Giornalisti alla ricerca della fiducia tra la gente

All'indomani del la decisione di assegnare il Nobel per la Pace a due giornlisti, c'è un altro dato che mostra come il giornalismo stia recuperando un po' di quella fiducia persa nel tempo. Oggi, nella nostra rubrica #deskdelladomenica, offriamo un interessante contributo che Federico Badaloni aveva scritto per la nostra rivista Desk poche settimane prima drlla pandemia. Anche oggi però, come allora, il tema della 'fiducia' tra giornalisti e cittadini è centrale nel dibattito sulla nostra professione (ar)

 Federico Badaloni (2019)

Ivan e Domenico sono due amici a cui voglio molto bene. Ivan è vicino ai quarant’anni, Domenico ai cinquanta. Sono laureati. Curiosi. Leggono molto. Sono persone attente agli altri. Fanno volontariato. Si impegnano per migliorare i luoghi in cui vivono. Hanno un lavoro di responsabilità in una grande azienda e lo fanno con dedizione.

Recentemente, mentre prendevamo un caffè al bar, mi hanno detto che da qualche anno evitano intenzionalmente di leggere quotidiani e vedere telegiornali. Poi, di fronte al mio stupore, quasi all’unisono hanno aggiunto: «la qualità della mia vita è salita moltissimo». Attenzione. Ivan e Domenico, il bisogno di informarsi lo sentono. Ma hanno deciso di evitare le notizie di giornali e telegiornali.

Inizialmente ho pensato che i miei amici rappresentassero un caso isolato. Per verificarlo, ho ripreso in mano il report del Reuter Institute for the study of Journalism del 2019 e ho potuto constatare che in Italia le persone come Ivan e Domenico sono oggi il trentasei per cento della popolazione.
In questo report sono riportati anche i motivi che spingono Ivan e Domenico a fare questa scelta. Sono due: le notizie li rendono più tristi e li fanno sentire impotenti. Ma alla tristezza e all’impotenza, per quasi la

metà degli italiani si aggiunge il risentimento: il trentanove per cento sostiene infatti che i media diano un taglio troppo tragico agli eventi, cioè che drammatizzino eccessivamente le notizie negative e che non diano importanza e spazio sufficiente anche alle notizie positive.

La speranza è un diritto

Queste considerazioni dovrebbero farci riflettere su quanto sentiamo forte il bisogno di avere speranza. Nel profondo di noi stessi sappiamo che la speranza è un diritto. Perché sappiamo che senza la speranza in un domani migliore non riusciremmo a vivere. Ciò da cui fugge il trentasei per cento degli italiani è dunque la disperazione. E queste persone sono convinte che essa sia esacerbata ad arte da noi giornalisti.
Più in generale, sono il cinquantadue per cento coloro che affermano di non essere in grado di distinguere le notizie vere da quelle false. Ma è ben il sessanta per cento degli italiani a giudicare inaffidabili le notizie in circolazione nel nostro Paese.
Il problema più grande, che stiamo vivendo oggi nel giornalismo, dunque riguarda la fiducia. È la fiducia, non l’informazione, la vera risorsa critica oggi. Scarseggia perché è un bene difficile da conquistare e facile da perdere.

Il giornalismo e il potere

Diverse ricerche compiute (fra cui quella dell’EldemanTrust Barometer) hanno dimostrato che dal 2018 il calo di fiducia nel lavoro giornalistico ha avuto un impatto misurabile in modo diretto sui ricavi. Alcuni potranno arguire, che in molti casi è proprio la crisi del modello di business ad alimentare comportamenti come il clickbait o a spingere a produrre una grande quantità di notizie scritte male e verificate peggio, piuttosto che scrivere meno contenuti, ma di alta qualità giornalistica e ben verificati. Tutto questo sarebbe dunque una reazione alla necessità di trovare ad ogni costo forme di sostentamento economico del giornalismo. Personalmente ho qualche dubbio, perché da un punto di vista storico il fenomeno della crisi di fiducia nei confronti del giornalismo in Italia ha radici antiche.

