Lo spirito di servizio, le Olimpiadi e Santa Chiara

(#restart-08) In questa strana estate - la seconda di inedita pandemia - che ci vede divisi tra smart working e timide riprese in presenza, fisiologiche pause di riposo condizionate dal pesante clima psicologico, più che meteorologico, e una necessaria, oltre che doverosa, (ri)organizzazione dell’arte di coltivare, da laici e da credenti, il principio speranza, il tanto atteso e da tutti auspicato “nuovo inizio” sembra, a prima vista, una meta sempre più lontana. Sfuggente. A tratti, quasi irraggiungibile. Da inseguire come certe prede artificiali lanciate sui tracciati circolari delle corse di velocità dei levrieri.

Ma la vita (come la nostra professione) non è una gara di velocità tra cani addestrati a chi arriva primo, “bruciando” gli altri. E non è nemmeno una questione di ruoli, carriere, poteri, poltrone, incarichi. Come la nostra Ucsi, è - soprattutto - una questione di (tenace) servizio. All’umanità, alla salvaguardia del creato, delle sue creature e dei loro diritti, troppo spesso ignorati, calpestati, annientati. Un servizio a quelli denominati, non a caso, beni comuni. Che sono innanzitutto il “capitale umano”: il valore delle relazioni, la cura (nel senso che la lingua inglese dà al to care) di ciò e di chi è più fragile, vulnerabile, marginalizzato. Come, in generale, i bambini, per qualcuno “agenti del cambiamento”, o gli anziani, sempre più soli, o le donne, in troppi casi ancora vittime della violenza misogina di un patriarcato obsoleto eppure duro a morire.

Persino le 40 medaglie italiane delle Olimpiadi di Tokyo 2021 lo hanno confermato: con lo spirito di sacrificio, la capacità di rialzarsi dopo le cadute, la solidarietà fraterna e i forti legami familiari, amichevoli e comunitari mostrati dai nostri atleti, giovani donne e uomini parimenti fieri, ciascuno, di essere giunti sull’agognato podio non importa se al primo, al secondo o al terzo posto. Perché la vita, semmai (e il nostro mestiere di raccontarla) è allora una sfida di resistenza (o resilienza, per usare un termine divenuto tanto di moda da imperversare, fino ad essere ormai ab/usato anche nel Piano Nazionale di Ripresa). O una maratona, per rimanere nella metafora sportiva: intesa nel senso di un lungo e faticoso cammino (individuale e collettivo) che richiede duro allenamento per arrivare soltanto perseverando al traguardo.

Meta finale coincidente, in chi crede, con la “buona battaglia” testimoniata da San Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (2 Timoteo 4, 7-9).

Bene fa, allora, il nostro caro Antonello Riccelli a pungolarci come comunità Ucsi per portare liberamente, su questo sito che giustamente definisce il nostro “aggregatore di esperienze”, una piccola testimonianza/riflessione nell’ottica della nostra attività quotidiana, e della sua sempre più minacciata “sostenibilità etica” in un dopo-Covid che ha già messo a dura prova la categoria professionale dei comunicatori sociali segnata pesantemente, soprattutto nei più giovani, dalla precarietà, dallo sfruttamento, dalla difficile indipendenza che minano la serenità di un lavoro ben fatto, e di conseguenza l’autorevolezza e la credibilità di un delicato impegno di mediazione nell’era biomediatica della disintermediazione digitale.

E allora, in questa complicata estate di un cambiamento d’epoca, più che di un’epoca di cambiamenti (per usare le appropriate parole di papa Francesco), vale la pena fermarsi seriamente, cogliendo la breve pausa estiva come un’occasione di “deserto”, ovvero di ascolto interiore, per (ri)trovare le energie necessarie ad affrontare tutte le svolte che ci attendono: da fronteggiare con una riscoperta dell’apparentemente inattuale elogio della lentezza, che può cozzare con la logica distruttiva modellata su un turbo capitalismo sfrenato che ha già rivelato, ben prima della crisi pandemica, tutte le sue falle. Sin dal 2008.

La storia che vorrei portare in conclusione come esempio di riflessione, in quest’ottica, non è tratta dalla cronaca né dall’attualità, ma da un remoto e leggendario episodio medievale che ha portato, secondo la tradizione, Santa Chiara di Assisi, che si festeggia l’11 agosto, a diventare la Patrona della televisione e delle telecomunicazioni. Negli ultimi anni di vita, la santa, malata, era spesso costretta a letto nella sua cella. Una sera, la notte di Natale, la Santa non potè recarsi nella chiesa del convento da lei fondato ad Assisi su impulso di San Francesco e perciò si mise a pregare intensamente il Bambino Gesù, addolorata di non poter stare vicino alla sua comunità in quel giorno sacro.

Ma quando le altre consorelle tornarono dalla loro fondatrice, Santa Chiara raccontò loro in dettaglio quanto era successo durante la celebrazione: e alle stupite religiose spiegò che Dio le aveva concesso la grazia di vedere proiettate, sulle pareti della sua cella, le scene della cerimonia nello stesso istante in cui esse si svolgevano nella cappella: «Per intercessione di mio padre San Francesco – il racconto di Chiara – e per la grazia del mio Signore Gesù Cristo ero presente in chiesa e ho sentito con le mie orecchie spirituali e corporali tutto il canto e la musica dell’organo, e ho perfino ricevuto la Santa Comunione. Rallegratevi, allora, e ringraziate Dio per questa grazia così grande che mi ha fatto».

Il prodigio mistico si ripeté ancora: in occasione della morte del Poverello d’Assisi, lo stesso dono di grazia fece infatti assistere Chiara “a distanza” ai riti funebri del suo fratello in Cristo, Francesco. La Santa - alla quale il socio Ucsi Paolo Scandaletti ha dedicato un bel saggio storico, Chiara d’Assisi, edito da Mondadori - si spense l’11 agosto del 1253 e fu canonizzata due anni dopo, da Papa Alessandro IV. Soltanto il 14 febbraio del 1958, si dice su suggerimento del regista laico Ugo Gregoretti (colpito dall’episodio della prima ”trasmissione televisiva” di una messa narrato nei Fioretti), Papa Pio XII la dichiarò patrona della televisione e delle telecomunicazioni. Che, oggi come allora, hanno bisogno di parole (e immagini) autentiche: meditate e nate dal silenzio. Supportate dalla forza debole della preghiera. E condivise, nel racconto della realtà, in una coesione comunitaria capace di guardare con fiducia e mite determinazione all’impossibile possibilità della speranza.

Ultima modifica: Dom 22 Ago 2021