Come Amedeo Ricucci voleva raccontare le migrazioni

È stato uno degli inviati più attenti e apprezzati della Rai, Amedeo Ricucci. E’ morto in queste ore a soli 63 anni, dopo una malattia. Aveva raccontato tutti i più grandi conflitti degli ultimi anni e in Siria, nel 2013, e ra stato anche rapito. Alla fine del 2017 aveva rilasciato a Rosa Maria Serrao, per la nostra rivista Desk, questa bella intervista sul tema dell’immigrazione che adesso vi riproponiamo (ar)

Rosa Maria Serrao (2017)

È possibile un’altra informazione oltre certa cronaca dura sul tema dell’immigrazione?

Certo che è possibile. La narrativa media mainstream sviluppata sulle migrazioni è una narrativa emergenziale, da ordine pubblico, che di fatto è succube delle politiche governative, in Italia e in Europa in generale. Partiamo da un momento importante, che è stato l’agosto 2015, quando si è aperta prepotentemente la rotta balcanica. Qual è l’immagine che tutti hanno in mente? È l’immagine di un giornalista che sta con un microfono in mano, parlo ovviamente del giornalista televisivo ma vale anche per i giornalisti della carta stampata, che sta in primo piano, si fa inquadrare mentre parla e dietro alle sue spalle c’è un fiume di migranti che dalle coste turche, attraverso i porti della Grecia, corre verso il centro Europa.

Qual è la notizia? A fare notizia sono i muri: quello dell’Ungheria in primo luogo, quello della Croazia, il muro della Slovenia e via via tutti gli altri muri che sono stati messi in piedi. Il fenomeno migratorio è ridotto a un fiume. Non dimentichiamo che sono i giornalisti a parlare dei migranti. Ogni tanto ascoltiamo un’intervista a un migrante che ci racconta di scappare dalla guerra. Ma le ragioni di questo flusso migratorio improvviso non sono state all’epoca spiegate.

In quale sfondo si collocano i tuoi recenti servizi o approfondimenti sull’esodo dei popoli?

A fine agosto del 2015 mi sono detto che forse, facendo il viaggio che fanno i migranti, avremmo potuto capire se c’era la possibilità di raccontare diversamente questo flusso. Per questo sono andato sulle coste turche e ho fatto il viaggio con loro sui gommoni. Per 20 giorni sono stato con un gruppo di siriani che avevo atteso sulle coste turche e con loro sono arrivato fino a Vienna. Con me c’erano anche l’operatore e una mia amica traduttrice. Abbiamo realizzato un reportage dal titolo “La lunga marcia”, che è stato premiato a livello internazionale perché fu uno dei pochi reportage che si calava all’interno di questo fiume di profughi. Dal servizio venivano fuori degli sprazzi di conoscenza nuovi e interessanti. La cosa che più ricordo e che mi colpì fortemente era la risposta che questo dossier dava alle persone che dal salotto di casa giudicavano i profughi perché tutti avevano il cellulare in mano. In quel reportage si faceva capire che il telefonino era uno strumento fondamentale del viaggio. Attraverso le chat, infatti, i migranti riuscivano a capire quali erano i varchi di frontiera aperti e quali invece erano stati chiusi. Con il telefonino riuscivamo a restare in contatto sia con i familiari che magari erano già arrivati nei Paesi del centro o del nord Europa sia con quelli che invece erano rimasti in Turchia, se non addirittura in Siria. In più il telefonino aveva una funzione essenziale: quel viaggio non era facile. Lunghe marce di decine di chilometri a piedi, ogni giorno sotto il sole, in condizioni scomodissime, il telefonino serviva per guardarsi le foto dei familiari, rappresentava un motivo fondamentale per rincuorarsi e andare avanti.

Tutto questo è stato possibile perché abbiamo vissuto in mezzo a un fiume di profughi che gli stati europei hanno provato a indirizzare su strade secondarie in modo che diventassero meno visibili, li hanno esposti il meno possibile alle popolazioni dei rispettivi Paesi che avevano un approccio diffidente, anzi apertamente ostile. I media non sono riusciti in gran parte a intercettare quello che stava succedendo. Quello che è rimasto nell’immaginario e nella memoria sono i muri, l’Ungheria e la giornalista ungherese che fa lo sgambetto ai profughi. Sono rimaste le file chilometriche nelle pianure sterminate ma poca capacità di capire quei fenomeni.

Quanto ha peso la cultura professionale per chi si occupa di migrazione?

Una buona parte di responsabilità va alla macchina dei media, che è una macchina che ormai macina notizie come se fossero merci e, quindi, richiede una velocità di produrre news che stritola la capacità di comprensione e di racconto dei singoli giornalisti. La macchina dei media vuole immagini forti. Tutto ciò pregiudica la comprensione dei fenomeni in generale, che invece vanno affrontati con i tempi giusti e con i racconti giusti.

È ovvio che a un giornalista giovane che si ritrova al confine serbo-ungherese, nell’agosto settembre del 2015, si chieda di raccontare il muro, perché quelle sono le notizie, quella è la regola dei media. Comunque, c’è una responsabilità della macchina dei media. I caporedattori non decidono certo in base all’interesse delle storie di un inviato ma decidono in base a una scaletta che viene decisa su quello che c’è in giro. Se c’è un reportage di due pagine su Repubblica che riguarda i bambini siriani, si fanno fare in tv reportage sui bambini siriani, oppure, se al Tg1 viene trasmesso un reportage sui bambini siriani, Repubblica farà fare ai suoi giornalisti lo stesso servizio. Questa è la circolarità dell’autoreferenzialità dell’informazione di cui parlava Pierre Gauthier più di 20 anni fa, lui che è stato uno dei più grandi osservatori dei media.