In questo contesto, però, il dato più rilevante è che solamente un italiano su tre ritiene che i media si curino di fare le pulci ai poteri economici e politici e che costringano le persone che ne fanno parte a rispondere delle proprie azioni. A me questa percentuale gela il sangue. Se il giornalismo non svolge questa funzione, cos’altro fa? Quale valore ha per la nostra democrazia? Se provate il mio stesso sconcerto, sappiate che apparteniamo a una minoranza: siamo il quarantaquattro per cento dei giornalisti italiani. In altri termini, stiamo dicendo che il giornalismo non è percepito come importante per la tutela del sistema democratico né dalla maggioranza della popolazione, né da noi giornalisti.

La fuga nei social media

Oltre al problema della fiducia nel nostro lavoro, e della sua efficacia, abbiamo anche un problema di identità. In questa situazione, coloro che si disperano di più sono proprio le persone come Ivan e Domenico, perché un giornalismo che non vuole migliorare il Paese fa disperare di più proprio coloro che lo vorrebbero migliore. Non è strano dunque che le persone cerchino altri luoghi per ricevere, diffondere e dibattere sulle notizie. E i luoghi più prossimi sono i servizi di messaggistica privata, come Whatsapp per intenderci. In Paesi come il Brasile (53%), la Malesia (50%) e il Sud Africa (49%) essi sono addirittura diventati lo strumento principale utilizzato per diffondere notizie e discuterne. Ma questi strumenti, o ancor di più i social network come Facebook o Twitter, non sono costruiti per favorire un dibattito equidistante, costruttivo e basato sui fatti.

È dunque da tenere d’occhio l’esperimento che sta conducendo Jimmi Wales, fondatore di Wikipedia, con il social network chiamato “WT Social” (che sta per Wiki Tribune Social). Nella homepage di WT Social leggiamo: «le notizie false (fake news) hanno influenzato eventi globali e gli algoritmi [dei social media] sono fatti solo per produrre engagement e creare una dipendenza delle persone dalle piattaforme. WikiTribune vuole essere diverso. Noi non venderemo mai i tuoi dati. La nostra piattaforma sopravvive sulla generosità dei donatori individuali, che rendono possibile proteggere la tua privacy e tenere questo spazio sociale privo di pubblicità».

A proposito di social media, i ricercatori dell’Università di Oxford Richard Flethcer e Sora Park hanno condotto uno studio per capire come si informano le persone che hanno perso la fiducia nei media mainstream. In estrema sintesi, hanno da un lato trovato conferma di questa tendenza a preferire le notizie che si trovano su Facebook, Twitter, i blog e le testate native digitali, ma hanno anche visto che sono proprio queste persone le più propense a mettersi in gioco in varie forme di partecipazione alle news online. Le motivazioni? Cercare punti di vista alternativi e cercare di valutare autonomamente la credibilità di una notizia.
Ora forse capiamo un po’ meglio chi sono Ivan e Domenico: non ce l’hanno col mondo, non vivono in un universo parallelo fatto di bit, non ce l’hanno con noi giornalisti. Ce l’hanno col nostro modo di fare.

Se i giornalisti scelgono la trasparenza

Forse qualcuno si starà domandando perché io, che sono sì un giornalista, ma sono un architetto dell’informazione e progetto siti e applicazioni, vi parlo di queste cose. Perché dal mio punto di vista la fiducia si può progettare. Ma questo può avvenire ad una condizione: che i giornalisti, gli ambienti informativi dove il giornalismo avviene e i lettori, collaborino.

Partiamo dai giornalisti. In che modo dovrebbero collaborare? In primo luogo, mettendo la propria cucina in vista. Come un ristorante che voglia fare di tutto per far dimenticare ai clienti di avere avuto un’invasione di blatte nella scorsa stagione. La metafora vuol dire che dobbiamo ritrovare la nostra identità nei processi che trasformano quel che facciamo in atti di giornalismo e rendere questi processi manifesti per le persone a cui ci rivolgiamo.

In pratica, significa spiegare il modo in cui abbiamo verificato una notizia e il metodo che adottiamo in generale nella nostra testata; le fonti che abbiamo usato e la politica che adottiamo rispetto ad esse; il modo in cui – chi lo desidera – può parlare con noi o con altre persone di ciò che abbiamo pubblicato e le regole generali che abbiamo intenzione di adottare nel dialogo sul nostro sito; gli aggiornamenti e le correzioni che abbiamo apportato al contenuto nel corso del tempo, e la nostra politica generale rispetto a queste attività. Essere trasparenti significa anche rendere manifesti i propri obiettivi, i propri valori, il modo in cui il nostro giornalismo si sostenta, il modo in cui siamo organizzati.

