Migrazioni e multiculturalità, le parole chiave per l'informazione

GUIDO MOCELLIN (2017), dalla rivista Desk

«I migranti non sono un pericolo, sono in pericolo». Pronunciata nel 2016, questa frase è solo una delle tante attraverso le quali papa Francesco, facendo perno sui viaggi a Lampedusa (2013) e a Lesbo (2016), ha dato e continua a dare un contributo decisivo alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica in tema di migrazioni. Se ne fanno forti numerosi vescovi, diventati più sicuri nel prendere a loro volta la parola o nel promuovere iniziative di accoglienza. Di conseguenza, le cronache danno più risalto che in passato alle organizzazioni caritative cattoliche (che si occupavano di migranti anche quando le gerarchie non offrivano loro una sponda pubblica così robusta) e naturalmente alle singole attività diocesane, fino al livello delle parrocchie e delle piccole comunità religiose (...)

A (...) A riflettere e a sostenere i sentimenti di quella quota di opinione pubblica che considera i migranti un pericolo contribuiscono alcune parole-chiave del discorso giornalistico sulle migrazioni e la multiculturalità, che in sé e per sé, o per l’uso che ne facciamo sui nostri media, configurano altrettanti pregiudizi dai quali guardarsi. Ne indicherò sette, in ordine rigorosamente alfabetico.

1. Comincio con le BADANTI. È parola divenuta d’uso dalla fine degli anni Ottanta e rappresenta un mutamento sociale. Indica «persone, nella maggior parte dei casi immigrate, che si occupano di anziani o disabili, soprattutto presso privati»; se infatti i badati sono fanciulli, si parla di baby sitter. Che ha una certa accezione positiva, mentre badante (che originariamente riguardava l’accudimento degli animali) ha accezione negativa, sia verso colui o colei che si bada, degradati nella loro umanità, sia verso colei (in genere è donna) che bada, contro la quale volgiamo in pregiudizi (fannullone, profittatrici, esose, a caccia di eredità, ladre, malfidate, ipocrite) i nostri sensi di colpa per non potere, volere né, a volte, sapere assistere personalmente i familiari bisognosi di cura.

Ma ai giornali la parola piace, perché è corta e tutti la capiscono, sebbene stigmatizzante. Piace al punto che nel 2011 è stata affibbiata, non proprio con simpatia, anche a chi è parso, a un certo punto, farsi interprete della volontà politica di Umberto Bossi a fronte della precarietà della sua salute: alludo a Rosi Mauro. Frattanto è sparita dai contratti di lavoro, attraverso i quali da tempo le Acli hanno il merito di aver imposto colf come punto di arrivo di una sequenza partita con serva e passata da domestica e da donna di servizio, e dove troviamo assistente familiare. Sono precarie anche quando sono regolarmente assunte, giacché, insieme al rischio di licenziamento, il rischio di morte del loro assistito/a è, ovviamente, piuttosto alto.

2. CLANDESTINI non è il termine giuridico per gli immigrati non regolari, che infatti, anche all’estero, si chiamano piuttosto senza documenti, sia in inglese, undocumented, sia in francese, sans-papiers. Del resto, allude a qualcosa di segreto perché difforme dalle leggi e dalle norme sociali: è clandestina, ad esempio, una relazione, in genere sessuale, che i protagonisti vogliono tenere nascosta. Ma i più corretti sinonimi irregolare e illegale rimandano comunque alla criminalità, al fuori-legge, in particolare dopo che la Bossi-Fini ha disciplinato come un reato l’«ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello stato». Alla criminalità rimandano senza eccezioni anche le cronache sui Centri di identificazione e di espulsione (Cie), oggi rinominati Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr): luoghi di detenzione a tutti gli effetti per stranieri in attesa di rimpatrio, in quanto senza permesso di soggiorno e colpiti da decreto di espulsione.

L’uso mediatico (riferito a chi entra nel Paese di nascosto, e privo di documentazione) e l’abuso (riferito a quegli immigrati ai quali il permesso di soggiorno è scaduto: senza cioè alcun possibile riferimento al modo in cui sono entrati in Italia) del termine ha a che fare con la retorica della sicurezza. Infatti i clandestini sono quelli che sbarcano a ondate, invadendoci dal mare (pensate a quali memorie storiche evocano queste immagini) come degli tsunami umani (e qui le memorie evocate non sono storiche ma di cronaca recente – infatti l’immagine la formulò Silvio Berlusconi), e generando emergenze. Fino all’espressione, tra il macabro e il ridicolo, che parla di clandestini morti durante il naufragio: se sono morti, non sono mai diventati clandestini. In realtà, particolarmente rispetto agli arrivi via mare, siamo per lo più di fronte a rifugiati: persone cioè che per fondati motivi non possono o non vogliono più vivere nel loro paese. Il riconoscimento del loro status prevede una richiesta e un’accoglienza: una pratica lenta, durante la quale queste persone sostano nei Centri di accoglienza. Queste strutture suscitano spesso in chi risiede nelle zone limitrofe un allarme sociale che le cronache narrano in termini di guerra tra poveri e di giusta rabbia delle periferie, chiamando disperazionequello che pare piuttosto razzismo.

