Con occhi di poeta

È morta in queste ore la poetessa e docente universitaria Biancamaria Frabotta. Aveva 76 anni. Con lei c’era stato un bel dialogo pubblicato nel 2017 sulla nostra rivista Desk. Lo riportiamo integralmente.

La poesia è felicità (2017)

Un colloquio con Biancamaria Frabotta

«Comprendere le metafore»... da poeta, ne condividi l’importanza?

Probabilmente è vero che questi benefici effetti (ma non solo questi) sono dati dalla comprensione della metafora, perché la poesia pensa in modo diverso, in modo obliquo. Bisogna però tenere presente che la poesia stessa è metafora di un altro modo di conoscere, di un processo di conoscenza di altro tipo, e in questo senso è una metafora un po’ misteriosa.

Cosa ti viene in mente pensando a quella capacità della poesia di spalancare visioni ampie anche in spazi ristretti?

Per “spazi ristretti” mi vengono in mente luoghi di clausura, carceri, lager... penso che anche questo può succedere. Ne Il libro degli Allievi, Irene Teodori parla di una lettura delle poesie di Pessoa a carcerati che non hanno mai letto poesia, e di come dopo le sue letture in italiano e portoghese si sono messi a piangere tutti, scoprendo un modo poetico di conoscere e conoscersi, «affacciandosi su un mondo di cui mai avrebbero sospettato l’esistenza» (Il libro degli allievi per Biancamaria Frabotta, Bulzoni editore, 2016, pp 165- 166).

Avere visioni ampie in spazi ristretti può anche significare percorrere un cortile scorgendo una prateria. Nel libro che hai citato, Mario De Santis ricorda una tua frase: «si resta poeti anche quando non si scrive». Chi è il poeta?

È difficile dire chi è il poeta, perché ci sono tanti tipi di poeta. Però, posso dire che si è poeti anche quando non si scrive. Solo, si è poeti, e quindi si resta poeti, perché la poesia è linguaggio. L’ho sempre concepita così. La si può trovare dentro di sé, come un modo di guardarsi dentro, come introspezione,anche estraniandosi dal mondo. Oppure, la poesia è uno sguardo sul mondo, e viene dal mondo. Perché la poeticità sta un po’ ovunque, però ci vuole il radar del poeta per captarla.

Che c’è nell’occhio del poeta che lui vede e gli altri no, che c’è nel suo linguaggio, che solo lui può esprimere e gli altri no?

Tu vuoi come svelare il gioco, il segreto della poesia. La poesia è un po’ misteriosa, senza volerla sacralizzare, ha qualcosa che non è spiegabile fino in fondo, quel quid ... Spesso ho detto ai miei studenti che se volevano capire se erano più portati per il romanzo, per il racconto o per la poesia, potevano fare un piccolo esercizio: «uscite dall’aula, e chi ricorderà quante persone c’erano, come erano vestite, che movimenti facevano, sarà un narratore. Chi non ricorderà niente ma avrà colto l’anima di quel luogo e dello stare insieme in quell’aula, sarà un poeta». Anche questa è una metafora. L’occhio del poeta, della realtà può cogliere anche un piccolo dettaglio, ma non coglie quel tanto che è necessario per dare una descrizione realistica. Magari coglie solo un dettaglio, e in quel dettaglio c’è tutto: c’è l’anima di una situazione, di una persona, di un luogo, di un linguaggio. Siccome non so assolutamente cosa significhi anima, so che sicuramente non è la psiche. Ma non so cos’è. Allora dico che è qualcosa di misterioso.

Che realtà e che umanità vedi rappresentate oggi attraverso l’informazione? C’è qualche buona notizia che recentemente ti ha colpita?

La prima cosa che vedo è un’immagine. La parola, ciò che viene detto, quello che purtroppo voi giornalisti chiamate il racconto è qualche cosa che vede dopo. L’immagine, e penso anche all’immagine della persona che è lì e che parla, può anche distrarre... C’è una specie di dominio dell’immagine, e il poeta potrebbe anche limitarsi a questo, all’immagine del giornalista...Per arrivare all’umanità, ci sono vari gradini intermedi... Buona notizia, non me ne viene in mente una. Potrei dire che l’Isis è sconfitto, ma quella buona notizia è dentro qualcosa di efferato che è la guerra. E del resto Tolstoj, all’inizio di Anna Karenina,dice che i matrimoni felici non fanno storia... non c’è niente da raccontare.

Perché non ti piace il termine “racconto”, che nel linguaggio giornalistico è usato molto?

Perché il racconto presuppone una grande soggettività nel punto di vista che voi scegliete, è originariamente un genere letterario che presuppone che si racconti qualcosa anche con quel po’ di invenzione, se capita, con un po’ di fantasia, con un po’ di immaginazione.... Che voi giornalisti sappiate raccontare bene o male una cosa non è tutto, non è la cosa importante per sapere quello che realmente è accaduto. Il termine corretto sarebbe reportage, o cronaca, che è molto diverso dal racconto. Fiumi di informazioni, fiumi di immagini che ci aggrediscono ogni giorno, necessitano di qualcuno che deve fare nessi e collegamenti, se no sarebbe un’informazione schizoide, priva di nessi. Si è cominciato a parlare di racconto quando si è cominciato a dire che non c’era più ideologia, che c’era la crisi dell’ideologia, e si è sostituito al punto di vista garantito da una certa ideologia, il “racconto”. Si dice che la storia è racconto: “il grande racconto della storia”... Questo mi dà un po’ il mal di mare. O alle parole va restituito il loro significato corretto oppure, se si è cambiato un significato, bisogna averne coscienza.