Rendere trasparente il processo di verifica che abbiamo seguito e mettere a disposizione di tutti i documenti su cui abbiamo basato le nostre conclusioni, gli aggiornamenti e le correzioni farà capire ad Ivan e Domenico che vogliamo meritare la loro fiducia. Rendere loro possibile interagire con noi e spiegare loro con quali regole intendiamo che questo avvenga, gli darà la misura di quanto teniamo al loro giudizio.
È nella trasparenza che dobbiamo renderci essenziali. Per dirla con Mario Tedeschini Lalli, dobbiamo dare ai nostri lettori una ragione valida per usarci. Non siamo più inevitabili, anzi. Le notizie si trovano ovunque ed è facilissimo ottenerle: possiamo essere evitati. Dobbiamo allora diventare essenziali.

Se costruiamo ambienti dove sia possibile fare insieme

Noi architetti dell’informazione chiamiamo “ambienti informativi” siti, applicazioni, intranet, sistemi editoriali, ma anche posti, sia fisici che digitali, come un centro informazioni o un punto vendita, dove le persone possono incontrare, ricercare, interagire con informazioni. Ebbene, anche gli ambienti informativi possono “collaborare” con i giornalisti e le persone a cui il lavoro giornalistico è destinato. Per farlo, essi devono essere progettati per fare in modo di favorire un flusso circolare di valore reciproco.
È proprio grazie ad un servizio che permette di costruire qualcosa di buono insieme, che si impara a fidarsi gli uni degli altri. Un anno fa abbiamo riprogettato il sito di Le Scienze, edizione italiana di Scientific American, perché avevamo la necessità di sostenere economicamente questa testata non più grazie alla pubblicità, ma alla sottoscrizione di abbonamenti. Per capire come avremmo potuto fare per aumentare la fiducia delle persone nei confronti della testata, glielo abbiamo chiesto. Abbiamo pubblicato un questionario sul sito e più di duemila persone hanno accettato di partecipare. Ecco le risposte:

● 88% trovare un link alla fonte
● 67% link alla biografia dell’autore
● 43% la correttezza della lingua (assenza refusi, eccetera)
● 17% trovare riscontri nell’esperienza diretta
● 11,8% il giudizio positivo sulla forma grafica
● 7,4% avere la possibilità di inviare segnalazioni e trovare correzioni e aggiornamenti

È stato interessante per noi notare, quanto questo sondaggio confermasse sia i dati che la letteratura riporta ormai da molti anni, sia le raccomandazioni che sono alla base del Trust Project: un consorzio internazionale di editori, testate giornalistiche, motori di ricerca (fra cui Google) e piattaforme di social media (fra cui Facebook), fondato ed animato dalla giornalista Sally Lehrman. Tutte queste persone hanno collaborato per definire degli “indicatori” che potessero essere garanzia di affidabilità di una notizia. In generale, questi indicatori sono stati trovati nel far capire alle persone chi è il giornalista autore di un contenuto, il metodo con il quale lavora, i valori a cui si ispira la sua testata. La presenza di questi indicatori all’interno di un contenuto lo rende trusted, cioè degno del marchio di fiducia del consorzio. A questi contenuti viene data maggiore visibilità da parte dei motori di ricerca e dei social media che aderiscono al progetto. Più nel dettaglio, se volete aderire al Trust Project nel sito della vostra testata, devono essere presenti e facilmente raggiungibili:

● le biografie dei giornalisti
● le indicazioni circa la natura giornalistica di un contenuto (si tratta di una notizia? di un commento? di un’analisi? di un’opinione? si tratta di satira?)
● il codice etico che la testata si dà
● correction policy and practice
● indicazioni su come è organizzata la società che sovvenziona la testata
● indicazioni su come è organizzata la redazione
● indicazioni che rendano trasparente alle persone il modo in cui la testata si sovvenziona
● trasparenza sulla mission, sull’agenda e sulle priorità
● trasparenza sul processo di verifica e factcheck delle notizie

