Giancarlo Siani, un modello per tanti giovani giornalisti

Il 23 settembre ricorre l'anniversario dell'assassinio di Giancarlo Siani. Sacrificò la vita per la verità, fu un martire della notizia. E in questo modo è diventato un esempio, anche un modello per tanti giovani cronisti. Lo è stato anche per Donatella Trotta, che racconta così il "suo" Giancarlo Siani (ar)

Caso o necessità interiore? Scelta, destino o entrambe le opzioni? La scintilla che accende (e fa divampare) il fuoco di una vocazione può anche essere più d’una.

Perché se è vero che noi siamo i libri che abbiamo letto, ma anche le persone che abbiamo incontrato, è dalla somma di queste esperienze relazionali - di tipo qualitativo, più che quantitativo, e come tali misurabili soprattutto in intensità - che nella vita di ognuno, al bivio delle scelte progettuali, si delinea a un dato momento con chiarezza la strada da percorrere. Per dare un senso pieno al proprio lavoro, come pure all’essere al mondo. In una logica di servizio. E in questa prospettiva, per ciascuno di noi le vie che portano al giornalismo possono allora essere molteplici.

La mia “via” parte da lontano, annidata in un atlante geografico, familiare e affettivo-emozionale di sradicamenti precoci: da Roma alle Grandi Antille, dalla Svizzera tedesca al Giappone fino, per scelta consapevole, a una contraddittoria e problematica “città-balia” mittelmediterranea all’ombra del Vesuvio. Ed è una via di soggettività femminile nomade (per dirla con Rosi Braidotti) che all’inevitabile spaesamento di bambina déraciné ha in compenso generato, da subito, le ali di una curiosità empatica verso l’altro da sé - nell’accezione che ne dà Julia Kristeva in Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità - unitamente all’attitudine antropologica a saper stare di casa ovunque, nel mondo. Con un insopprimibile, malcelato e altrettanto precoce amore per le parole come microcosmi di coscienza, preziosi strumenti di narr/azione e di incontro con gli altri. Le parole: non a caso, titolo di una intensa autobiografia di Jean-Paul Sartre suddivisa in due parti - Leggere/Scrivere - che connotano l’oscillazione unitaria di chiunque si nutra, e viva, di comunicazione e pensiero in senso lato.

Ma è stato poi l’impatto trasformante con la Parola biblica, e con il soffio ardente della Ruah che vivifica il Libro dei Libri, la prima fiamma ad accendersi, e illuminare con progressiva consapevolezza, un cammino di formazione preadolescenziale vissuto, comunitariamente, in seno al Movimento Eucaristico Giovanile: aggregazione laicale di spiritualità ignaziana con la mondialità e il servizio (alla Chiesa, all’uomo) nel suo Dna centenario. E non è forse un caso che, liceale 16enne all’estero, in costante contatto con la madrepatria anche grazie al Movimento, a feconde amicizie e figure gesuitiche di riferimento spirituale e agli annuali raduni ad Assisi, mi trovai così a scrivere la mia prima “inchiesta sulla fede” - sollecitata dai vertici del Meg, per la pubblicazione delle più significative pervenute sul giornalino del movimento - intervistando la variegata umanità multietnica e cosmopolita nella quale mi trovavo a vivere...mai immaginando, allora, che proprio quello sarebbe diventato il mio mestiere quotidiano.

Un’altra curiosa coincidenza: mio nonno materno, cilentano trapiantato a Napoli e ignaro della carica premonitrice del suo affettuoso lessico famigliare, mi aveva intanto ribattezzata la sua “Matildella”: con un omaggio esplicito (e, chissà, con un implicito e forse auspice augurio per la sua prima eclettica nipote) alla figura poliedrica di Matilde Serao: a due passi della quale egli abitava con mia nonna, e che aveva perciò avuto modo di conoscere, negli ultimi anni di vita della poligrafa, scrittrice e giornalista infraseculare di origini greche e residenza partenopea (fondatrice, fra il resto, del quotidiano “Il Mattino” dove, vent’anni dopo, avrei lavorato, dedicando dal 1990 studi e ricerche proprio a Donna Matilde e alla sua “via della penna e dell’ago” tra Otto e Novecento).

Studentessa universitaria alla “Federico II” del capoluogo partenopeo, iniziavo così, in anni di transizione, di crescita e di volontariato molto intensi e stimolanti, a maturare il mio sogno romantico nel cassetto senza peraltro alcuna certezza di una sua realizzazione, se non quella di una sicura volontà (quella sì, tutta seraiana) di scrivere, scrivere, scrivere. Per diventare, possibilmente, un giorno, donna-ponte tra mondi diversi, con quel “supplemento d’anima” che da solo riesce, secondo Henri Bergson, a realizzare una comunicazione autentica.

