realtà e della verità da far conoscere al pubblico. La “mission” è sempre la stessa. Quello che cambia sono gli strumenti: “La notizia impera indipendentemente da come la dai” diceva un vecchio cronista a chi scrive. Quel vecchio cronista era Igor Man e lo disse al termine di un convegno promosso a Roma dall’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Cei, nel febbraio del 2009, circa dieci mesi prima della sua scomparsa. Il titolo del convegno era ...soprattutto niente giornalisti e prendeva spunto da un libretto scritto da Jacques Derrida. "Il mestiere è facile, raccontare i fatti, la vita, la morte, ma oggi molti giornalisti sono impiegati della notizia" disse l’autore di Diario arabo e di decine di libri e centinaia di reportage pubblicata da La Stampa di Torino. Igor Man aveva ragione: il giornalismo è fatto da poche cose ma buone: spirito di osservazione, intuizione, fiuto, empatia, capacità di ascolto e di instaurare reti, relazioni e contatti, ma anche dall’impegno non facile di andare oltre i filtri posti da quelli che Claudio Fracassi, nel libro Sotto la notizia niente, definiva gatekeeper.

“Fare informazione oggi non è né facile né semplice” si sente dire sempre più spesso. Domanda: perché c’è mai stato un tempo in cui era facile e semplice? Lo è stato durante la Grande Guerra? Tra i contagi dell’epidemia di “spagnola” oppure sotto le bombe della Seconda guerra mondiale? Forse Ernest Hemingway, Giuseppe Ungaretti, Luigi Barzini, Floyd Gibbons e tanti altri che spedivano con non poche difficoltà le loro corrispondenze dalle trincee di quella “inutile strage” che fu il primo conflitto mondiale ebbero vita facile? Forse Rudyard Kipling cronista “embedded” al seguito degli alpini (La guerra nelle montagne, Ugo Mursia, 2011) trasmise le sue corrispondenze senza difficoltà? Eppure questi giornalisti, scrittori e reporter non diventarono mai pessimisti di fronte alla loro professione e davanti alle nuove tecnologie. Perché lo dovrebbero diventare i giornalisti di oggi? Non era solo una questione di predisposizione alle tecnologie “portatili” come nel caso delle prime Leica usate da Robert Capa per le sue corrispondenze dai fronti di guerra. I giornalisti lo erano prima e lo sono chiamati oggi a compiere un dovere per la propria testata e un servizio nei confronti del pubblico. Certo, dipende da come ci si vuole impegnare a svolgere la professione giornalistica, da “impiegati” per dirla alla Igor Man oppure da persone attive che contribuiscono in maniera collettiva dentro e fuori le redazioni, ciascuno con il proprio compito, a lavorare per un’informazione che prima di ogni cosa sia al servizio del cittadino.

I giornalisti che hanno raccontato la crisi economica del 1929 non erano molto differenti da quelli che il 15 settembre del 2008 registrarono il crash della banca Lehman Brothers che generò un crollo sistemico dell’economia mondiale. Magari avevano strumenti e tecnologie diverse, ma tutti erano in campo per fare il proprio mestiere tenendo ben presente il delicato ruolo rappresentato dall’informazione in quel preciso momento. Lo stesso vale per i cronisti che si trovarono a fronteggiare l’epidemia di “febbre spagnola” del 1918 e quelli che cento anni dopo stanno raccontando il mondo nei giorni del Covid-19. Sia gli uni che gli altri hanno contribuito a informare al meglio delle loro possibilità l’opinione pubblica con gli strumenti che avevano e che hanno a disposizione. Certamente i cronisti del 2021 non erano quelli del 1918. Questi ultimi non possedevano uno smartphone per inviare “i pezzi”, così come la rete wi-fi e Internet, non avevano i terminali con le agenzie di informazione e i circuiti internazionali che sfornavano quasi ogni minuto contenuti audio-video. I cronisti del 1918 non dovevano di certo fare i conti con la bulimia informativa in cui si trovano i cronisti del 2021. Nel 1918 c’erano altri problemi per l’informazione rispetto all’Infodemia (La parola infodemic è stata usata da David J. Rothkopf in un articolo del Washington Post dal titolo When the Buzz Bites Back dell’11 maggio 2003).

Oggi il vero rischio per l’informazione e il giornalismo è la capacità di verifica delle notizie e la competenze negli strumenti di fact-checking. Questo sarà nei prossimi anni il nodo da risolvere. E se maestri del giornalismo italiano come Dino Buzzati, Indro Montanelli, Paolo Monelli, Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano e Luigi Barzini jr si trovarono in difficoltà nell’esercitare la libertà di pensiero e di stampa per via della scure rappresentata dalla censura dei regimi totalitari, i giornalisti del futuro dovranno fare i conti con quello che negli Ottanta veniva definito infoglut (quantità eccessiva di informazioni) e che oggi con accezioni differenti è l’information overload (sovraccarico cognitivo). La sfida al giornalismo sono le “fonti multipiattaforma” e gli aggregatori automatici di notizie non sempre facili da verificare. Occorre essere preparati. Occorre maggiore formazione in questo campo e il Congresso Nazionale dell’Ucsi di settembre potrebbe essere un luogo di dialogo e confronto anche su questo. I mezzi di comunicazione sociale sono ormai integrati, convergenti, ibridi.

Per dirla alla Winston Churchill: “L’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità”. C’è da chiedersi quale strada si vuole intraprendere. Quella del pessimismo oppure un percorso diverso rivolto all’apertura verso nuove forme e nuovi linguaggi? Un’esperienza giornalistica da non dimenticare in questo anno di Covid-19 è senza dubbio quella che hanno compiuto i ragazzi del progetto #PratoMobile della Diocesi di Prato. In piena pandemia, in sicurezza, con i loro smartphone e le loro video-camere sono riusciti a raccontare il territorio. Il loro #restart è stato questo. Nessun circuito internazionale poteva “coprire” le loro storie, nessuna agenzia poteva dare notizia dei contesti da loro raccontati perché semplicemente sono scesi in strada e hanno “consumato la suola delle scarpe” come ha esortato a fare Papa Francesco. Non sono stati gli strumenti tecnologici a fare la differenza. Semmai gli smartphone e le video-camere, i social media e il web hanno fatto solo da supporto a un’attività tesa a produrre contenuti sotto forma di storie, interviste, approfondimenti e narrazione. In tal senso la pandemia ha aiutato il giornalismo a “uscire fuori”, ad essere resiliente.

E se Prato rappresenta un case history in Italia, a livello internazionale ProPubblica (un’organizzazione online a cui aderiscono circa 40 giornalisti che nel 2010 hanno vinto il Premio Pulitzer) ha fatto la differenza dimostrando che non esiste un giornalismo alternativo a un altro. Esiste il giornalismo e basta. Quello vero e autentico, quello che richiama la “sostenibilità etica”, quello che coniuga il “consumo della suola delle scarpe” al ticchettìo dei polpastrelli delle dita sulla tastiera dei pc, degli smartphone o dei tablet indipendentemente dal mezzo o dalla piattaforma su cui verrà pubblicato l’articolo, il servizio radio-televisivo oppure il post.

Ultima modifica: Sab 14 Ago 2021

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