Essere trasparenti significa rendere palese la logica con cui sono stati definiti gli algoritmi. Un algoritmo descrive la sequenza di operazioni che il sistema deve compiere per produrre un certo risultato. È un algoritmo quello che vi mostra in automatico i contenuti correlati a ciò che state leggendo, così come quello che vi suggerisce persone a cui potreste aver voglia di connettervi. Alcuni algoritmi, per esempio quelli di Google o Facebook, sono come la formula della Coca-Cola: rendere manifesto il modo in cui sono composti, significherebbe mettere a rischio la sopravvivenza stessa delle aziende che li utilizzano. Ma nel campo editoriale siamo ancora molto lontani da questa situazione, se mai ci arriveremo. È importante dichiarare la logica degli algoritmi, perché una persona che sa come sta “ragionando” una macchina, può decidere di fidarsi o meno di essa, e delle persone che l’hanno prodotta.

Dobbiamo costruire ambienti, che premino chi interagisce in modo virtuoso con pari o maggiore vigore di quanto sanzionino chi fa solamente rumore o, peggio, diffonde falsità o sentimenti d’odio. Dobbiamo costruire ambienti che rendano le persone parte di qualcosa che possiamo definire un nuovo “noi”. Un lettore-collaborante non è un “abbonato”. È un compagno di viaggio, è parte della medesima comunità di cui fanno parte i giornalisti.

Dobbiamo avere ambienti informativi che favoriscano la nascita di flussi di conoscenza e abilitino le persone a parteciparvi. I giornalisti possono avere un ruolo preziosissimo nel generare, alimentare e sostenere questi flussi. E possono trarne valore a loro volta. Per loro stessi e per la loro testata.
Dobbiamo dunque costruire ambienti dove sia possibile – e facile – fare insieme, pianificare insieme. Ricercare. Costruire “cose utili” con il contributo di tutti: eventi, inchieste, petizioni, dibattiti. Controllare i fatti. In sostanza, dobbiamo passare da ambienti informativi come quelli dei mass-media, strutturalmente connotati dallo sbilanciamento assoluto di possibilità offerte all’emittente rispetto al ricevente, ad ambienti basati su reti, dove ogni nodo abbia anche la possibilità di interagire con gli altri secondo regole chiare a tutti.
È notizia di questi giorni il fatto che al “New York Time”s è sceso drammaticamente il fatturato pubblicitario, ma per loro abilità è cresciuto ancora il numero di abbonati digitali (ora sono oltre quattro milioni di persone). I loro conti sono a posto per questa ragione.

La relazione diretta con le persone deve portarci a costruire ambienti polimorfi. Dove il contenuto possa adattarsi ai diversi tempi e spazi di fruizione. Dobbiamo progettare il contenuto in modo che sia strutturalmente separato dalle sue possibili rappresentazioni e declinazioni. Queste declinazioni possono essere forme mediali molto diverse fra loro: ad esempio, in Italia il trenta per cento delle persone fa uso costante di podcast. L’anno scorso, avendo osservato questa tendenza, nel progettare la sezione a pagamento di Repubblica.it (Rep:), abbiamo per la prima volta definito un flusso di produzione che contemplasse una versione ascoltabile per ogni articolo.

Se vogliamo che le persone tornino frequentemente ad informarsi, dobbiamo moltiplicare i punti di contatto, che possiamo offrire loro per interagire con noi. Si tratta di un aspetto cruciale, se pensiamo che oggi la maggior parte di coloro che usa siti di news li consulta meno di una volta alla settimana, ma la probabilità che una persona sottoscriva un programma di membership comincia a concretizzarsi superata la soglia degli otto contenuti fruiti al mese.

Se le persone tornano a darci fiducia

Se avremo dato loro la possibilità di valutare la nostra aderenza ai valori e alle prassi che dichiariamo di seguire, se avremo dato loro prova dell’efficacia del nostro lavoro e della nostra volontà di collaborare, le persone saranno disposte a fidarsi. Fidarsi nel lasciarci i loro dati. Nel condividere le loro conoscenze, nel dedicarci il loro tempo. Questo è il valore che le persone ci portano in dote. Noi dobbiamo rispondere restituendo loro speranza, dando loro fiducia e unendo il nostro tempo, la nostra conoscenza e i nostri dati ai loro. Noi stessi dovremo avere fiducia che questa collaborazione possa lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato.
Sono sicuro che Ivan e Domenico non vedono l’ora che tutto questo accada.

Ultima modifica: Dom 10 Ott 2021