Il giornalismo alla sfida del futuro. Il vero tema è la 'dignità'

Ringraziamo Sara Lucaroni per questo suo contributo al dibattito che stiamo proponendo sul futuro della nostra professione. L'occasione è il 60° anniversario del nostro Ordine professionale, con tante iniziative che si realizzano in tutte le regioni.

di Sara Lucaroni (*)

Qualche tempo fa ad un premio ho incontrato un collega, un grande veterano della professione: lo si vede in tv, è noto per il suo stile un po’ caustico, dice quel che pensa con una nettezza cosi elegante che solo quella da sola spiazza gli interlocutori. Chiedendo a me e ad una collega di noi e del nostro lavoro, ci disse: “I giornalisti non sono tutti uguali. Ci sono i grandi intellettuali, gli opinionisti, chi ha scritto decine di libri, quelli come me, e ci sono quelli che hanno scritto qualche articolo su un giornalino locale. Voi vivete della vostra professione?"

Mi ha ferito. Non perché lui in effetti non fosse un intellettuale, una persona di grande cultura ed esperienza, non che i suoi cachet e il suo successo non li meritasse. Tutt’altro. Ma perché ho visto che distanza ci fosse tra ieri e oggi, tra me e lui. In quel mondo suo lì, il mio ideale di “giornalismo romantico”, quello dei grandi inviati, dei grandi intervistatori, delle “interviste con la storia”, ci sono cresciuta, inseguendolo come un sogno. Non tutti i giornalisti di ieri sono stati come lui, il merito e il talento esistono. Ma la sensazione era che quel mondo avevo appena scoperto che forse mi disprezzava.

Ma lui si rendeva conto quanto sia cambiata la nostra professione? Quali mondi, tempi, accadimenti, scenari, contingenze, opportunità, ci separassero? Credo di no, o almeno non fino in fondo.

Ecco come è cambiata la nostra professione.

Dobbiamo avere capacità multimediali, saper creare notizie per ogni piattaforma, saper fare foto, video, dirette, unendo qualità, originalità e velocità, bisogna essere dei brand di noi stessi, fidelizzare i lettori, offrendo qualcosa che gli altri non offrono. Non si tratta solo di trovare le notizie, scriverle o filmarle. Dobbiamo quasi essere influencer, usare le stesse tecniche.

Capita che molti di noi non abbiano contratti e allora bisogna essere imprenditori di noi stessi. Chi fa un’inchiesta ci mette settimane o mesi, e si tratta spesso di viaggiare. A me è capitato di dover intervistare un ragazzo (gli era stato rubato un rene durante un’operazione) intercettandolo mentre da Colonia si spostava in Polonia per essere curato da una Ong: ho fatto tutto in 12 ore. A spese mie. L’inchiesta alla fine è valsa poco più di un lavoro fatto dalla scrivania. Capita di incappare in qualche querela temeraria: anzi, capita spesso. Va di moda chiedere anche direttamente risarcimenti danni, senza mediazioni, saltando talvolta la prassi giudiziaria. Anche in questo caso, senza una testata, molti colleghi pagano, ma poi smettono di scrivere. Perché è rischioso, perché anche se hai la piena contezza deontologica del lavoro fatto, non puoi permetterti di pagare uno studio legale. E allora cedi la tua libertà in cambio di “sicurezza”. E’ la morte del dovere-diritto di informare, è la morte del giornalismo. Capita che ti chiedano di essere molto veloce, di essere il primo, perché le persone si informano sui social e allora la notizia, con più particolari possibili, bisogna che sia in rete subito per generare il miglior traffico possibile sulla piattaforma. E poi più scrivi più guadagni. E allora ci sta di non avere il tempo di verificare. E’ la velocità a scapito dell’approfondimento, perché tanto le persone si informano sui social.

Quindi cosa lega me e i colleghi della mia generazione, e il giornalismo pensato dalla legge di cui celebriamo il compleanno il 3 febbraio, quella che fonda il nostro Ordine, in cui è cresciuto il protagonista di quelle parole al premio?

E’ la dignità della nostra professione.

L’articolo 2 di quella legge, che parla di diritti e doveri del giornalista, resta il cuore della nostra delicata, bellissima, complicata, professione:

È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”.

Il vero tema di questo articolo è la “dignità” del giornalismo e nel giornalismo. E’ stato scritto e pensato ieri, ma è un sentiero luminoso adesso, soprattuto per il nostro presente. Ci serve adesso.

Perché siamo sotto attacco. Non solo per le sfide della rete che è stata una vera rivoluzione, una fonte e un mezzo formidabili. I questi giorni si discute e ci si spaventa per l’applicazione dell’ intelligenza artificiale nell’informazione: ci sono programmi nei quali inserendo un input, una query, vengono scritti in automatico brevi articoli aggregando dati e informazioni già esistenti. A me personalmente non spaventa: le “macchine” e gli algoritmi non possono verificare quel che scrivono. Molte informazioni contenute in quei pezzi sono imprecise o false, sono inattendibili. Nessuno sostituirà mai un essere umano. E un giornalista.

Siamo sotto attacco. Perché c’è chi alimenta la paura, l’incertezza del futuro, il “cosa accadrà”: la pandemia, la crisi economica, la guerra vicina, la sfiducia crescente nella politica. E ovunque regna un “grande complotto” che nasconde la verità. Per cui, per tanti, la stampa è “serva del pensiero unico”, siamo “servi del potere”, “giornalai”, “pennivendoli”, e giù commenti sulla credibilità, la dignità, la professionalità. Se sei una donna poi, si toccano vette altissime.