Qual è lo stato di salute della nostra lingua, e quello del linguaggio giornalistico?

Non necessariamente un buono stato della lingua è una garanzia perché nasca la poesia, perché la lingua poetica, essendo una metafora anche del linguaggio, è una continua trasgressione anche del linguaggio della comunicazione. Anche quando fa finta di comunicare, in realtà allude ad altro e quindi può usare linguaggi di vario genere, anche linguaggi degradati. La cosa più pura di poesia che ho visto è il film Paterson, di Jim Jarmusch, un film straordinario in cui un autista di autobus, una persona del tutto ordinaria, scrive poesie con il suo blocchetto, e non fa altro che questo. Non è un film sulla poesia ma un film “di” poesia, perché la poesia può nascere in qualsiasi situazione e con qualsiasi linguaggio.

Quello che temo di più è un buono stato della lingua come lingua media, come lingua comune che serve per comunicare ma diventa banalizzante quando perme l’accesso alla poesia di tantissime persone. Dal punto di vista giornalistico seguo cose selezionate ma mediamente trovo che ci sia un buono livello nell’uso del linguaggio, anche se noto una grande ripetitività.

Sei tra i 600 docenti che hanno firmato una lettera d’allarme sulla lingua. Che cosa ti preoccupa?

Quello che mi preoccupa da circa 10 anni a questa parte è che, correggendo le tesi, si passa molto tempo a correggere errori di sintassi e di grammatica, e non mi riferisco a studenti stranieri, ma anche a quelli che vengono dai licei. Non voglio dare colpe ma è un dato di fatto, e la cosa è andata di pari passo con gravi difetti cognitivi, con una capacità zero di fare collegamenti. Nessuno insegna ai ragazzi come vanno usati strumenti straordinari come smartphone, social, internet. Sono sommersi da un mare di chiacchiere, hanno enciclopedie digitali a disposizione ma non riescono assolutamente a distinguere quello che è importante e quello che non lo è, e poi a fare collegamenti. Il degrado è linguistico, cognitivo ed anche etico, perché porta a un’afasia morale, disinteresse e apatia. La burocratizzazione dell’università.

Hai da poco concluso una lunga carriera accademica. La tua ultima lezione è stata pubblicata nel Libro degli allievi, qui già citato, omaggio di diverse generazioni di studenti...

Ci sono omaggi accademici, ma non libri così. Mi ha colpita la purezza degli intenti e la gratuità. Chi ha scritto, o aveva già fatto la sua strada o, nel caso dei giovanissimi, sapeva che io ero in uscita. Un dono gratuito, dunque, e un libro scritto benissimo, che regala pezzi di scrittura di primo livello anche da parte di chi fa mestieri che non hanno a che fare con la scrittura... è la creazione di un genere letterario. Per quanto mi riguarda, è uno specchio. Mi ha dato molta forza, non tanto perché “gratificante” ma perché ogni pezzo ha un punto di vista, e vi ho colto un’identità mia che non ho mai vissuto come identità, ma piuttosto come spaccatura, come scissione, come pezzi di me che mi venivano riconosciuti dall’esterno. Ero una femminista, scrivevo di donne, ero stravagante, venivo dal ’68. O ero poeta, ma fuori dell’università: dentro l’università non ero un poeta, quello sembrava un hobby. Eppure, attraverso il passaparola c’era una recettività che gli intellettuali che erano intorno a me non avevano. Questo libro mi ha restituito un senso di pienezza e di serenità.

Ti cito: «il vero poeta conosce il segreto del cuore altrui oltre che del proprio». Come fa?

Questo non è sempre vero. Il poeta, tanto meno è riconosciuto in quanto poeta, tanto più tende a chiudersi. Molti poeti sono diffidenti, non hanno socialità, si chiudono. Quanto a me, sono stata salvata dall’insegnamento, ma spesso l’atteggiamento è “non mi capite, non mi meritate”. Perché il poeta sa se è poeta.

Come lo scopre?

È una mania, una forma maniacale. Oggi posso dire che se sentissi che la poesia mi toglie la vita,rinuncerei alla poesia. Ma lo dico adesso. Tutta la mia vita non è stata così. È un tarlo, qualche cosa che ti trascina, ti muove le cose più segrete, viene fuori così, come un’eruzione. Per alcuni è anche un’ossessione, che fa molto soffrire, però c’è anche una forma di piacere molto forte. Questa è una lezione che mi ha dato Moravia. Avevo 23 anni e gli chiesi: «come faccio a riconoscere se sono poeta?», e lui mi chiese: «Ma tu che cosa provi quando scrivi?» Mi sembrò una domanda trabocchetto e risposi: «soffro». La risposta fu netta: «allora smetti subito, per favore!». È così. Pasternak, in pieno stalinismo, diceva che «la poesia è felicità». Senza felicità non c’è poesia, ma la felicità è circoscritta a questo momento creativo. Quando non puoi smettere di pensarci. Per arrivare alla felicità devi attraversare delle prove e non sempre si ha la forza morale. Molti abbandonano. E poi c’è un certo modo un po’ obliquo di essere nel mondo. Però con leggerezza.

Ultima modifica: Mar 3 Mag 2022