Devo soprattutto ai compianti (e indimenticabili) Paolo Giuntella, Pasquale Nonno e Giancarlo Zizola (che conobbi dopo i suoi inattesi e ripetuti commenti elogiativi radiofonici, durante la sua settimana a Prima Pagina, ad una mia giovanile inchiesta in più puntate sul “cristianesimo sommerso a Napoli”, poi insignita del Premio L’Altra Napoli ex aequo con Massimo Nava del “Corriere della Sera”) il precisarsi definitivo - con tanto di assunzione a tempo indeterminato dopo il praticantato nella redazione Cultura del “Mattino” - della mia vocazione professionale. Preannunciata da altre significative scintille: l’avvio di collaborazioni - occasionali e sparse - con più testate (della carta stampata periodica, tra le quali “Noi Donne”, “Panorama”, “Grazia”, “La Discussione”, o radiotelevisive, da Rai Tre a Canale 21); l’inaspettato successo delle mie prime corrispondenze e servizi da Tokyo, avvio della collaborazione con il “Mattino”, contemporaneamente alla laurea in Sociolinguistica e alla docenza di ruolo in zone di marginalità sociale dell’hinterland partenopeo, dopo aver vinto con il massimo dei voti il concorso a cattedre del 1983, mentre continuavo l’attività di ricerca e promozione culturale con la prospettiva, a quei tempi apparentemente più probabile, di intraprendere una carriera accademica.

Il nomadismo (geografico e mentale) stava insomma iniziando a dare i suoi primi frutti: con la pubblicazione dei miei primi libri, dedicati a figure femminili d’Occidente e d’Oriente, come la fondatrice delle Piccole Ancelle di Cristo Re (Il Cantico della Carità, edizioni Paoline, con prefazione di Bruno Forte) e la badessa buddhista giapponese della scuola Zen Soto Shundo Aoyama (La voce del fiume, San Paolo edizioni), accanto all’impegno nel sociale e nel dialogo interreligioso, attraverso convegni e incontri su altre figure-chiave della spiritualità novecentesca quali Chiara Lubich, Edith Stein e altre. Grata alla Provvidenza, mi sentivo fortunata per il crescendo entusiasmante di esperienze internazionali e incontri: con Premi Nobel della letteratura, cardinali e persino Pontefici, leader di altre religioni e capi di Stato, grandi poeti, artisti, filosofi e scrittori; ma anche con bambine, ragazzi e preadolescenti partenopei deprivati di zone socialmente fragili che nel nostro quotidiano incontro in aula potevano sperimentare altre vite e altri mondi possibili, anche grazie all’esperienza formativa e condivisa della lettura e della conoscenza. Esperienze e confronti che il mio doppio lavoro di docente e pubblicista, per quanto faticoso, mi consentiva.

Su questo binario della (in)formazione in senso antropologico continuavo a declinare così anche il mio lavoro giornalistico, oltre a quello di insegnante; finché una mattina all’indomani del 23 settembre 1985, entrando in aula con i consueti quotidiani sotto il braccio, leggo in prima pagina dell’assassinio, per mano della camorra, del mio coetaneo Giancarlo Siani: aspirante giornalista idealista, allora "cronista abusivo" del quotidiano “Il Mattino”. Lo choc fu il detonatore che fece deflagrare una risposta - allora - definitiva ai dubbi che attanagliavano la mia vocazione fino a quel momento al bivio della scelta tra scuola/università o redazione di giornale, assillata da un’unica ossessiva domanda: dove posso essere più utile?

Fu la morte di Giancarlo, per me, a convincermi. E la sua testimonianza-martirio è stata, per me, l’ultima scintilla a spingermi ad andare controcorrente, dando le dimissioni dallo Stato per abbracciare infine a tempo pieno l’avventura incerta - nella scia di Matilde Serao - del giornalismo. Che in fondo, “nel suo senso più alto”, altro non è che la “professione dell’interprete” (Walter William e Frank Lee Martin, The Practice of Journalism). Purché venga praticata con empatia e civismo, senza cinismo: secondo la lezione, tra gli altri, del grande reporter Ryszard Kapuscinski, uomo di frontiera che sapeva mettersi nei panni degli altri, prima di raccontarli.

Ultima modifica: Sab 23 Set 2023