Quando un cronista che si occupa di cronaca italiana viene mandato all’estero a raccontare un fenomeno che è “estero”, perché il fenomeno dell’emigrazione presuppone una conoscenza della realtà e non si possono semplificare le cose, non gli si può chiedere di cogliere la complessità dei racconti. Chi fa cronaca italiana non capisce fino in fondo la differenza tra un siriano di Aleppo e un siriano di Damasco. Per lui sono la stessa cosa. Chi come me invece fa l’estero sa benissimo che un siriano di Aleppo ha subìto le bombe del regime e quindi può svilupparti una serie di racconti diversi da un siriano di Damasco, che ha subìto anch’egli le bombe ma in una condizione privilegiata, e, quindi, a lui dovranno essere richieste altre cose. È chiaro che in queste situazioni conta la preparazione specifica dei giornalisti. Però, come in tutte le situazioni emergenziali, è ovvio che un giornale o un telegiornale manda chi ha disponibile. E così ti ritrovi con un inviato degli esteri che va a fare i servizi a Rigopiano e un cronista che finisce sulla rotta balcanica per raccontare la migrazione dei Siriani.

La storia o le persone che più ti hanno colpito...

Il gruppo di siriani con cui ho viaggiato era un gruppo molto eterogeneo. In particolare mi ha colpito una famiglia guidata da una donna che era giudice della Corte costituzionale in Siria. Nel nostro immaginario i profughi sono “sfigati”. Lei non lo era affatto. Aveva circa sessant’anni ed era molto colta. Se fuggiva, probabilmente voleva dire che non c’era più futuro possibile in Siria. In Italia si sono raccontati i profughi come se fossero una massa indistinta. Quell’ondata migratoria era diversa. Fuggiva la borghesia siriana, fuggiva l’intellighenzia siriana. Era il segno che quel Paese, dopo quattro anni di guerra civile, si stava svuotando. E se si stava svuotando, il significato era che lì non si poteva più avere un futuro. La giudice andava in Svezia con i suoi figli che non avevano voglia di tornare in Siria. Era il segno di una distruzione di un Paese. Per raccontare questa storia, e altre storie simili, l’unico modo era quello di inserirsi in un gruppo di migranti.

Ti faccio un altro esempio: rotta Mediterraneo centrale, Libia. Nel mio ultimo reportage a luglio, mentre in Italia c’erano le polemiche contro le Ong e si metteva discussione un sistema di salvataggio dal mare cercando di fare accordi a livello governativo con i libici, io assistevo a ciò che invece in Italia, con una certa nonchalance, veniva messo da parte. Bloccare i migranti in Libia significava costringerli in una situazione simile ai lager nazisti di sessant’anni fa. I centri di detenzione libici sono al di sotto degli standard non solo internazionali ma anche regionali. Zero rispetto per i diritti umani, violenze e stupri. Tutto ciò mentre in Italia si discuteva se era giusto, o meno, tenere in piedi un meccanismo che consentiva di salvare i migranti in mare.

È un privilegio poter dedicare due mesi a un racconto dell’esodo, come hai fatto tu. Il meccanismo dell’informazione, con quella circolarità che hai descritto, è nemico della verità?

Il meccanismo dell’informazione ha delle storture che sono sempre più preoccupanti soprattutto nell’era digitale. Un’era in cui le notizie non arrivano più dalla macchina dell’informazione ma dai social, o direttamente dai citizen journalist, dai cittadini. Al sistema informativo viene richiesto di più. Il sistema informativo, se vuole sopravvivere e superare anche la crisi che attanaglia l’editoria, in Europa come negli altri continenti, deve poter dare di più. Questo “di più” non può che essere la capacità di contestualizzare le notizie, di approfondirle, di fornire racconti. Da qualsiasi fronte di guerra sono i cittadini che danno le foto e i primi video. È un lavoro indispensabile. Io non mi sento messo in causa, o sminuito, se le prime informazioni arrivano da loro. Quando entriamo in campo noi, però, dobbiamo dare di più, e questo non può che essere la contestualizzazione e la comprensione per l’opinione pubblica. L’impressione che si ha guardando telegiornale o sfogliando un giornale è che le guerre «nascono orfane e non fanno figli». Qual è il senso? Se qualcuno di noi avesse chiesto al suo caporedattore, o al direttore, di fare un servizio sui Rohingya in Myanmar o in Bangladesh avrebbe ricevuto un “no” assoluto. Adesso che i Rohingya sono in fuga, noi inviati andiamo a fare servizi, così la gente viene a sapere che ci sono anche loro. Se avessimo testimoniato la loro fuga tre mesi fa, forse avremmo contribuito ad evitare questa persecuzione, anche se, personalmente, non credo nel ruolo educativo dei media. Sono convinto, però, che i media sicuramente hanno degli obblighi: far capire ai cittadini quello che succede intorno. In un mondo globalizzato, quello che succede in Myanmar è quello che succede in India. Forse avremmo capito di più.

Foto di Maurizio Di Schino per Ucsi

Ultima modifica: Mer 13 Lug 2022