3. Quando si parla di immigrati MUSULMANI, si parla quasi sempre di fondamentalismo, anche se il termine nasce per designare un movimento protestante negli Stati Uniti tra Otto e Novecento e si può in genere applicare a quelle aree che, in ogni religione, sostengono che non si possa né si debba mediare tra i fondamenti del proprio credo e le società e le culture in cui si vive, fino a pretese di coincidenza tra legge religiosa e legge civile.

In Italia, invece, è passata un’equazione secondo cui gli immigrati sono tutti musulmani, i musulmanisono tutti fondamentalisti (cioè islamici radicali ovvero islamisti), e gli islamisti sono tutti terroristi. Anzi: i terroristi sono solo islamisti. Tutti frequentano la moschea, intesa sbrigativamente come ogni sala di preghiera, dove gli imam, intesi erroneamente come una figura intermedia tra il parroco e il capo di una sezione di partito, li inciterebbero a praticare la jihad, intesa esclusivamente come guerra santa, fino al martirio; tutti sono pronti a eseguire le fatwa, intese prevalentemente come sentenze di condanna a morte; tutti vorrebbero applicata la sharia, intesa parzialmente come legge islamica.

Quanto poi alle donne musulmane, portano tutte il burka afghano (veste lunga e larga che copre anche il volto, salvo due fori per gli occhi), o al massimo il niqab (lascia tutti gli occhi scoperti), anche quando invece si coprono il capo con un più semplice velo o hijab: lo stereotipo della condizione della donna nell’islam fondamentalista è fortissimo.

In questo contesto, segnalo che, quando era ministro dell’Interno, Roberto Maroni istituì un Comitato per l’islam italiano che produsse, tra il 2010 e il 2011, tre «pareri», sui luoghi di culto islamici, sulla formazione degli imam e su burqa e niqab, ispirati al criterio di formulare leggi il più possibile «deconfessionalizzate». Avrebbero meritato migliore sorte, anche dal punto di vista della comunicazione.

4. L’espressione NEGRI ha valore spregiativo e risale allo schiavismo nordamericano: veniva chiamato negro, o nigger, lo schiavo di origine africana, e infatti arrivano da lì le locuzioni italiane negriero e lavorare come un negro, ma anche l’insulto: sporco negro. Evocando la passata condizione di schiavo esprime chiaramente una discriminante razziale, motivo per cui i neri americani hanno preteso, da cinquant’anni a questa parte, che non la si usasse più. Ma anche nell’eufemismo di colore, abbastanza corrente, la discriminante razziale pesa: poiché tutti abbiamo un colore, definire di colore i non bianchi denota un chiaro etnocentrismo.

Sempre dagli Stati Uniti arriva l’alternativa nero, che ad esempio è usatissimo nel basket, dove in alternativa a bianco e insieme all’altezza e all’età compone i parametri di ciascun atleta; ma, stando ai telefilm, anche nei rapporti di polizia. Africano o afroamericano è ancor più neutro, perché rimanda alla provenienza geografica, recente o remota. Meglio ancora, gli aggettivi che si riferiscono ai singoli Paesi di provenienza: nigeriano, congolese, eritreo...

Qualcosa di simile, purtroppo, allo schiavismo nordamericano dell’Ottocento si riscontra oggi in alcune delle nostre campagne, nei confronti dei braccianti stagionali africani soggetti a forme di grave sfruttamento, a condizioni di vita disumane e a vere e proprie privazioni della libertà. Infatti si deve ad alcune rivolte di questi braccianti (ad esempio, quelle del 2010 a Rosarno e a Nardò) il ritorno dei negri sulle prime pagine dei nostri giornali, insieme ai loro diretti sfruttatori: i caporali.

5. Non tutte le PROSTITUTE sono immigrate, ma certamente lo sono quasi tutte quelle che lavorano sulla strada, prevalentemente romene e nigeriane, spesso descritte come schiave del sesso proprio perché soggette, similmente ai loro coetanei maschi che lavorano nelle campagne, a forme di grave privazione della libertà (faccio notare, a margine, come quella stessa espressione, se volta al maschile: schiavi del sesso, denoti invece la dipendenza patologica di alcuni uomini dall’attività sessuale).

C’è infatti, all’interno della prostituzione, una scala sociale (che, se non sbaglio, Ferdinando Camon ha riportato al prezzo della prestazione) cui corrispondono diversi sinonimi di prostituta (a parte i notissimi epiteti volgari): dall’alto in basso, escort, squillo, passeggiatrici o peripatetiche, lucciole, fino appunto a schiave del sesso (...)

Vittime di tratta, o di inganno, vengono costrette a prostituirsi per ripagare, con interessi da usura, il costo del viaggio verso l’Occidente, o anche per proteggere i loro familiari da un presunto malocchio. Spesso, nel caso delle africane, il loro sfruttatore (un tempo si diceva lenone, o prosseneta) è una sfruttatrice, che chiamano maman e che è del loro stesso paese.