Succede perché i lettori, i telespettarori, i radioascoltatori hanno da tempo l’illusione di potersi informare da soli. E’ la disintermediazione: “io mi informo da solo”, “l’ho letto in rete”, “ho trovato un sito che mi ha spiegato tutto sul covid, che mi dice come curarmi”, “c’è l’articolo di un professore della Virginia che mi spiega il cancro e come curarlo a casa”, "la guerra in Ucraina è un complotto”, “l’Olocausto non è mai esistito”.

Succede anche perché ci sono colleghi che non sempre rispettano la deontologia. Penso a certi titoli sparati, che sono costruiti su notizie false o faziose, perché ci si presta alla propaganda. O perché non si rettifica, non si chiede scusa ai lettori se si fa un errore. Oppure ci sono programmi che confondono il giornalismo con lo spettacolo e non fanno informazione ma danni.

Succede perché l’educazione digitale da noi in Italia è la grande assente. E’ capitato a molti di subire gli “shit storm” organizzati su Twitter. In genere partono da un regia ben precisa e quando si parla di migranti o di vaccini. O di ricevere attacchi da singoli utenti, anche molto violenti, per dissentire da noi, e lo fanno con un certo senso di impunità perché i sociali e la rete sono percepiti (vale anche per molti addetti all’informazione) come un mondo che nella realtà non esiste: online non è offline, quando entrambi invece sono la vita vera, senza soluzione di continuità. La libertà di opinione non è libertà di diffamazione.

Allora cosa possiamo fare? Non si tratta tanto del da farsi sul come difenderci, ma sulla sfida dobbiamo accogliere oggi. Come difendere la sacralità dell’informazione? Il diritto inviolabile dei lettori ad essere informati a crearsi un’opinione, ad avere sempre gli strumenti per saper leggere il mondo? Come possiamo continuare, in quest’epoca in cui ci sembra che la realtà e la verità si scomponga e tutto frani, a fare da radice e da albero, a garantire il senso critico dei lettori? Come contribuire alla garanzia dei diritti civili, umani, della libertà di espressione, di opinione laddove, nel mondo, si assiste alla loro erosione? Investendo sulla nostra dignità deontologica.

Formiamoci il più possibile imparando i nuovi linguaggi, potenziamo la nostra capacità di verifica, il fact-checking, l’analisi. Facciamo in modo che il lavoro di un giornalista sia davvero tale, affidabile, verificato, imparando ad usare e capire quello che la rete offre in termini di immediatezza.

Mettiamo al centro dell’informazione le persone. Facciamolo stando tra le persone, sulla strada, nei luoghi dove avvengono i fatti, usiamo “le scarpe” come dice Papa Francesco. Ascoltiamo.

Investiamo sull’approfondimento, sull’indagine, sulla spiegazione, sulla complessità: il mondo è complesso, le persone devono avere gli strumenti per capirlo. Semplificare la complessità vuol dire creare slogan, cancellare l’analisi, creare i presupposti per la manipolazione e la propaganda. Le parole definiscono il mondo che conosciamo.

E restiamo attaccati ai fatti, nel nome della trasparenza. Non solo quando scriviamo o filmiamo, dunque nelle procedure del nostro lavoro. Il giornalismo è anche un po’ autroreferenziale, talvolta parla a se stesso. A volte è il giornalista, la notizia: il giornalista che scrive di un fatto. Siamo invece trasparenti, anche come persone. Consapevoli che il mio modo di raccontare è una macchina da presa che non sarà mai uguale a quella di un altro. Perché dobbiamo avere delle opinioni, schierarsi. Essere “partigiani”, nel senso di lottare per qualcosa, checché ne dica la politica o gli editori, coi quali va tutelato un patto. “Libertà di stampa”: lo dice anche la nostra legge.

Infine tuteliamo tutte le multiformi figure che compongono oggi la professione. E interveniamo sulle querele temerarie, sui compensi, su chi lavora per più committenti, sui consorzi indipendenti, sui tanti tanti tanti freelance. Contestiamo con forza chi non fa conferenze stampa ma solo comunicati, perché sa che così’ non possiamo fare domande. E combattiamo chi vorrebbe confondere la comunicazione con l’informazione.

Io ho preso il tesserino con qualche difficoltà. Ho dovuto fare la procedura d’ufficio perché non avevo accumulato tutti i mesi necessari di praticantato. Ne avevo pochi, non volevano investire su di me. Succede spesso e succede a tanti colleghi.

E ci ho pianto su quel tesserino. Quando nessuno rispondeva alle proposte di articoli. Per me è una battaglia: caporedattori, direttori, rispondete alle mail dei giovani e dei colleghi freelance. Sempre, anche per dire “no”. Ci ho pianto perché non rinnovavano un contratto e allora dovevo ricominciare da capo: ogni contratto spesso è una vita diversa. Perché sento certe notti il peso di quei “doveri”: mi tiene incollata a libri e computer a studiare per un pezzo, magari piccolo, dentro il quale c’è una costellazione e nessuno se ne accorge. Perché non mi permette di acquistare qualcosa a rate, come un frigo: non offro abbastanza garanzie. E’ piccolo, ma il tesserino ha il peso specifico del piombo. Però non sapete quanto gli voglio bene. Perché è una sfida, perché mi fa essere chi racconto. Mi fa essere l’altro. Mi costringe a conoscere, imparare, ad essere tutti i giorni la migliore versione di me. Per me, e per chi mi legge e io non conosco.

* L'autrice, Sara Lucaroni, è intervenuta all'evento di Roma per i 60 anni dell'Ordine dei giornalisti

Ultima modifica: Mer 26 Apr 2023