6. Quando descriviamo sui nostri giornali gli STRANIERI che sono in Italia, li caratterizziamo spesso sulla base della loro provenienza/etnia, ma anche tale caratterizzazione non è positiva, e neppure neutra.

Ad esempio, per diversi anni gli albanesi hanno avuto la palma della criminalità, cosicché venivano attribuiti a non meglio definiti albanesi ogni sorta di delitti, quasi sempre feroci o efferati (l’etimologia rimanda all’istinto animale), ben al di là non solo delle prove, ma anche di qualsiasi indizio. Accadde, clamorosamente, per le stragi di Novi Ligure (2001) ed Erba (2006), per le quale sono poi stati condannati degli italiani. Dopo l’ingresso del loro paese nell’Unione Europea, e quindi dopo la loro uscita dalla condizione di extracomunitari, tale stereotipo si è spostato sui romeni, che sono il 20% degli immigrati. A proposito poi di extracomunitari, l’accezione negativa, apparentemente giustificata dall’etimologia stessa (che invece ha origine tecnica: di paesi non appartenenti alla Comunità Europea), è palese: non lo diremmo mai di uno svizzero, né di uno statunitense.

È evidente che insistere sull’identità nazionale a proposito di persone accusate di reati conduce a criminalizzare migliaia, se non milioni, di persone. Dovrebbero saperne qualcosa gli italiani nati al Sud, accomunati in patria come all’estero dallo stigma di mafiosi. Fa eccezione il caso in cui lo straniero è vittima, perché spesso è tale proprio perché straniero. Ma negli altri casi è inutile e serve solo a sollevare un allarme sociale che, invece, rimane basso quando il delitto, a maggior ragione se efferato, si rivela opera di un italiano, come nei tanti femminicidi di cui sono costellate la cronaca nera e le sue talora morbose amplificazioni televisive.

Scambiare la nazionalità con l’etnia maschera in realtà una dinamica razzista, solo edulcorata dal fatto che non si parla di razza ma di etnia o cultura. Ad esempio, non esistono curdi di etnia irachena, mentre esistono iracheni (nazionalità) di etnia curda. Meglio dunque distinguere bene, e ancor meglio ragionare di nazionalità, di Paese di provenienza, piuttosto che di etnia.

Tra gli stranieri di cui invece si parla in maniera indistinta vi sono i minori. La loro sempre più evidente presenza nelle scuole è infatti enfatizzata con espressioni tipo baby immigrati o piccoli stranieri, di cui assisteremmo al boom: espressioni distorte tanto quanto quelle di classi ghetto e scuole ghetto, per descrivere tale presenza. Chi ne trae allarme dovrà farsene una ragione: tra 15 anni un bambino su cinque, a scuola, sarà un (nuovo) italiano di origine straniera.

7. Chiudo questa breve panoramica sulle parole pubbliche dell’immigrazione in Italia con un termine ormai desueto: VU’ CUMPRÀ. Insieme a quello del lavavetri polacco, lo stereotipo dell’ambulante nordafricano o subsahariano è stato il più penetrante quando il fenomeno di una nuova migrazione verso l’Italia ha cominciato a rendersi visibile, cioè a metà degli anni Ottanta, divenendone riassuntivo. Un suo sinonimo era marocchino, che tuttavia, in Italia, era già corrente, nelle regioni padane, per alludere non proprio amichevolmente alle migrazioni interne dal Mezzogiorno.

Il termine, decisamente canzonatorio, alludeva insieme all'ignoranza di queste persone rispetto alla lingua italiana e all’insistenza nell’offrirti la loro merce. Il suo radicamento è testimoniato da una fioritura di neologismi, quali: vu emigrà, titolo di un’inchiesta sulla immigrazione irregolare; vu restà?, in una ricerca sulle città più capaci di accoglienza verso gli immigrati, e vu’ studià a proposito di stranieri nelle università; vu’ cumplà, riferito alla comparsa, sulla riviera romagnola, di ambulanti abusivi cinesi; e infine vu’ drugà, che non ha bisogno di spiegazioni.

Al netto delle ricorrenti polemiche con i commercianti locali nelle località di villeggiatura, soprattutto marine, l’ultima volta in cui i vu’ comprà sono ritornati vistosamente nelle cronache nazionali è stata nel 2011, quando a Firenze un italiano estremista di destra, armato di pistola ha sparato su un gruppo di ambulanti in piazza Dalmazia, uccidendo due senegalesi e ferendone altri due, prima di suicidarsi: un delitto razzista subito battezzato: «La strage dei vu’ cumprà».

E tuttavia, alla luce dell’asprezza delle discussioni più recenti (da quella relativa alla legge sullo ius soli temperato / ius culturae a quella sui provvedimenti per la gestione degli sbarchi sulle coste italiane), riandare a quando gli immigrati erano solo dei vu' cumprà può dare la misura di quanto i sentimenti dell’opinione pubblica si modifichino in fretta: per molti essi erano un fastidio, per alcuni probabilmente un affare, ma ben pochi, credo, vedevano nei vu' cumprà un pericolo.

Ultima modifica: Gio 9 Mar 2023